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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.

Copyright © 2011 Ruggero Poggianella Photostream.

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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.

Copyright © Ruggero Poggianella Photostream.

All rights reserved. Please, do not use my photos/videos without my written permission.

Please note that the fact that "This photo is public" doesn't mean it's public domain or a free stock image. Unauthorized use is strictly prohibited. If you wish to use any of my images for any reason/purpose please contact me for written permission. Tous droits reservés. Défense d'utilisation de cette image sans ma permission. Todos derechos reservados. No usar sin mi consentimiento.

© Copyright: Você não pode usar !

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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.

Umbria- Bacco Minore (da Wine Passion - Febbraio 2009)

 

Fino a qualche anno fa l’Umbria aveva il sapore di un grappolo d’uva appena colto dalla pianta. I suoi vini svelavano il mistero delle profondità della terra e la presenza discreta della mano tradizionale dell’uomo. La vite cresceva alla rinfusa, abbracciata all’acero o alla bianchella, in promiscuità con il grano e con le altre coltivazioni foraggere. Ma erano piuttosto gli ulivi a caratterizzare il paesaggio agrario della regione. Ancora sul finire degli anni Settanta quella umbra poteva definirsi un’enologia arcaica, quasi ancestrale; tanto è vero che Mario Soldati, nel suo <> (1968 – 1975) la salta a piedi pari. Eppure già tra le due guerre, e fino all’inizio del boom economico, in Italia la parola “Orvieto” racchiudeva in sé la definizione inequivocabile di “vino bianco”. Poteva capitare in quegli anni, che l’oste chiedesse ai suoi clienti: <>. Sulle qualità organolettiche di quel vino di allora non saprei aggiungere altro, perché ne ho un vago ricordo che si perde nel tempo, fatto di calori appassionati, contrasti olfattivi, visioni adolescenziali, fiaschi impagliati e primi sorsi furtivi di libertà. So solo che al palato avvertivo le sue sfumature amarognole, alcune volte amabili e in certe bottiglie dei sentori dolci, ma sempre fini e delicati. Nemmeno sul suo colore si poteva scommettere: a volte giallo paglierino quasi intenso, altre più trasparente, ma mai torbido. Ci sarebbe da chiedersi perché quella denominazione, tra le più rappresentative del Paese, abbia perso la sua fama. Forse tutto è dipeso dal fatto che già negli anni Cinquanta nelle osterie italiane ne girava di più di quanto le ridenti colline dell’orvietano potessero produrne. La cosa dovrebbe farci riflettere. Ma il vino, si sa, non è soltanto quello che - talvolta con fastidiosa gestualità - volteggia all’interno del bicchiere. Il vino è soprattutto tante storie che vi ruotano intorno, è benessere e prosperità del distretto che lo produce, quadratura di bilanci locali, movimento di turisti e risorsa occupazionale.

Sfoglio alcuni libri ormai rarissimi: “I vini d’Italia” di Luigi Veronelli (1961); “Il libro d’oro dei vini d’Italia” di Cyril Ray (1966); “Vini rossi” e “Vini bianchi e rosati” di Stefano e Alberto Zaccone (1971); “Saper bere - dal Barbera al Whisky”, di Luigi Marinatto e Francesco Zingales (1974); l’”Atlante dei vini d’Italia” (1978), di Burton Anderson. I testi sacri mi confermano che nella storia dei territori consacrati all’enologia, le tre DOC allora riconosciute (Orvieto, Torgiano e Colli del Trasimeno) non meritavano che una fugace menzione. Per assistere al decollo dell’enologia umbra, per lunghi anni connessa a una situazione di abbandono, bisognerà attendere gli anni Ottanta, contrassegnati nella prima metà dalla figura pionieristica di Giorgio Lungarotti e nella seconda dall’exploit del Sagrantino. E’ questa una regione che, per uno scherzo della sorte, si connota d’incomparabili armonie e sfuggenti identità, secondo i fenomeni che più o meno consapevolmente l’attraversano. Il Sagrantino è uno di questi fenomeni, che oggi rappresenta l’Umbria, e la definisce, più di quanto non faccia l’Orvieto. Non è facile stabilire se questo risveglio sia solo merito dei Caprai, o anche dei produttori che hanno seguito il suo esempio. La disputa è aperta. Sta di fatto che Arnaldo, imprenditore tessile prestato all’enologia, ha creduto e investito nella ricerca e nella promozione, dando la prima coraggiosa spallata al mercato, puntando sul figlio Marco, vero elemento trainante per tutta la denominazione e, lasciatemelo dire, per l’economia legata al territorio. In verità non fu solo Caprai a comprendere le potenzialità di questo vino. Per Montefalco fu quello un periodo di grande complicità imprenditoriale, che spinse Arnaldo Caprai a unirsi alle altre aziende storiche: Antonini Angeli Mongalli, Domenico Benincasa, Ruozzi Berretta, Consorzio Agrario di Foligno, Bruno Metelli, Rio Pardi, Antonelli, Adelio Tardioli, Domenico Adanti; tutti produttori che giocarono la scommessa di trasformare in “secco” quello che la tradizione voleva fosse trasformato in “passito”. La caparbietà di questi produttori superò le resistenze di chi non aveva compreso le potenzialità dell’imponete corredo polifenolico di quest’uva a bacca rossa. Fu così che Montefalco, con il suo vitigno autoctono, lanciò la sfida al Barolo, all’Amarone e al Brunello, guadagnandosi un posto di assoluto rilievo nella storia del comparto enologico nazionale. Il Sagrantino è passato dai 100 ettari coltivati nel 2000 ai 600 di oggi e conta su 45 produttori facenti capo ad un consorzio di tutela. Ma soprattutto è entrato con prepotenza nelle grazie di quei consumatori che ricercano nel vino gli elementi misterici capaci di evocare storie e suscitare suggestioni. Oggi, contendendosi gli ultimi fazzoletti di terreno rimasti all’interno dei Comuni di Montefalco, di Giano, di Gualdo Cattaneo e di Bevagna è giunto il Gotha dell’enologia italiana, rappresentato dalla Sai Agricola, dai Lunelli, dai Livon, dai Cecchi e dagli stessi Lungarotti.

Il cuore pulsante di questa straordinaria denominazione si concentra lungo la direttiva che sale da Bevagna a Montefalco. E’ quello di Arquata, Fonte Fulgeri, Campo Letame e Colle Allodole, lo scenario francescano affrescato nel 1451 da Benozzo Gozzoli nella predica agli uccelli, che si può ammirare nella chiesa museo di San Francesco a Montefalco. All’interno di questa conca incontaminata prosperano le vigne delle aziende Adanti, Milziade Antano e Ciro Trabalza. Sul versante che volge a est, si affaccia Collepiano, con il suo secolare querceto circondato dai vigneti di Caprai. Risalendo verso Montepennino, si distendono a tappeto i nuovi impianti di Tiburzi, Goretti e Lunelli, produttori che hanno abbracciato la filosofia di questo lembo di territorio, dove il prezzo della terra, fino a un paio di anni fa, aveva raggiunto cifre esagerate. Proprio all’inizio di questa strada, in agro bevanate, incontro Ciro Trabalza, collega in codici e pandette, custode infallibile delle tradizioni rurali e venatorie della sua terra. La sua azienda di Arquata (ereditata da quel Ciro Trabalza, etnologo di fama mondiale) confina con quella degli Adanti. I tratti vagamente gattopardeschi, uniti al puntiglioso studio delle tecniche agronomiche - non meno di quanto il Principe di Salina studiava il moto perenne degli astri – fanno di Ciro uno di quei vignaioli che sarebbero piaciuti a Mario Soldati. Dalla sua cantina, a conduzione familiare, escono poche bottiglie, da cui Ciro si distacca con dispiacere. Più in là trovo Alvaro Palini, cantiniere, enologo e sarto dai trascorsi parigini, la cui esistenza è legata a quella della famiglia Adanti. Fu Angelo Valentini, enologo dei Lungarotti, che agli inizi degli anni Ottanta presentò Burt Anderson ad Alvaro, con il pretesto di fargli assaggiare il miglior Grechetto della zona. Burton in quegli anni era un critico di vini così importante come oggi lo sono diventati Hugh Johnson e Robert Parker, la cui influenza fu tale da incidere sul mercato vinicolo mondiale. Altro che Grechetto! Anderson fu colpito dal Sagrantino e dal Rosso d'Arquata. Fu così che tra Alvaro e Burton nacque una grande amicizia, suggellata dalla continua presenza di Anderson a Bevagna, Montefalco e al tavolo loro riservato nel ristorante degli amici Sandra e Angelo Scolastra. Oggi Burton ha lasciato lo scettro ad altri colleghi e ad altra filosofia. Sta costruendo il suo “buen retiro” in Maremma e di tanto in tanto viene a trovare Alvaro per assaggiare i suoi vini. Credo di non allontanarmi dalla verità nell’affermare l’influenza che ha avuto Burton Anderson sulla fama acquisita dal Sagrantino, che ebbe modo di far conoscere al mondo, prima che cominciassero a muoversi i soloni del nostro giornalismo enologico. Il resto l’ha fatto Caprai in anni più recenti, mandando a tilt la sua carta Alitalia delle Millemiglia per far conoscere il Sagrantino dalla Germania agli Stati Uniti, dal Giappone alla Cina. Oggi le cose stanno cambiando. Liù Pambuffetti, figlia di Amilcare e futura reginetta di Scacciadiavoli, studia all’Università di Enologia di Bordeaux. Non so quanti illustri rampolli di famiglie legate storicamente al vino facciano altrettanto. Giampiero Bea si fa ritrarre insieme a J. Nossiter, enologo di New York e regista di “Mondovino”, proponendo la sua faccia ai milioni di persone che hanno visto e vedranno i contenuti extra del film che denuncia la globalizzazione dell’industria vinicola. Il messaggio di Bea è lampante e si avvicina alla filosofia neoliberista di Nossiter: il vino è il frutto di un sapere che si trasmette tra padri e figli e la sua cura non va affidata alle decisioni dei soliti consulenti. Ma sono molte le aziende tradizionali che si sforzano di uscire dall’isolamento. Come quella di Luciano Cesarini, ingegnere ed ex capatazze dell’Enel che produce il “Rosso Bastardo” o quella di Filippo Antonelli, erede della nota azienda di San Marco o dello stesso Sindaco di Montefalco, Valentini Valentino (Bocale), che presiede l’Associazione Nazionale delle “Città del Vino” a dimostrazione della notorietà raggiunta nel panorama enologico nazionale dal Comune che egli amministra. Ma le sorprese più incoraggianti vengono da Tabarrini (Colle Grimaldsco) e da Antano (Colle Allodole), piccoli ma preparati imprenditori del settore, in sintonia con il mercato, ma senza far torto alla tradizione. Li ho visti aggirarsi per i padiglioni di Vinataly con padronanza e sicurezza del loro ruolo, corteggiatissimi dalla stampa e dai wine expert a caccia di novità enologiche.

Ad Amelia la fa da padrone il Cigliegiolo. La cantina dei Colli Amerini, con i suoi 700 ettari di vigneti di proprietà dei soci, produce anche La Torretta (Malvasia), il Vignolo (Grechetto), L’Olmeto (Merlot) e vini di grande struttura e longevità come il Carbio (un riuscito uvaggio di Merlot, Sangiovese, Ciliegiolo e Montepulciano) e il Torraccio (un I.G.T. monovitigno di Sangiovese Prugnolo). Sulla strada di Castelluccio Amerino incontriamo il Castello delle Regine, dove si produce un Sangiovese in purezza (Podernovo, Umbria I.G.T.).

L’Umbria è il vostro bicchiere, il cui contenuto liquido va manovrato con cura e attenzione. Solo così i contrasti apparenti e le piccole spigolosità dei suoi vini potranno farsi nel vostro palato note armoniche e lievi. Ma perché riveli il suo sapore eterno bisogna dedicarle tempo e attenzioni. Solo così potrete riconoscere nei suoi vini il vero e proprio ricostituente dell’anima che andavate cercando.

Giovanni Picuti

abcabc@cline.it

 

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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.

Copyright © Ruggero Poggianella Photostream.

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Please note that the fact that "This photo is public" doesn't mean it's public domain or a free stock image. Unauthorized use is strictly prohibited. If you wish to use any of my images for any reason/purpose please contact me for written permission. Tous droits reservés. Défense d'utilisation de cette image sans ma permission. Todos derechos reservados. No usar sin mi consentimiento.

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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.

Copyright © 2011 Ruggero Poggianella Photostream.

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Please note that the fact that "This photo is public" doesn't mean it's public domain or a free stock image. Unauthorized use is strictly prohibited. If you wish to use any of my images for any reason/purpose please contact me for written permission. Tous droits reservés. Défense d'utilisation de cette image sans ma permission. Todos derechos reservados. No usar sin mi consentimiento.

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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale..

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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.

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KURSUS ACLS 2018

(Advanced Cardiac Life Support)

  

TS Yang Terhormat,

Kami mengundang TS untuk mengikuti pelatihan ACLS Perki tahun 2018. Berikut kami informasikan jadwal pelatihan ACLS PERKI tahun 2018,yaitu :

 

Waktu*:

Periode 1 05-07 Januari 2018

Periode 2 12- 14 Januari 2018

Periode 3 19-21 Januari 2018

Periode 4 26-28 Januari 2018

Periode 5 02-04 Februari 2018

Periode 6 09-11 Februari 2018

Periode 7 16-18 Februari 2018

Periode 8 23-25 Februari 2018

Periode 9 02-04 Maret 2018

Periode 10 09-11 Maret 2018

Periode 11 23-25 Maret 2018

Periode 12 24 - 26 Maret 201

Periode 13 31 - 02 Mar – April 2018

Periode 14 07 - 09 April 2018

Periode 15 21 - 23 April 2018

Periode 16 28 - 30 April 2018

Periode 17 05 - 07 Mei 2018

Periode 18 12 - 14 Mei 2018

Periode 19 19 - 21 Mei 2018

Periode 20 07 - 09 Juli 2018

Periode 21 14 - 16 Juli 2018

Periode 22 21 - 23 Juli 2018

Periode 23 28 - 30 Juli 2018

Periode 24 04 - 06 Agustus 2018

Periode 25 11 - 13 Agustus 2018

Periode 26 18 - 20 Agustus 2018

Periode 27 25 - 27 Agustus 2018

Periode 28 08 - 10 September 2018

Periode 29 15 - 17 September 2018

Periode 30 22 - 24 September 2018

Periode 31 29 - 01 Sep – Okt 2018

Periode 32 06 - 08 Oktober 2018

Periode 33 13 - 15 Oktober 2018

Periode 34 20 - 22 Oktober 2018

Periode 35 27 - 29 Oktober 2018

Periode 36 03 - 05 November 2018

Periode 37 10 - 12 November 2018

Periode 38 17 - 19 November 2018

Periode 39 24 - 26 November 2018

Periode 40 08 - 10 Desember 2018

Periode 41 15 - 17 Desember 2018

Periode 42 22 - 23 Desember 2018

  

Tempat Pelatihan* :

 

PERKI HOUSE Jl. Danau Toba No.139 A-C, Bendungan Hilir, Jakarta Pusat

  

Biaya Pelatihan* :

 

Rp. 2.750.000 / Peserta

  

Fasilitas, yaitu :

 

● Pelatihan ACLS PERKI selama 3 hari (Hari Jumat sampai Minggu)

● Buku Panduan ACLS PERKI (2 Buah) versi bahasa Indonesia (Edisi Terbaru)

● Sertifikat ACLS PERKI (Akreditasi 14 SKP)

● Masa Berlaku Sertifikat 3 tahun

● Konsumsi (1x Lunch + 2x Coffee Break)/hari.

  

Persyaratan

Yang harus dibawa saat hari H , yaitu :

 

1. Fotokopi ijazah 1 lembar

2. Foto berwarna ukuran 4x6 sebanyak 4 lembar

3. Bukti transfer biaya pelatihan

4. Soal Pre Test yang sudah dikerjakan (Soal Pre Test ada di dalam paket buku ACLS)

  

Pembayaran:

 

Pembayaran dapat dilakukan dengan Transfer via Teller Bank / ATM / Mobile Banking/ Internet Banking ke rekening

 

MANDIRI KCP Jakarta RS Harapan Kita

No Rek : 117-000654139-5

a/n. YAYASAN PERKI – D

 

(Sebelum maupun Setelah melakukan transfer pembayaran pelatihan, mohon melakukan konfirmasi pembayaran ke kami agar data dapat diproses)

  

Materi

 

Materi yang akan diberikan saat pelatihan meliputi sebagai berikut :

Filosofi BLS , ACLS + Film; BHD Dewasa , AED , RJP Anak dan Bayi , Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Praktek dan Ujian BHD Dewasa, AED, RJP Anak dan Bayi, Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Post Test BCLS; Pre Test ACLS; Defribilasi; Perawatan Pasca Henti Jantung; Tata Laksana Jalan Nafas; Skill Station : Teori / Praktek EKG, Teori / Praktek Defribilasi, Teori / Praktek Airway Management; Hipotensi , Shock dan Edema Paru Akut; Sindrom Koroner Akut; Farmakologi dan Therapi; Skill Station :Teori / Praktek VT / VF – PEA – Asistole, Teori / PraktekTakikardi, Teori / Praktek Bradikardi; Skill Station : Kasus Komprehensif (MEGACODE); Ujian Postest; Ujian Praktek RJP berkelompok sebanyak 6 kelompok.

  

Pendaftaran via SMS/TELP/LINE/Whatsapps 08788 96 99 789 Ketik:

 

ACLS # Tgl Pelatihan # Nama Lengkap # No.Handphone, Kirim ke 08788 96 99 789

 

Contoh : ACLS # 6-8 Januari 2017 # Syifa Alia # 08788 96 99 789

  

Info dan Registrasi, dapat menghubungi

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Permintaan Kelas Kolektif di Jakarta maupun di luar Jakarta dapat menghubungi : (Telp/SMS/WA) 08788 96 99 789

 

Ket (*) : Jadwal & Biaya dapat berubah sewaktu-waktu ,untuk informasi lebih lanjut hubungi : 087889699789

  

Karena antusiasme tenaga kesehatan (dalam hal ini dokter) yang tinggi terhadap Kursus ACLS PERKI ini, maka kami secara rutin kami menyelenggarakannya. Untuk beberapa wilayah, kami rutin mengadakannya di setiap bulannya, bahkan ada wilayah yang kami selenggarakan setiap minggunya. Ada pula wilayah yang kami selenggarakan kursus ini setiap 2 bulan sekali. Ini semua tidak terlepas dari tingginya animo dan antusiasme para dokter dan tenaga medis lainnya yang membutuhkan kursus ini.

 

Berikut adalah draft rancangan jadwal pelaksanaan Kursus ACLS PERKI,

  

Tahun 2018

Januari 2018

Februari 2018

Maret 2018

April 2018

Mei 2018

Juni 2018

Juli 2018

Agustus 2018

September 2018

Oktober 2018

November 2018

Desember 2018

 

Tahun 2019

Januari 2019

Februari 2019

Maret 2019

April 2019

Mei 2019

Juni 2019

Juli 2019

Agustus 2019

September 2019

Oktober 2019

November 2019

Desember 2019

 

Tahun 2020

Januari 2020

Februari 2020

Maret 2020

April 2020

Mei 2020

Juni 2020

Juli 2020

Agustus 2020

September 2020

Oktober 2020

November 2020

Desember 2020

   

Tahun 2021

Januari 2021

Februari 2021

Maret 2021

April 2021

Mei 2021

Juni 2021

Juli 2021

Agustus 2021

September 2021

Oktober 2021

November 2021

Desember 2021

  

Tahun 2022

Januari 2022

Februari 2022

Maret 2022

April 2022

Mei 2022

Juni 2022

Juli 2022

Agustus 2022

September 2022

Oktober 2022

November 2022

Desember 2022

  

Tahun 2023

Januari 2023

Februari 2023

Maret 2023

April 2023

Mei 2023

Juni 2023

Juli 2023

Agustus 2023

September 2023

Oktober 2023

November 2023

Desember 2023

   

Untuk Informasi lebih lanjut mengenai Jadwal dan Ketersediaan tempat yang available, silahkan langsung menghubungi 0878-8969-9789 (WA/TELP/SMS).

  

Kursus ACLS PERKI ini sudah pernah dilaksanakan di hampir semua propinsi, yaitu diadakan di ibukota propinsi. Selain di ibukota propinsi, Kursus ACLS PERKI ini juga dilaksanakan di kota besar lainnya, dan juga di kotamadya/kabupaten lainnya. Hal ini tergantung dari permintaan para dokter, tenaga medis lainnya, atau bisa juga permintaan Rumah Sakit, Klinik, Puskesmas, Dinas Kesehatan, dan juga Instansi dari TNI/POLRI.

 

Oleh Karena permintaan para dokter dan instansi yang terkait, maka Kami pun menyelenggarakan Kursus ACLS inhouse training (kolektif). Untuk ACLS inhouse training (kolektif), kami mengadakannya di daerah/di lokasi yang lebih mudah dijangkau oleh para peserta.

 

Berikut adalah daerah-daerah yang pernah diadakan Kursus ACLS PERKI ini. Diantaranya adalah

  

Aceh,Medan,Padang,Riau,Pekanbaru,Jambi,Palembang,Bengkulu,Lampung,BangkaBelitung,Pangkal Pinang,TanjungPinang,Jakarta,Bekasi,Bogor,Depok,Tangerang,Tangerang Selatan,Cilegon,Yogyakarta,Bandung,Semarang,Cilacap,Purwokerto,Purbalingga,Banjarnegara,Kebumen,Purworejo,Wonosobo,Mungkid,Boyolali,Klaten,Sukoharjo,Wonogiri,Karanganyar,Sragen,Purwodadi,Blora,Rembang,Pati,Kudus,Solo,Yogyakarta,Surabaya,Madiun,Malang,Magelang,Tegal,Cilacap,Banten,Serang,Bali,Denpasar, Nusa Tenggara Timur, Kupang, Nusa Tenggara Barat, Mataram, Pontianak, Palangka Raya,Banjarmasin,Samarinda,Tanjung Selor,Manado,Palu,Makassar,Kendari,Mamuju,Gorontalo,Maluku,Maluku Utara,Sofifi,Papua,Jayapura,Papua Barat,Manokwari,Pandeglang, Lebak, Cilegon, Tangerang Selatan,Bandung, Bekasi, Cikarang, Bogor, Cibinong, Ciamis, Cianjur, Cirebon, Garut, Indramayu, Karawang, Kuningan, Majalengka, Pangandaran, Purwakarta, Subang, Sukabumi, Sumedang, Tasikmalaya, Banjar, Cimahi, Cirebon, Depok,Banjarnegara, Banyumas, Purwokerto, Batang, Blora, Boyolali, Brebes, Cilacap, Demak, Grobogan, Purwodadi, Jepara, Karanganyar, Kebumen, Kendal, Klaten, Kudus, Magelang, Pati, Pekalongan, Pemalang, Purbalingga, Purworejo, Rembang, Semarang, Sragen, Sukoharjo, Tegal, Temanggung, Wonogiri, Wonosobo, Salatiga, Surakarta,Bantul, Kulon Progo, Wates, Sleman, Yogyakarta,Bangkalan, Banyuwangi, Blitar, Bojonegoro, Bondowoso, Gresik, Jember, Jombang, Kediri, Lamongan, Lumajang, Madiun, Magetan, Malang, Mojokerto, Nganjuk, Ngawi, Pacitan, Pamekasan, Pasuruan, Ponorogo, Probolinggo, Sampang, Sidoarjo, Situbondo, Sumenep, Trenggalek, Tuban, Tulungagung Kota Batu, Blitar, Surabaya

    

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Kami akan selalu siap membantu.

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Ecco il modo in cui mi hai lasciato

Non sto cercando un pretesto

Nessuna speranza, niente amore, nessuna gloria

Nessun lieto fine

Ecco il modo in cui ci amiamo

Come se fosse per sempre

Allora vivi il resto della nostra vita

Ma non insieme

 

Piacere e Dolore - mostra fotografica "Fano in Foto"

 

View On Black

3530 ExLibris2 Domenico Zampieri Conceptvs imaginatio Francesco de Grado Domenico Zampieri (or Domenichino; October 21, 1581 – April 6, 1641) was an Italian Baroque painter of the Bolognese School, or Carracci School, of painters.

  

Incisione di F. de Grado, scultore e incisore napoletano.

www.treccani.it/enciclopedia/de-grado_%28Dizionario_Biogr...

  

en.wikipedia.org/wiki/Domenichino

 

(Bologna, 21 ottobre 1581 – Napoli, 6 aprile 1641)

Si è detto che fosse chiamato Domenichino per la piccola statura, è più probabile che il nomignolo si riferisse alla sua ingenuità e alla morbosa timidezza della sua indole.

Figlio del calzolaio Giovan Pietro e di Valeria, Lo chiamavano “il lento” o “il bue” per la taciturna lentezza e la modestia nell’esprimersi. Era virtuoso, ritirato, poco amabile con gli altri. Così timido e ingenuo da meritarsi il diminutivo del nome di battesimo. Il bolognese Domenico Zampieri aveva un carattere poco incline allo scontro cosicché quando il padre lo indirizzò verso lo studio delle lettere non si oppose, si limitò semplicemente a non dedicarvisi affatto. Fu solo quando il padre si avvide dell’assoluta inefficacia dei suoi studi che il Domenichino rivelò “d’esser chiamato con violenza dalla pittura“.

Fu allora allievo di un pittore manierista fiammingo, Dionigi Calvaert, che a Bologna impartiva i rudimenti della pittura a ragazzi dotati come lui (in quel tempo erano suoi condiscepoli Guido Reni e Francesco Albani), insieme col fratello maggiore – che rinuncerà bel presto alla pittura per tornare nella bottega paterna.

Anche in quel caso, temendo la collera del maestro, non rivelò d’esser attratto dalle nuove idee dei Carracci: erano i fratelli Agostino e Annibale e il cugino Ludovico che avevano fondato a Bologna, da più di tre lustri, un’Accademia detta dei Desiderosi in dichiarata opposizione agli eccessi del Manierismo. Il maestro lo scoprì a copiare da alcune opere di Agostino Carracci e lo cacciò in malo modo. Se ne andò a vent’anni a Roma in cerca di fortuna con l’incarico di collaboratore di Annibale Carracci.

Nel 1601 lascia Bologna per trasferirsi a Roma, insieme all’amico Francesco Albani, per studiare le opere di Raffaello e collaborare con Annibale Carracci, al tempo forse il più apprezzato pittore operante a Roma.

Nel 1601 la città eterna pullulava di artisti eccellenti: Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni, Francesco Albani, il Lanfranco, Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino, Giovanni Baglione solo per citarne alcuni. Non era facile essere notati. Soprattutto per un talento come il suo in cui il manifestarsi delle idee attraverso il disegno procedeva lentissimo dopo un’osservazione minuziosa e profonda sia dei corpi sia delle espressioni. Si dedicava in particolare alla mimica degli affetti che condensava in posture e sguardi di commovente semplicità. Studiava diligentemente l’anatomia e la geometria proiettiva affinché le figurazioni e le composizioni non fossero viziate da alcun arbitrio, ma armoniose, semplici, in linea con la ritrovata tradizione classicista.

Nella sua produzione trovano spazio ritratti ai nobili romani, affreschi a chiese, cappelle ed oratori, a Roma, nel viterbese, a Palermo, a Frascati, a Fano, a Napoli.

Fu scoperto da monsignor Giovanni Battista Agucchi, nipote del cardinale titolare della chiesa di S. Pietro in Vincoli a Roma. L’Agucchi era un fine teorico e cultore delle arti. Furono sue alcune tra le idee più brillanti in materia di teoria dell’arte del XVII secolo. Lo ospitò e lo incoraggiò. Di questo periodo quello che è considerato il suo capolavoro: LA CACCIA DI DIANA.

Il dipinto fu completato probabilmente nel mese di gennaio 1617. Il cardinale Scipione Borghese, l’uomo più potente a Roma dopo il papa suo zio, lo vide, avvertì l’eccezionale suggestione della metafora e se ne invaghì. Scipione Borghese non possedeva un esprit de finesse paragonabile a quello dell’Agucchi o del Domenichino, tuttavia era dotato di un fiuto insuperabile per le opere d’arte. Opere che immancabilmente faceva sue con ogni possibile mezzo.

Scrive Giovan Battista Passeri nelle “Vite de’ Pittori, scultori e architetti” (1772):

“Onde il Cardinale Scipione Borghese hauto avviso di questo bel quadro fatto da Domenico, se n’invogliò e glelo fece chiedere da sua parte, et egli si scusò se non lo poteva servire, perché l’aveva fatto pel Cardinale Aldobrandini di suo ordine. Sdegnatosi Borghese di questo mandò con violenza a levarglielo di casa e […] ordinò che Domenico fosse carcerato.” Il Passeri annota poi che, “fattolo scarcerare […] gli fece portare una certa somma di denari, che ebbe niente proporzione con la gran voglia che aveva mostrato d’havercela.”

Per un animo debole come quello del pittore il carcere e altre minacciate rappresaglie furono sufficienti a farlo cedere. Lo scorno per la violenza subita fu pari all’umiliazione di vedersi sottrarre un’opera commissionata dal cardinale Aldobrandini suo protettore.

Il meccanismo messo a punto dal cardinal nepote (Scipione Borghese) era purtroppo ben noto e collaudato e si era rivelato straordinariamente efficace in almeno due precedenti occasioni.

L’anno 1607 aveva fatto incarcerare e condannare a morte Giuseppe Cesari, più noto come Cavalier d’Arpino, uno tra i pittori più acclamati a Roma. Il pretesto era stato il suo possesso di una collezione d’archibugi. Per sottrarsi a morte certa il pittore aveva dovuto cedere al Borghese 107 dipinti presenti nel suo studio e tra quelli anche due tele del Caravaggio. Per soprammercato aveva pagato anche una penale di 500 scudi. La “forma”, tuttavia, fu preservata: l’artista firmò spontaneamente un atto di donazione alla Camera Apostolica.

Non era un grand’uomo il cardinal nipote, in compenso aveva fiuto e totale assenza di scrupoli. A considerare l’insieme delle colpe di cui si macchiò si è colti da vertigini: abuso di potere, sequestro di persona a scopo di estorsione, appropriazione indebita, violenza privata in concorso con una pletora di scherani, sicofanti e ruffiani. Così mentre a Milano si affermava l’ideale di una chiesa al servizio degli ultimi sostenuto in modo fulgido dal pensiero e dalle opere di San Carlo Borromeo e di suo cugino il cardinal Federigo, a Roma chi avrebbe dovuto sostenere la dura lotta contro lo scisma luterano dedicava tutte le sue energie all’illecito arricchimento, al compiacimento della propria vanitas di collezionista, all’esercizio crudele dell’afflizione e della persecuzione dei deboli. Un Don Rodrigo in sedicesimo questo Scipione Borghese, personaggio perfetto per la scena di un secolo in cui gli avventurieri non erano una genia atipica, un corpo estraneo nel cuore della società, ma, appartenenti a elites di ogni tipo, dai prelati agli artisti, agli aristocratici.

Al povero Domenichino non andò meglio negli anni successivi. Chiamato a Napoli per affrescare la cappella del tesoro del Duomo fu angustiato dalle continue maldicenze e calunnie dei suoi colleghi napoletani (quella che fu chiamata la “cabala di Napoli”, formata dai pittori Corenzio, Ribera e Caracciolo uniti per escludere dal loro ambiente l’artista bolognese) invidiosi di quell’incarico affidato a un bolognese.

Se ne andò a Frascati per trovar sollievo da un ambiente mefitico e ostile. Si dice addirittura che il Domenichino trovasse spesso rovinato il lavoro della giornata precedente. Per farlo tornare i committenti da parte loro non esitarono a sequestrargli la moglie e la figlia.

Non si sa se per paura o per un cattivo presentimento il 3 aprile 1641 stende il suo testamento, 3 giorni dopo morì di crepacuore, secondo altri addirittura avvelenato. Una targa a Roma, in Via S. Martino ai Monti, sulla facciata della casa che lo ospitò, ricorda quei patimenti.

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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.

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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.

Cammino lungo il margine della via Triboniano che costeggia il grande cimitero maggiore della metropoli. Si scorgono da lontano i grattacieli in costruzione e, in primo piano, cumuli di spazzatura che contrastano violentemente con quelle evidenze di una economia separata, ricca e incomunicante.

Un giovane con bicicletta alla mano procede dietro di me. Osserva la mia fotocamera al collo. Lo sento sputare per terra. Compio dei cenni distensivi e lui capisce. Mi affianca e poi passa oltre. Ad un tratto, mentre sto guardando altrove, si volta verso di me e mi ammonisce a non farmi rubare l'attrezzatura..

Non ho prevenzioni e timori perche' mi sto avviando al campo privo di qualsiasi logica di avversione e di ostilità. E' la curiosità che mi muove e la voglia di vedere, di testimoniare qualcosa di quella realtà cosi' drammaticamente portata alla ribalta della cronaca recente..

Ad uno degli ingressi dei quattro campi ROM un ragazzo sta appoggiato al muro con aria sfaccendata e affatto bellicosa. Mi avvicino perche' intuisco che per riprendere anche un solo fotogramma devo in qualche modo rompere il ghiaccio, farmi riconoscere, entrare in contatto personale.. E' piu' che altro una mia necessità istintiva psicologica.

Segue un breve dialogo. Mi presento non come fotografo o giornalista ma come uomo di parrocchia. E' un modo per non irritare e rassicurare quella gente.

Entro al campo da un viottolo di terra e asfalto sconquassato. Pochi mi notano e quei pochi non badano quasi a me. Sono sorpreso e titubante ma scatto qualche foto, con un vago senso di disagio che mi accompagnerà per la durata della mia breve esplorazione.

Pozzanghere per terra, buche, pietre, spazzatura distribuita ovunque a tonnellate.. Una radio a transistor trasmette musica melodiosa che si perde fra le roulotte adattate, le torrette elettriche fatiscenti, le tende, i panni stesi. Ci sono bimbi ben vestiti che scorrazzano all'intorno, ma non fanno chiasso e sembrano felici, come quelli della canzone di Claudio Lolli.

Non si odono rumori molesti. E' una quiete surreale da Purgatorio quella che circonda il campo immerso in una leggera foschia autunnale.

A breve distanza alcuni visitatori acquistano fiori per la visita al cimitero e non si curano degli zingari, ne' gli zingari si curano dei primi. I due mondi si ignorano.

Il ragazzo del campo mi ha riferito che l'AMSA passa al campo a ritirare i sacchi, ma in maniera insufficiente. Quel campo sembra terra di nessuno, terra sconsacrata dal municipio invece che dalla Chiesa. E' una Caienna moderna che le Istituzioni non possono rimuovere ma possono soltanto "dimenticare".

Mentre guardo una donna che lava accuratamente un tappeto con abbondante acqua corrente mi sorprendo a pensare che quegli zingari nomadi compiono, in fondo, gli stessi gesti semplici ed essenziali che compiono gli altri popoli stanziali e "moderni" che li ospitano.

 

(Ringrazio la redazione della rivista del volontariato della regione Lazio "Reti solidali", che ha apprezzato il mio reportage pubblicando questa istantanea in copertina del primo numero 2011

www.volontariato.lazio.it/retisolidali/default.asp)

   

Cervia (Žíria in dialetto romagnolo) è un comune di 29.000 abitanti della provincia di Ravenna in Romagna. La nota località balneare Milano Marittima è una frazione di Cervia.

 

La storia di Cervia è legata alla produzione del sale. Le saline erano probabilmente già in funzione in periodo etrusco e sicuramente sviluppate in periodo romano. È possibile che esistessero degli alloggi, o forse degli insediamenti, per gli addetti alle saline, anche stagionali.

Fino a tutta l'età romana la città ha mantenuto il suo nome di origine greca, Ficocle. Ficocle fu distrutta dall'esarca Teodoro nel 709 e in seguito, con il nome di Cervia, venne edificata come città forte, esattamente al centro delle saline. Nel 1697 Papa Innocenzo XII diede ordine di costruire la città attuale in un luogo più salubre.

 

Età Antica

Tra storia e leggenda, Cervia venne probabilmente fondata da coloni greci, che si stabilirono pochi km più a nord dell'attuale abitato. Secondo una delle leggende la città di Ficocle sarebbe stata fondata da un prode condottiero etrusco, Ficol, discendente di Giano, Re dei Latini, che, desideroso di rovesciare la tirannia ravennate, avrebbe posto le fondamenta di una città che portava il suo nome, com'era uso per la fondazione delle città in quel tempo.

 

Lo storico ravennate Vincenzo Carrari lasciò scritto nella sua "Storia di Romagna" che il nome dell'antica Ficocle deriverebbe da un capitano greco, o dal prefetto di Filippo I di Macedonia, nominato Ficocle, di cui Livio spesse volte fa menzione, o da Ficocle Arconte degli ateniesi, o dai popoli Ficolesi che l'edificarono, posta da Plinio nella quinta Regione d'Italia, o piuttosto da Ficolea, palude in cui era posta.

 

Pirro Ligorio attesta essersi trovata nel 116 dell'era cristiana, sotto le rovine del Foro di Traiano la seguente iscrizione:

« IMP. CÆS. NERVÆ

TRAJANO. DACICO. GER-

MANICO. PARTHICO

PONT. MAX. TRIB. POT. XVIII

IMP. VII. COS. VI. P.P. OPTIMO

PRINCIPI

RAVENNATI. CÆRE-

VIANI. CÆSENNATI

CUR. VIAR. TRA......

FAM........ »

 

In questa iscrizione con i più celebri ravennati e cesenati vengono ricordati anche i cervesi, ma molti eruditi archeologi e anche Ludovico Antonio Muratori hanno posto in dubbio l'autorità di tale iscrizione. Probabilmente non è originale in quanto nessun altro scrittore antico fa menzione della città di Cervia, tale ipotesi è suffragata dallo scrittore Ferdinando Ughelli.

 

Girolamo Rossi nelle sue "Storie Ravennati" vuole che Cervia fosse fra le cinque più nobili città componenti la pentapoli dell'Esarcato di Ravenna.

 

Il cardinale Ignazio Cadolini in una sua memoria stampata in Imola nel 1830 afferma che l'antica Ficocle avesse tratto la sua origine dai Pelasgi, ai quali si deve l'erezione non solo di essa, ma di anche molte città circostanti, tutte entro il territorio della Regione Adriatica.

 

Ipotizzando la non veridicità della lapide di Pirro Ligorio, restano i soli nomi di Ficocle o Ficode; ma questi nomi sembrano ignoti alla maggior parte degli scrittori antichi, o, se per caso sono menzionati da qualche parte, si pensa siano da riferire ad altre città e non all'antica Cervia.

 

Alcuni scrittori ritengono che il luogo fosse stato denominato Ficocle da parte di antichi greci per le proprietà particolari del posto. Di questa opinione è anche l'abate gesuita Pietro Antonio Zanoni che, nel suo "de Salinis Cerviensibus", a pagina 94 vi è scritto:

 

« Veteres consuevere Urbes denominare ab aliqua loci circumstantia, ut Pisaurum ab Isauro flumine Olana ab Olano. Hinc celebris haec nostra Urbs ex abundantia herbae marinae ab incolis dicta Biso, primum denominata est Phyclocle. »

 

« Gli antichi erano soliti denominare le città a partire da caratteristiche nelle adiacenze del luogo, come Pesaro dal fiume Isauro, Olana dall'Olano. Donde questa nostra celebre città, in un primo momento denominata Ficocle dall'abbondanza delle erbe marine dagli abitanti fu denominata Biso. »

(Pietro Antonio Zanoni - De salinis Cerviensibus - Pag. 94)

 

Infatti Phicocle deriva dal greco φῦκος, "alga", e da κλέος, "fama"; come a dire luogo celebre per alga marina, e questa nasce spontaneamente ed in abbondanza lungo tutti i canali, e massime in quelli dello stabilimento salifero, nel cui mezzo giaceva Ficocle. Gli abitanti chiamano quest'erba in termine volgare biso, la quale non è che un'erba sottile, capillacea simile al fieno che annualmente si toglie dai canali delle saline perché sia libero il corso delle acque.

 

Dagli albori del cristianesimo all'VIII secolo

Secondo gli statuti della città, il cristianesimo giunse intorno all'anno 50, per opera di Eleuterio, che fu il primo Vescovo inviato dall'Apostolo della Emilia Sant'Apollinare. La storia però non fornisce notizie certe che questo Eleuterio fosse il primo Vescovo di Ficocle, e non si conosce nessun altro che abbia ricoperto questo ruolo fino al 500, epoca in cui venne occupata da San Geronzio. La sua nomina è comprovata da documenti storici risalenti appunto a quell'anno, quando Papa Simmaco tenne un Concilio in Vaticano sull'invasione dei territori ecclestiastici e sulle vessazioni dei sacerdoti, al quale conciclio intervennero centotré vescovi, tra i quali è nominato appunto Geronzio Vescovo di Ficocle. Il medesimo vescovo partecipò al successivo consiglio a Roma, ma mentre faceva ritorno alla sua Chiesa fu ucciso presso Cagli. Di tale morte si ha traccia nel martirologio. Nei Bollandisti si trova la vita di S. Geronzio, nel quali il più che si parla è di Cagli, e specialmente del Monastero detto di San Geronzio, che esiste sin dal VII secolo, ed ha goduto di una certa fama per diversi secoli. L'esistenza di un Vescovo prova che a quell'epoca Ficocle era già città.

 

Dal martirio di San Geronzio non c'è nulla degno di nota nelle fonti storiche fino all'11 gennaio 595, quando, morto l'Arcivescovo di Ravenna, il suo successore si fregiava anche del titolo di Vescovo di Ficocle. Nello stesso anno, Maurizio Greco, tribuno dei soldati di Roma, compagno di Isacco, Esarca di Ravenna, lo denunciò di aver tentato di appropriarsi dell'Italia, e sotto questo pretesto, avendo simulato fedeltà all'Imperatore, si fece giurare fedeltà dai soldati, e dei cittadini Romani. Isacco, conosciuta la cosa, dopo aver mandato avanti le truppe a Roma, con grandi doni si ingraziò i soldati Mauriziani e li fece passare dalla sua parte; Maurizio, abbandonato dai suoi, fuggendo a Santa Maria Maggiore venne preso e mandato a Ravenna, e fu decapitato in loco cui Ficundae nomen est, che alcuni chiamano Ficocle, a dodici miglia da Ravenna.

 

Da quell'epoca fino al 649 non si ha altra notizia se non che Mauro, Arcivescovo di Ravenna, non potendo intervenire al Concilio di Roma, convocato dal Papa Martino, mandò in sua vece Mauro, Vescovo di Cesena, e Diodato, sacerdote Ravennate; ed al medesimo concilio intervennero molti vescovi soggetti a Ravenna, tra i quali è menzionato Bono Vescovo di Ficocle.

 

Nel 655 Pipino diede in dominio perpetuo al Pontefice Zaccaria la Pentapoli, le città dell'Emilia, e dell'Esarcato. La Pentapoli conteneva Ravenna, Cesena, Classe, Forlì e Forlimpopoli; e questa Pentapoli, secondo Rossi, era una parte dell'Esarcato: l'altra la chiamavano Emilia, la quale cominciando dal foro di Cornelio conteneva quelle città che dall'Appennino comprendono Bologna, Modena, Reggio, Parma, Piacenza e fino al Po.

 

Nel 709, in un'epoca piena di lotta e rancori, Ficocle subì la sorte solitamente destinata ai vinti. Infatti narrano gli storici che Giustiniano comandò a Teodoro, il quale, accresciuta la sua armata si stava recando in Sicilia, ad affrettarsi a Ravenna per sottomettere al Romano Pontefice Costantino l'arcivescovo Felice, reo di essersi ribellato. L'Arcivescovo ed i Capi della fazione, venuti a sapere della cosa, chiesero soccorso a tutte le città della Flaminia, e a tutto l'Esarcato, e dalle chiese soggette, tra le quali sono nominate, la Ficoclese, la Comacchiese, quella di Forlimpopoli, di Cesena, d'Imola e di Faenza.

 

Tomaso Tomai, storico di Ravenna, narrando di questo avvenimento scrisse:

« [...] che i capi della fazione con ogni studio si sforzarono di chiamar aiuto da tutte le città di Romagna, come di Ficocle, allora grande città » (Tomaso Tomai)

 

Fu in questa circostanza che Altobello Laschi, valoroso cittadino di Ficocle, andò con una milizia in soccorso di Ravenna e combatté l'esercito di Teodoro facendogli perdere molti uomini, ma questo sforzo fu di poco aiuto contro il numero dei soldati imperiali, di molto superiore alle sue poche forze. Il risultato che ne seguì fu il saccheggio della città di Ravenna.

 

Teodoro, a questo punto, si rivolse contro la cittadina romagnola e, poiché gli abitanti erano venuti a sapere dell'imminente sterminio ed erano fuggiti dalla città, trovandola vuota, si accanì contro le mura e la distrusse sin dalle fondazioni.

 

Questa distruzione non sancì la fine della piccola città di Ficocle, la quale risorse a poco a poco grazie ai cittadini superstiti.

 

Dal IX secolo al cambio di nome (1691)

Il Bricchi riporta il testo di una donazione fatta nel 815 al pontefice da Ludovico il Pio, successore di Carlo Magno, la quale, trovandosi negli archivi vaticani, asserisce:

« Io Lodovico Imperatore concedo a te Pietro Apostolo, Principe degli Apostoli, e per te al tuo Vicario ed ai suoi successori perpetuamente la città di Roma [...] ed anche tutto l'Esarcato della città di Ravenna, secondoché l'Imperatore Carlo mio Padre di pia memoria, e parimente Pipino nostro Avolo nel passato concedettero all'Apostolo S. Pietro, cioè Ravenna, Bobio, Emilia, Forlimpopoli, Forlì, Faenza ... »

ed in ultimo nomina Cervia.

 

Che il cambio di nome da Ficocle a Cervia sia avvenuto nell'VIII secolo, come questo documento riporta, è dubbio. Tuttavia è certo che ciò sia avvenuto fra il 900 e il 1000; a tal proposito è riportato in un Concilio di Ravenna del 997:

« Leo Episcopus Phycodensis, quae nunc Cervia vocatur »

« Leo vescovo di Ficocle, che ora è chiamata Cervia » (Concilio di Ravenna)

 

Il 5 gennaio 1115 a Forlimpopoli, si narra che Enrico V, dopo la preghiera di Matilde e di altri principi influenti, avesse sottratto il Cenobio di S. Vitale di Ravenna al dominio degli Arcivescovi, così che quei Monaci fossero soggetti solo a lui medesimo, e tra i possedimenti confiscati se ne enumerano molti situati nel cervese.

 

Le prime immagini di Cervia sono di alcune mappe del XV secolo in cui appare come una città fortificata e circondata dalle saline. Ha tre ingressi collegati alla terra ferma da ponti levatoi, un Palazzo Priorale, ben sette chiese e una rocca difensiva voluta, secondo la leggenda, da Barbarossa.

 

Sicuramente la posizione geografica che la rendeva facilmente difendibile, ma allo stesso tempo non garantiva agli abitanti una salubre condizione ambientale ed igienica. I canali che attraversavano la città e alimentavano le saline erano salmastri ed era scarsa l'acqua potabile. L'area che circondava le saline era dominata da aree acquitrinose dette "valli" in cui erano diffusa la presenza della zanzara portatrice della malaria. Durante la stagione invernale le piogge e il gelo rendevano impraticabili le strade per cui anche gli spostamenti da e verso i vicini centri maggiori erano difficoltosi. La crisi del XVII secolo colpì pesantemente l'abitato riducendone gli abitanti a poche centinaia. Già nel 1630 si cominciò a pensare al trasferimento di Cervia vicino alla costa, in una posizione geografica più salutare. Si dovrà attendere però il 9 novembre 1697, quando Papa Innocenzo XII, firmò il chirografo che conteneva l'ordine e le modalità di ricostruzione della città nuova.

 

Il documento indicava esattamente il numero delle case da costruirsi, la posizione della Cattedrale, del Palazzo Vescovile e delle carceri per una spesa complessiva di 35-40.000 scudi. Ampio spazio fu lasciato per i due Magazzini del Sale e la difensiva Torre San Michele, peraltro già costruiti dal 1691 sul bordo del corso d'acqua che oggi costituisce il porto canale. I magazzini si presentano come edifici massicci, in mattone, con pochi ingressi e particolarmente ampi internamente in modo da potere contenere enormi quantitativi di sale, circa 13.000 tonnellate.

 

La leggenda dell'origine del nome «Cervia»

Si narra che quando la città era interamente circondata dai boschi e dalle foreste, uno dei maggiori frequentatori di questi spazi verdi fosse il vescovo di Lodi e un giorno, mentre l'uomo passeggiava in pineta, un cervo, riconoscendolo come funzionario di Dio, gli si inginocchiò davanti in segno di devozione.

 

Da quel giorno risultò naturale chiamare la città Cervia, non solo per ricordare lo straordinario avvenimento, ma anche considerando che nelle pinete limitrofe i cervi erano particolarmente numerosi.

 

La versione sembrò convincente anche gli stessi cervesi, tanto che lo stemma della città rappresenta proprio un cervo dorato inginocchiato su terreno verde.

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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.

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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.

Copyright © 2011 Ruggero Poggianella Photostream.

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Please note that the fact that "This photo is public" doesn't mean it's public domain or a free stock image. Unauthorized use is strictly prohibited. If you wish to use any of my images for any reason/purpose please contact me for written permission. Tous droits reservés. Défense d'utilisation de cette image sans ma permission. Todos derechos reservados. No usar sin mi consentimiento.

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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.

A Day in the Life of Me: Students take pretest on reading skills in the computer lab.

In the Kennedy Space Center’s Press Site auditorium, Hans Koenigsmann, SpaceX vice president of Mission Assurance, speaks to members of the media at a pretest news conference prior to the SpaceX pad abort test of the Crew Dragon spacecraft. SpaceX will perform the test under its Commercial Crew Integrated Capability (CCiCap) agreement with NASA, and will use the data gathered during the development flight as it continues on the path to certification.

Photo credit: NASA/Kim Shiflett

Alla fine degli anni '80 il pro skater Steve Rocco avviò la skate company World Industries e preparò una serie di pubblicità provocatorie che però nessun giornale volle pubblicare. Il pretesto utilizzato dalle testate ufficiali Transworld e Thrasher fu quello di una bassa moralità delle campagne pubblicitarie, in realtà i giornali stavano proteggendo gli interessi delle grandi companies affiliate.

Steve allora decise di inventare un nuovo giornale indipendente che denunciasse l'idiozia delle regole dell'industria: “I want to inform what is really going on in skateboarding. The kids have a right to know” (Steve Rocco, The Concrete Wave,1999:162) e cosi nacque Big Brother. La rivista non ricavò molti soldi perché era solo un pretesto per diffondere le pubblicità scandalo della World. Il circuito distributivo di Big Brother si limitava agli skateshops e puntualmente Rocco minacciava un embargo delle tavole ai negozianti che si rifiutavano di vendere la rivista. Troppa droga e pornografia decretarono l'intervento della censura, infatti la presenza di materiale per adulti in una rivista letta prevalentemente da teen-agers rappresentava un grosso problema negli Stati Uniti. La goccia che fece traboccare il vaso fu una pubblicità disgustosamente splatter in cui uno skater, dopo diversi tentativi di tricks inconclusi, si faceva saltare le cervella. Fortunatamente la Larry Flint Pubblications (nota casa editorice pornografica) era alla ricerca di un nuovo giornale e così rilevò Big Brother ripulendolo dalle oscenità e dal cattivo gusto in cui era trasceso. La redazione rimase la stessa ma venne istituito un regolamento interno di autocensura e Big Brother riuscì contare su una migliore distribuzione nelle edicole. Nel 1990 la World Industries iniziò ad introdurre sul mercato delle tavole con shapes e grafiche assolutamente innovative, il motto dell'azienda era “Why not?”. La tavola “Mike Vallely animal farm” vide il debutto di Marc Mckee e Rodney Mullen rispettivamente come grafico e shape maker, due personalità in grado di cambiare per sempre le sorti dello skateboarding: l'era dei “pesci” (come vennero in seguito chiamate le vecchie tavole con shapes larghissimi e grafiche macabre) era tramontata. Sempre nel 1990 Steve Rocco iniziò a convincere altri pro skaters ad avviare delle companies indipendenti che minassero i grandi colossi industriali (the big five's domination), in questo modo si scatenò una reazione a catena. Senza nessuna reale pianificazione Mark Gonzales abbandonò la sponsorizzazione di Vision ed avviò la skate company Blind (l'esatto opposto di Vision). Nella primavera del '90 venne formata la New Deal che simboleggia il definitivo cambiamento nel business dello skateboarding. Una delle prime innovazioni della company fu quella di commercializzare un promo video negli skateshops prima che i suoi prodotti potessero essere ordinati. Il risultato fu l'immediata richiesta non appena iniziarono a comparire. Usando queste tattiche la New Deal riuscì ad emergere sulla scena e a diventare una delle maggiori board companies degli anni '90 rimanendo focalizzata sullo streetskating con l'inclusione di pro come Ed Templeton, Andy Howell, Steve Douglas e Andrew Morrison. L'anno successivo Natas Kaupas, amico di Gonzales e Rocco nonché inventore dello streetskating, avviò la skate company 101. Nel '92 la H-Street di Mike Ternasky divenne una division10 della World cambiando il nome in Plan B. Nel '93 il rider della Plan B Rick Howard entrò in dissapori con Ternasky e decise insieme agli altri skaters della Plan B di abbandonare lo sponsor ed avviare un'altra company, la Girl. Nel Gennaio del '94 la Girl diede vita ad una division che allontanò altri riders dalla Plan B, la Chocolate. Tragicamente Ternasky morì nel '94 in un incidente stradale e la Plan B scomparve dalla famiglia World . Infine nel '97 un'altra division della World venne avviata dal pro skater Rodney Mullen, la A-Team. Le demo di questa azienda furono animate da skaters estremamente seri e fedeli a Mullen, considerato quasi un profeta dello skateboarding. La World e Big Brother hanno prefigurato e accompagnato la tendenza che ha caratterizzato la quarta ed ultima ondata di diffusione dello skateboard, quella denominata new school, focalizzata sulle manovre tecniche di street mutuate dal freestyle e sull'hip-hop.

 

ANNI '90 E FRAMMENTAZIONE DEL MERCATO

Gli anni '90 videro la nascita di altre skate companies non direttamente collegate all'azione di Steve Rocco. Nel '90 Alien Workshop iniziò ad ispirare le proprie grafiche alle teorie della cospirazione aliena. La Alien superò i soliti design di teschi, sesso e violenza con una serie di “prodotti alieni”. Curiosamente un grande numero di appassionati di UFO iniziò ad acquistare la “Visitor” T-shirt e gli stickers ignorando completamente che fossero i supporti promozionali di una skate company. Nel '91 la Shorty's si specializzò in bulloneria e sucessivamente incluse una propria linea di tavole. Nel Gennaio del 1992 venne formata la Birdhouse Project dal pro skater Tony Hawk soprannominato “Birdman”. Sempre nel '92 Chris Miller avviò la Planet Earth. Nel 1993 venne creata la Zoo York per offrire una company rappresentativa della costa ovest. Invece, sempre a seguito degli incoraggiamenti di Steve Rocco, Tod Swank (inventore del feeble grind e fotografo di Transworld) avviò la Foundation nel 1989. Al tempo l'unica cosa di valore che possedeva Tod era una motocicletta Harley Davidson che venne venduta per cinquemila dollari utilizzati per avviare la company. Nel 1992 con ottomila dollari di vendite la Foundation divenne la più grande company nel business dello skateboarding. In quello stesso anno il pro Ed Templeton diede vita ad una division chiamata Toy Machine. Più tardi, nel '95, anche il pro Jamie Thomas ebbe l'idea di una ditta di vestiti, la Zero Division. Dopo il grande successo del marchio venne avviata anche la produzione di tavole Zero che diventò in poco tempo il brand più importante della Foundation. La Zero ha saputo sfruttare abilmente un'immagine hardcore dello skateboarding rivitalizzata nella seconda metà degli anni '90 dalla forte personalità di Jamie Thomas. Più o meno direttamente collegata alla World è stata anche la Real skateboards. La company venne avviata nel '90 quando Fausto Vitello visitò uno skateshop della east coast: “Il ragazzo disse che allo stesso modo in cui egli ordinava la pizza il giovedì, gli skaters venivano nel negozio e gli dicevano cosa ordinare alla World Industries. Tutto quello che vendeva era World Industries” (Fausto Vitello, The Concrete Wave, 1999:157).

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Please note that the fact that "This photo is public" doesn't mean it's public domain or a free stock image. Unauthorized use is strictly prohibited. If you wish to use any of my images for any reason/purpose please contact me for written permission. Tous droits reservés. Défense d'utilisation de cette image sans ma permission. Todos derechos reservados. No usar sin mi consentimiento.

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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.

In the Kennedy Space Center’s Press Site auditorium, Jon Cowart, partner manager for NASA’s Commercial Crew Program, speaks to members of the media at a pretest news conference prior to the SpaceX pad abort test of the Crew Dragon spacecraft. SpaceX will perform the test under its Commercial Crew Integrated Capability (CCiCap) agreement with NASA, and will use the data gathered during the development flight as it continues on the path to certification.

Photo credit: NASA/Kim Shiflett

Fotos del ensayo previo al concierto de Navidad, el día 16 Diciembre 2016, en la preciosa Iglesia del Espíritu Santo (Clerecía) en Salamanca. Un concierto de 16 villancicos populares que dejaron con ganas a nuestros espectadores que llenaban por completo la Iglesia.

 

Photos prétest le concert de Noël le 16 Décembre, 2016, dans la belle église du Saint-Esprit (clergé) à Salamanque. Un concert de 16 carols, qui ont laissé vouloir nos spectateurs qui ont rempli l'église complètement.

 

Photos of the rehearsal before the Christmas concert, on 16 December 2016, in the beautiful Church of the Holy Spirit (Clerecía) in Salamanca. A concert of 16 popular carols, which left our spectators eager to fill the Church completely.

all sizes.

 

salida a terreno con el amigo Patotux.

Fonte dell'immagine: La Chiesa di Dio Onnipotente

 

Condizioni d'Uso: Avviso legale e condizioni per l’uso

  

Non esistono trattamenti di favore nella Chiesa

  

Liu Xin Città di Liaocheng, Provincia di Shandong

 

Dopo aver seguito Dio, per anni avevo svolto il mio dovere lontano da casa e sentivo di aver sopportato alcune sofferenze e pagato un certo prezzo, così cominciai gradualmente a vivere di rendita e a sbandierare la mia anzianità di servizio. Quando vedevo che alcune persone nella Chiesa venivano sollevate dalle loro posizioni e mandate a casa a fare le devozioni spirituali e a riflettere su sé stesse perché erano superficiali nello svolgimento del loro dovere e interrompevano e scombussolavano il lavoro della Chiesa, pensavo: “Sono stata lontano da casa per tanti anni. Stando così le cose, la Chiesa sicuramente si prenderà cura di me. Anche se non faccio bene il mio lavoro, non mi manderanno a casa. Al massimo mi rimuoveranno e mi metteranno a fare qualcos’altro”. A causa di questo modo di pensare, non mi caricavo di alcun fardello sul lavoro. Chiudevo un occhio su tutto, e vedevo persino l’opera della evangelizzazione come un onere, barcamenandomi sempre tra impedimenti e pretesti. Anche se sentivo il mio cuore sotto accusa e la coscienza colpevole perché ero troppo in debito con Dio a causa del mio comportamento superficiale, e sapevo che prima o poi sarei stata rimossa, continuavo a lasciarmi trascinare da questa mentalità sperando di avere fortuna, sprecando i miei giorni nella Chiesa.

 

Dio è giusto e santo. Alla fine, dopo aver completamente rovinato il mio lavoro a causa del mio comportamento superficiale protrattosi nel tempo, fui rimossa dall’incarico e rimandata a casa per fare autocritica. Al tempo ne fui scioccata: come potevano non mostrare un po’ più di considerazione nei miei confronti? Dopo aver lavorato per tanti anni, ora devo tornare a casa, così, all’improvviso. Ma come posso affrontare la mia famiglia se torno a casa ora? Che prospettive avrò in futuro? … Nel mio cuore crebbe una gran confusione e io mi riempii di incomprensione e di biasimo verso Dio. Precipitai nell’oscurità, lottando nel dolore.

 

Preda di sofferenze estreme, mi presentai davanti a Dio e Lo invocai: “Oh Dio, ho sempre pensato che dopo aver lavorato lontano da casa per tutti questi anni e sofferto varie pene, la Chiesa non mi avrebbe trattata così. Ora vivo nell’oscurità, il mio cuore è pieno di incomprensione e di biasimo nei Tuoi confronti. Ti prego, abbi ancora pietà di me, così che possa ricevere la Tua illuminazione e la Tua guida in questa oscurità…” Dopo aver ripetutamente pregato in questo modo diverse volte, la parola di Dio mi illuminò. Un giorno, vidi queste Sue parole: “Non avrò alcun sentimento di pietà per quelli di voi che soffrono da molti anni e che lavorano duro con nulla da mostrare a questo proposito. Al contrario, tratto coloro che non hanno adempiuto alle Mie richieste con punizioni, non con ricompense, ancor meno con una qualche simpatia. Forse immaginate che, a motivo del fatto che siete dei seguaci da molti anni, avete lavorato con impegno, quale che sia questo lavoro, e che dunque, in ragione di questo, possiate ottenere una ciotola di riso nella casa di Dio in quanto servitori. Direi che la maggior parte di voi la pensa in questo modo, poiché fino ad oggi avete costantemente perseguito il principio di come trarre profitto da qualcosa e senza che altri si approfittino di voi. Pertanto vi dico ora in tutta serietà: non Mi preoccupo di quanto meritevole sia il tuo duro lavoro, di quanto impressionanti siano le tue qualifiche, di quanto d’appresso tu Mi segua, di quanto famoso tu sia, o di quanto migliorato sia il tuo atteggiamento; dal momento che non hai fatto ciò che ti ho chiesto, non sarai mai in grado di ottenere la Mia approvazione. […] poiché non posso portare nel Mio Regno, nell’età successiva, i Miei nemici e le persone intrise di male sul modello di Satana” (“Le trasgressioni condurranno l’uomo all’Inferno” in La Parola appare nella carne). Ogni parola di Dio rivelava la Sua maestà e la Sua ira, colpendomi là dove ero più vulnerabile come una spada a doppio taglio, mandando completamente in frantumi il mio sogno di “essere comunque in grado di guadagnarmi da vivere nella Chiesa grazie al lavoro svolto, anche se non era stato meritevole”. A quel punto, non ebbi altra scelta se non fare un esame di coscienza: anche se me ne ero andata via di casa e avevo compiuto il mio dovere al di fuori della mia famiglia in questi ultimi anni, e sembrava che in apparenza ne avessi pagato il prezzo e avessi sofferto un po’, non avevo considerato affatto la volontà di Dio, e non avevo mai pensato a come fare il mio dovere in modo corretto per soddisfare Dio. Invece, avevo agito superficialmente nel trattamento del mio lavoro. In particolare, in questo periodo non mi sono gravata di alcun fardello nel portare avanti l’opera di evangelizzazione e non ho sentito di dovere qualcosa a Dio. Ho persino trattato l’opera di evangelizzazione come un onere, pensando che se si fossero presentate altre persone nuove e io non avessi trovato nessuno in grado di nutrirle sarebbe stata solo un’ulteriore seccatura. Di conseguenza, non ho mostrato alcun interesse nell’opera di evangelizzazione e ho causato gravi perdite. Poiché non ho prestato attenzione all’opera di nutrimento delle nuove persone, alcuni nuovi credenti se ne sono andati perché non avevano nessuno che li nutrisse. La Chiesa mi aveva dato l’incarico di trovare famiglie ospitanti e di gestire altre questioni di carattere generale, ma io vivevo ancora in mezzo alle difficoltà e ai pretesti, rifiutandomi di collaborare con Dio. Inoltre, ero soddisfatta della mia situazione attuale e non cercavo di migliorare, diventando in una certa misura viziosa, perdendo seriamente l’opera dello Spirito Santo, e facendo precipitare nel caos vari aspetti dell’opera della Chiesa. Pensai al mio comportamento: come poteva tutto questo farmi adempiere il mio dovere? Stavo solo facendo il male! Ma in realtà sentivo che, per quanto il mio lavoro non fosse stato meritevole, almeno ci avevo messo impegno, e che in ogni caso avrei dovuto potermi guadagnare da vivere nella Chiesa. Quando la Chiesa mi rimandò a casa per riflettere su me stessa, pensai addirittura che mi fosse stato fatto un torto. Mi consideravo una collaboratrice della Chiesa, avanzando pretese nei confronti di Dio senza provare vergogna e vantandomi della mia anzianità di servizio. Ero davvero troppo irragionevole, senza un briciolo di buon senso! Questa mia indole era troppo detestabile e ripugnante per Dio! La Chiesa è diversa dalla società e dal mondo, in quanto l’indole giusta di Dio è spietata nei confronti di chiunque. Non importa quanto sei qualificato, quante sofferenze hai sopportato, o quanto a lungo Lo hai seguito. Se offendi l’indole di Dio, su di te si abbatterà soltanto l’ira e il giudizio di Dio. Come poteva una parassita come me, che non faceva davvero il suo lavoro e viveva alle spalle della Chiesa, essere l’eccezione di fronte alla giustizia di Dio? Fu solo allora che compresi che la mia rimozione dall’incarico e l’obbligarmi a riflettere su me stessa erano esattamente il giusto giudizio di Dio nei miei confronti. Furono anche l’amore e la salvezza più grandi che Dio potesse dare a questa Sua figlia ribelle. Altrimenti, sarei ancora aggrappata all’idea sbagliata di “essere comunque in grado di guadagnarmi da vivere nella Chiesa grazie al lavoro svolto, anche se non era stato meritevole”, addormentata nel bel sogno che avevo creato per me stessa, e alla fine vittima della mia stessa immaginazione.

 

Oh Dio! Ti ringrazio! Sia lode a Te! Anche se il Tuo metodo di salvezza non coincide con le mie nozioni, ora capisco le Tue intenzioni e vedo la Tua attenzione e il Tuo pensiero. Sono disposta ad accettare il Tuo castigo e giudizio, e attraverso di esso a riflettere adeguatamente su me stessa e conoscermi, conoscere la Tua indole giusta E, inoltre, sono disposta a pentirmi e a ricominciare da capo per diventare una nuova persona!

 

Fonte: La Chiesa di Dio Onnipotente

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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.

Umbria- Bacco Minore (da Wine Passion - Febbraio 2009)

 

Fino a qualche anno fa l’Umbria aveva il sapore di un grappolo d’uva appena colto dalla pianta. I suoi vini svelavano il mistero delle profondità della terra e la presenza discreta della mano tradizionale dell’uomo. La vite cresceva alla rinfusa, abbracciata all’acero o alla bianchella, in promiscuità con il grano e con le altre coltivazioni foraggere. Ma erano piuttosto gli ulivi a caratterizzare il paesaggio agrario della regione. Ancora sul finire degli anni Settanta quella umbra poteva definirsi un’enologia arcaica, quasi ancestrale; tanto è vero che Mario Soldati, nel suo <> (1968 – 1975) la salta a piedi pari. Eppure già tra le due guerre, e fino all’inizio del boom economico, in Italia la parola “Orvieto” racchiudeva in sé la definizione inequivocabile di “vino bianco”. Poteva capitare in quegli anni, che l’oste chiedesse ai suoi clienti: <>. Sulle qualità organolettiche di quel vino di allora non saprei aggiungere altro, perché ne ho un vago ricordo che si perde nel tempo, fatto di calori appassionati, contrasti olfattivi, visioni adolescenziali, fiaschi impagliati e primi sorsi furtivi di libertà. So solo che al palato avvertivo le sue sfumature amarognole, alcune volte amabili e in certe bottiglie dei sentori dolci, ma sempre fini e delicati. Nemmeno sul suo colore si poteva scommettere: a volte giallo paglierino quasi intenso, altre più trasparente, ma mai torbido. Ci sarebbe da chiedersi perché quella denominazione, tra le più rappresentative del Paese, abbia perso la sua fama. Forse tutto è dipeso dal fatto che già negli anni Cinquanta nelle osterie italiane ne girava di più di quanto le ridenti colline dell’orvietano potessero produrne. La cosa dovrebbe farci riflettere. Ma il vino, si sa, non è soltanto quello che - talvolta con fastidiosa gestualità - volteggia all’interno del bicchiere. Il vino è soprattutto tante storie che vi ruotano intorno, è benessere e prosperità del distretto che lo produce, quadratura di bilanci locali, movimento di turisti e risorsa occupazionale.

Sfoglio alcuni libri ormai rarissimi: “I vini d’Italia” di Luigi Veronelli (1961); “Il libro d’oro dei vini d’Italia” di Cyril Ray (1966); “Vini rossi” e “Vini bianchi e rosati” di Stefano e Alberto Zaccone (1971); “Saper bere - dal Barbera al Whisky”, di Luigi Marinatto e Francesco Zingales (1974); l’”Atlante dei vini d’Italia” (1978), di Burton Anderson. I testi sacri mi confermano che nella storia dei territori consacrati all’enologia, le tre DOC allora riconosciute (Orvieto, Torgiano e Colli del Trasimeno) non meritavano che una fugace menzione. Per assistere al decollo dell’enologia umbra, per lunghi anni connessa a una situazione di abbandono, bisognerà attendere gli anni Ottanta, contrassegnati nella prima metà dalla figura pionieristica di Giorgio Lungarotti e nella seconda dall’exploit del Sagrantino. E’ questa una regione che, per uno scherzo della sorte, si connota d’incomparabili armonie e sfuggenti identità, secondo i fenomeni che più o meno consapevolmente l’attraversano. Il Sagrantino è uno di questi fenomeni, che oggi rappresenta l’Umbria, e la definisce, più di quanto non faccia l’Orvieto. Non è facile stabilire se questo risveglio sia solo merito dei Caprai, o anche dei produttori che hanno seguito il suo esempio. La disputa è aperta. Sta di fatto che Arnaldo, imprenditore tessile prestato all’enologia, ha creduto e investito nella ricerca e nella promozione, dando la prima coraggiosa spallata al mercato, puntando sul figlio Marco, vero elemento trainante per tutta la denominazione e, lasciatemelo dire, per l’economia legata al territorio. In verità non fu solo Caprai a comprendere le potenzialità di questo vino. Per Montefalco fu quello un periodo di grande complicità imprenditoriale, che spinse Arnaldo Caprai a unirsi alle altre aziende storiche: Antonini Angeli Mongalli, Domenico Benincasa, Ruozzi Berretta, Consorzio Agrario di Foligno, Bruno Metelli, Rio Pardi, Antonelli, Adelio Tardioli, Domenico Adanti; tutti produttori che giocarono la scommessa di trasformare in “secco” quello che la tradizione voleva fosse trasformato in “passito”. La caparbietà di questi produttori superò le resistenze di chi non aveva compreso le potenzialità dell’imponete corredo polifenolico di quest’uva a bacca rossa. Fu così che Montefalco, con il suo vitigno autoctono, lanciò la sfida al Barolo, all’Amarone e al Brunello, guadagnandosi un posto di assoluto rilievo nella storia del comparto enologico nazionale. Il Sagrantino è passato dai 100 ettari coltivati nel 2000 ai 600 di oggi e conta su 45 produttori facenti capo ad un consorzio di tutela. Ma soprattutto è entrato con prepotenza nelle grazie di quei consumatori che ricercano nel vino gli elementi misterici capaci di evocare storie e suscitare suggestioni. Oggi, contendendosi gli ultimi fazzoletti di terreno rimasti all’interno dei Comuni di Montefalco, di Giano, di Gualdo Cattaneo e di Bevagna è giunto il Gotha dell’enologia italiana, rappresentato dalla Sai Agricola, dai Lunelli, dai Livon, dai Cecchi e dagli stessi Lungarotti.

Il cuore pulsante di questa straordinaria denominazione si concentra lungo la direttiva che sale da Bevagna a Montefalco. E’ quello di Arquata, Fonte Fulgeri, Campo Letame e Colle Allodole, lo scenario francescano affrescato nel 1451 da Benozzo Gozzoli nella predica agli uccelli, che si può ammirare nella chiesa museo di San Francesco a Montefalco. All’interno di questa conca incontaminata prosperano le vigne delle aziende Adanti, Milziade Antano e Ciro Trabalza. Sul versante che volge a est, si affaccia Collepiano, con il suo secolare querceto circondato dai vigneti di Caprai. Risalendo verso Montepennino, si distendono a tappeto i nuovi impianti di Tiburzi, Goretti e Lunelli, produttori che hanno abbracciato la filosofia di questo lembo di territorio, dove il prezzo della terra, fino a un paio di anni fa, aveva raggiunto cifre esagerate. Proprio all’inizio di questa strada, in agro bevanate, incontro Ciro Trabalza, collega in codici e pandette, custode infallibile delle tradizioni rurali e venatorie della sua terra. La sua azienda di Arquata (ereditata da quel Ciro Trabalza, etnologo di fama mondiale) confina con quella degli Adanti. I tratti vagamente gattopardeschi, uniti al puntiglioso studio delle tecniche agronomiche - non meno di quanto il Principe di Salina studiava il moto perenne degli astri – fanno di Ciro uno di quei vignaioli che sarebbero piaciuti a Mario Soldati. Dalla sua cantina, a conduzione familiare, escono poche bottiglie, da cui Ciro si distacca con dispiacere. Più in là trovo Alvaro Palini, cantiniere, enologo e sarto dai trascorsi parigini, la cui esistenza è legata a quella della famiglia Adanti. Fu Angelo Valentini, enologo dei Lungarotti, che agli inizi degli anni Ottanta presentò Burt Anderson ad Alvaro, con il pretesto di fargli assaggiare il miglior Grechetto della zona. Burton in quegli anni era un critico di vini così importante come oggi lo sono diventati Hugh Johnson e Robert Parker, la cui influenza fu tale da incidere sul mercato vinicolo mondiale. Altro che Grechetto! Anderson fu colpito dal Sagrantino e dal Rosso d'Arquata. Fu così che tra Alvaro e Burton nacque una grande amicizia, suggellata dalla continua presenza di Anderson a Bevagna, Montefalco e al tavolo loro riservato nel ristorante degli amici Sandra e Angelo Scolastra. Oggi Burton ha lasciato lo scettro ad altri colleghi e ad altra filosofia. Sta costruendo il suo “buen retiro” in Maremma e di tanto in tanto viene a trovare Alvaro per assaggiare i suoi vini. Credo di non allontanarmi dalla verità nell’affermare l’influenza che ha avuto Burton Anderson sulla fama acquisita dal Sagrantino, che ebbe modo di far conoscere al mondo, prima che cominciassero a muoversi i soloni del nostro giornalismo enologico. Il resto l’ha fatto Caprai in anni più recenti, mandando a tilt la sua carta Alitalia delle Millemiglia per far conoscere il Sagrantino dalla Germania agli Stati Uniti, dal Giappone alla Cina. Oggi le cose stanno cambiando. Liù Pambuffetti, figlia di Amilcare e futura reginetta di Scacciadiavoli, studia all’Università di Enologia di Bordeaux. Non so quanti illustri rampolli di famiglie legate storicamente al vino facciano altrettanto. Giampiero Bea si fa ritrarre insieme a J. Nossiter, enologo di New York e regista di “Mondovino”, proponendo la sua faccia ai milioni di persone che hanno visto e vedranno i contenuti extra del film che denuncia la globalizzazione dell’industria vinicola. Il messaggio di Bea è lampante e si avvicina alla filosofia neoliberista di Nossiter: il vino è il frutto di un sapere che si trasmette tra padri e figli e la sua cura non va affidata alle decisioni dei soliti consulenti. Ma sono molte le aziende tradizionali che si sforzano di uscire dall’isolamento. Come quella di Luciano Cesarini, ingegnere ed ex capatazze dell’Enel che produce il “Rosso Bastardo” o quella di Filippo Antonelli, erede della nota azienda di San Marco o dello stesso Sindaco di Montefalco, Valentini Valentino (Bocale), che presiede l’Associazione Nazionale delle “Città del Vino” a dimostrazione della notorietà raggiunta nel panorama enologico nazionale dal Comune che egli amministra. Ma le sorprese più incoraggianti vengono da Tabarrini (Colle Grimaldsco) e da Antano (Colle Allodole), piccoli ma preparati imprenditori del settore, in sintonia con il mercato, ma senza far torto alla tradizione. Li ho visti aggirarsi per i padiglioni di Vinataly con padronanza e sicurezza del loro ruolo, corteggiatissimi dalla stampa e dai wine expert a caccia di novità enologiche.

Ad Amelia la fa da padrone il Cigliegiolo. La cantina dei Colli Amerini, con i suoi 700 ettari di vigneti di proprietà dei soci, produce anche La Torretta (Malvasia), il Vignolo (Grechetto), L’Olmeto (Merlot) e vini di grande struttura e longevità come il Carbio (un riuscito uvaggio di Merlot, Sangiovese, Ciliegiolo e Montepulciano) e il Torraccio (un I.G.T. monovitigno di Sangiovese Prugnolo). Sulla strada di Castelluccio Amerino incontriamo il Castello delle Regine, dove si produce un Sangiovese in purezza (Podernovo, Umbria I.G.T.).

L’Umbria è il vostro bicchiere, il cui contenuto liquido va manovrato con cura e attenzione. Solo così i contrasti apparenti e le piccole spigolosità dei suoi vini potranno farsi nel vostro palato note armoniche e lievi. Ma perché riveli il suo sapore eterno bisogna dedicarle tempo e attenzioni. Solo così potrete riconoscere nei suoi vini il vero e proprio ricostituente dell’anima che andavate cercando.

Giovanni Picuti

abcabc@cline.it

 

"Digital Reconstruction of the Domus Aurea within the pre- Colosseum valley (ca. 64-68 AD)."

Foto source, and permission to be republished on this site by: Edward Grad. Rome, April 2010, Copyright and All Rights Reserved 2010.

Foto fonte, il permesso di essere ripubblicato su questo sito e tutti i diritti riservati da: Edward Grad, 04/2010

 

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RISCOPERTE APRIRA' VENERDI' A ROMA UNA SEZIONE DELL' ENORME EDIFICIO VOLUTO DALL' IMPERATORE INCENDIARIO UNA VILLA GRANDE IL DOPPIO DEL LOUVRE COSTRUITA SUL COLLE OPPIO. DI CUI ORA SARANNO ACCESSIBILI TRENTADUE STANZE

DOMUS AUREA La reggia di Nerone.

 

di Colonnelli Lauretta, Carandini Andrea, Bertelli Carlo. Corriere della Sera (23 giugno 1999), Pagina 33.

 

RISCOPERTE Aprira' venerdi' a Roma una sezione dell' enorme edificio voluto dall' imperatore incendiario Una villa grande il doppio del Louvre costruita sul Colle Oppio. Di cui ora saranno accessibili trentadue stanze DOMUS AUREA La reggia di Nerone Un cantiere aperto: e' quello che si troveranno davanti i visitatori venerdi' prossimo, entrando nel labirinto di sale della Domus Aurea. "Cantiere in fase di sperimentazione", si affannano a ripetere i restauratori che sotto la sovrintendenza di Adriano La Regina si son dati da fare per vent' anni intorno agli affreschi che ancora rimangono ma che rischiano di svaporare se le tecniche messe in atto da architetti, ingegneri, archeologi, fisici, biologi e botanici, dovessero rivelarsi inefficaci. Sotto il controllo dell' architetto Antonello Vodret, hanno consolidato le volte minacciate dalle infiltrazioni d' acqua, sostituito il vecchio impianto di illuminazione, installato un sofisticato impianto contro l' umidita' che nei meandri sotterranei della Domus arriva al 98 per cento. In passato si pensava che la cura migliore fosse di ventilare gli ambienti e furono aperte una trentina di bocchette di aereazione. Poi ci si e' accorti che la ventilazione attirava in superficie l' acqua dei muri, ma anche i sali in essa disciolti, che andavano a cristallizzarsi sulle pitture rovinandole. Inoltre le correnti d' aria trasportavano nel sotterraneo agenti inquinanti e pulviscolo, accelerando i processi di degrado. Allora si e' fatto dietrofront, sigillando tutte le aperture, compreso il grande occhio aperto in mezzo al soffitto della Sala Ottagona, coperto con una pellicola opalina che diffonde la luce ma non lascia passare pioggia e vento. Ora il problema e' riuscire a tenere sotto controllo il microclima, con una temperatura costante di 12 gradi. Come l' apertura al pubblico influira' su questo microclima e' un mistero. Tra un anno si fara' il punto e si decidera' di conseguenza. Decisione rinviata anche per i graffiti tracciati sopra gli affreschi. Un numero infinito di "vandali", illustri e non, hanno lasciato la loro "firma" sulle pitture realizzate da Fabullus (o Famulus) per Nerone. Elio Pattarani, coordinatore dei 55 resaturatori che hanno ripulito 1.200 metri quadrati di affreschi sui 30 mila metri quadri scoperti finora, racconta che si passa dai graffiti veri e propri, agli scritti eseguiti con il nerofumo delle candele, dai nomi tracciati a sanguigna a quelli (dal ' 700 in poi) disegnati con la grafite. Il problema e' se cancellarli o no. Ma come si fa ad eliminare "vandalismi" che portano la firma di Giovanni da Udine e di "Pintoricchio sodomito", del Bigordi (il Ghirlandaio) e del celeberrimo fiammingo Martin van Hemmskeerk, di Casanova e De Sade, di Gustavo re di Svezia che nel ' 700 "imbratto" con la sua firma e quella degli innumerevoli cavalieri che lo accompagnavano oltre un metro quadrato di pitture? Un altro fiammingo, Postumus, fece di piu' : firmo' le volte affrescate della Domus e poi le ritrasse, graffiti compresi, in un quadro che rappresentava la fucina di Vulcano. "Abbiamo deciso di salvare i graffiti storici", racconta Pattarani. Ma per "storici", finora, si intendono quelli tracciati fino al 1950. Come dire che sono stati conservati tutti, escludendo solo le frasi del tipo "viva la Lazio" o "amo Maria". I restauratori sanno che questa non e' una soluzione. Anche perche' gli scritti, essendo tracciati sopra gli strati di calcare che ricoprono le pitture, non permettono di riportare alla luce queste ultime. Esempio eclatante: la stanza di Ettore e Andromaca. Per decidere quali siano degni di tutela, si aspetta che venga nominato un comitato di esperti dal ministero dei Beni culturali. Nel frattempo i restauratori ne hanno realizzato una documentazione grafica e fotografica completa, a disposizione degli studiosi. Lauretta Colonnelli

 

Una Versailles antica con quattrocento sale e un palco girevole Augusto viveva sul Palatino vicino alla capanna di Romolo e ai piedi del Tempio di Apollo nel cui podio aveva annidato le stanze preferite. Caligola aveva un ponte sul Velabro per collegare casa sua a quella di Giove Ottimo Massimo. Nerone ha una reggia che non conosce confronti. + forse lui a scatenare l' incendio in un giorno ventoso del 64 d.C. - stessa data dell' invasione gallica, quattro secoli prima! - e mentre le case aristocratiche vanno in fumo lui canta Troia caduta. La nuova Roma sara' per un terzo sua (80 ettari). Palatino, Velia, Oppio e Celio, dove prima di Roma era il protostorico Septimontium, vengono espropriati per costruire palazzi fra giardini e paesaggi idillici. + sbagliato correre subito alle pitture dai colori "floridi" e dal tocco "umido" di Fabullus. Stucchi, ori, avori, gemme e statue sono ornamenti di una sola signora, l' architettura - di Severo e Celere - talmente vasta che per ammirarla bisogna spiccare il volo come un uccello dal Campidoglio. Oltre il Foro e' un vialone, con portici per nascondere le rovine: la nuova Sacra via. In fondo ecco una facciata larga come il Louvre di Luigi XIV e dietro - su un alto podio riusato poi dal tempio di Venere e Roma - l' atrio immane da cui spiccava il colosso del nostro divo, alto trenta metri. Fino al 1996 non si capiva a cosa conducesse questo atrio - il resto della reggia e' infatti lontano - finche' una donna piccola e determinata, Clementina Panella, ha svelato il segreto, di cui non si parlera' in questi giorni ma che e' novita' vera. L' atrio portava a un palazzo lungo due Louvre, che si specchiava in un lago rettangolare - dove sara' il Colosseo - circondato da portici a due piani. La facciata colonnata doveva rassomigliare a quelle delle ville nelle pitture pompeiane. Questo e' dunque il cuore della reggia che ci mancava, conservato soltanto in fondazione, ma che possiamo finalmente immaginare... Altri palazzi neroniani sono sul Palatino la Domus Transitoria (su cui sorgera' la reggia di Domiziano) e la Domus Tiberiana (costruita sopra la casa di Tiberio). Ma e' sull' Oppio che era la Versailles famosissima, con il piano terreno conservatosi sotto le Terme di Traiano, ed e' questo edificio che si riapre dopo una generazione, per grande merito della Soprintendenza statale. La Domus Transitoria e' male conosciuta. La Domus Tiberiana e' un basamento fantastico sul Palatino verso il Foro. Sosteneva giardini sardanapalici e al centro una villa - padiglione, ancora ignota. La Versailles sull' Oppio, rivolta al ninfeo e al tempio del Divo Claudio sul Celio, era stretta e lunghissima, quattro volte il Louvre. Due rientranze pentagonali esaltano il corpo centrale che racchiude il celebre salone ottagono, perfettamente orientato, aperto su un ninfeo (con organo idraulico?) e su quattro triclini, contenente forse un palcoscenico girevole. Qui immaginiamo lui, Apollo - Sole, cantare roteando sotto petali di rose e profumi che cadevano dall' occhione della cupola (e i commensali ad avere paura del veleno). Duecento erano le sale al piano terreno e altrettante al primo, che aveva probabilmente al centro, su terrazza coperta da una cupola (come da moneta), la macchina per far ruotare la cosmica sala sottostante. Nerone si uccise quattro anni dopo l' incendio. La sua celeste reggia venne ricoperta da terme, anfiteatri e mercati, vasti come Shopping Centre. di ANDREA CARANDINI

 

Lippi, Pinturicchio, Raffaello s' avventurarono nei cunicoli per arrivare alle antiche volte che contraddicevano ogni regola, principio di logica, legge di gravita' . E la loro arte non fu piu' la stessa L' universo sepolto che incanto' i pittori del Rinascimento Per molto tempo l' arte antica era stata un universo monocromo, noto soltanto dai rilievi e dalle statue superstiti oppure che gli scavi facevano riemergere e da oscure citazioni polemiche di Vitruvio. Che cosa fosse la pittura antica era meno noto nel Rinascimento che nel Medioevo, quando le candelabre sulla cupola di Santa Costanza, ora distrutta, erano state reinterpretate dai maestri romanici di San Clemente a Roma. I primi pittori che entrarono a carponi nei lunghi cunicoli (le "grotte"), interposti tra la terra di riempimento e le volte della Domus Aurea, furono sconcertati dalla vista di un universo che contraddiceva ogni principio di logica e di gravita' . La prima reazione fu di mettere ordine in quel repertorio abbondantissimo di invezioni e di disporlo quindi su assi di simmetria, come fece, in incisioni che circolarono negli studi di artisti e di artigiani, il milanese Giovanni Pietro da Birago, il primo a diffondere il nuovo vocabolario a mezzo stampa. Chi operava a Roma, come Pinturicchio e Filippino Lippi, non poteva non andare di persona nei lunghi percorsi sotterranei. Il loro passaggio e' attestato non soltanto dall' immediato appropriarsi del linguaggio sfrenato e inventivo di quella pittura antica, ma dalle firme che fino al Settecento i visitatori tracciarono sulle volte, quasi sempre servendosi del nerofumo sprigionato dalle torce. Nelle grotte gli stucchi spartivano piccole aree complesse, cui le composizioni dovevano adattarsi, sovvertendo cosi' il rapporto tradizionale tra scena e cornice. Il primo a ideare un ambiente somigliante alle "grotte", fu Raffaellino Del Garbo, compagno di Filippino Lippi, nella tomba Carafa alla Minerva, con storie di eroine romane in piccoli comparsi di stucco. Finche' Giovanni da Udine, nel primo decennio del Cinquecento, trovo' la formula di quello stucco bianchissimo e lucente che era stato il segreto dei romani. Ora si poteva immaginare sale e logge veramente all' antica, dove gli stucchi non fossero piu' soltanto cornici, ma una parte integrante, narrativa e simbolica, del discoro decorativo. Il segreto delle "grotte" non era tutto nelle risorse tecniche. Una fantasia illimitata, coperta dall' autorita' degli antichi, poteva ora espandersi. Altre volte i decoratori avevano dato nascostamente sfogo a invenzioni audaci, ma senza intaccare la ferma struttura della scultura classica. Le "grotte" invece invitavano alla grazia festosa e alla liberta' cromatica e a trasformare la decorazione da fatto marginale in episodio centrale, lieve e immaginoso. + Raffaello, nel 1516, a dare senso compiuto ai frammentari messaggi dell' antico, quando realizza le Logge Vaticane e soprattutto la Loggetta e la "Stufetta" per il Cardinale Bibbiena. Nella Loggetta il bianco dominante unisce volte e pareti e su questo fondo luminoso si distende una decorazione trasparente, leggerissima e fragilmente delicata, sostanziata di continue reinvenzioni del repertorio antico. Le fanciulle che si librano come libellule, gli steli da cui gemmano acrobati e teste leonine, i tempietti sostenuti dalle ghirlande, piu' che viceversa, rapiscono lo spettatore in una inesplicabile successione di eventi come in un sogno. Non si tratta soltanto di decorazione. + nato il concetto nuovo di una pittura senza storie da raccontare. Anche il paesaggio puo' essere ora un puro pretesto. Non nel senso dei fiamminghi, poiche' l' allievo di Raffello, Maturino, lo concepisce come un luogo di profonda e malinconica contemplazione, dove la natura contende l' eternita' ai tempi del passato classico. di CARLO BERTELLI

 

Durata dell' itinerario, metri, temperatura Tutti i numeri di un evento straordinario * 10 mila metri quadrati l' estensione finora conosciuta della Domus Aurea * 80 ettari l' estensione originaria tra edifici e giardini * 1.200 metri quadrati di pitture e stucchi restaurati su un totale di 30.000 mq. * 20 anni la durata dei restauri * 10 le ditte di restauro e 55 i restauratori * 32 le stanze visitabili, su 150 riportate alla luce * 220 metri il percorso della visita * 40 i minuti di durata della visita * 25 i visitatori ammessi ogni 15 minuti * 12o d' estate e 4o d' inverno la temperatura interna * 98 % il tasso di umidita' * 10 mila lire il biglietto d' ingresso piu' 2 mila per la prenotazione obbligatoria * 06.39749907 e 06.4815576 i numeri di telefono per prenotare * Dal 25 giugno l' apertura al pubblico: tutti i giorni dalle 9 alle 20 * 18.000 lire il costo della guida (Electa, 96 pagine) * 60.000 il prezzo del catalogo (Electa pagine 176) * 150.000 lire costa "Roma. Domus Aurea", album settecentesco con tavole a colori riprodotto da FMR

 

Colonnelli Lauretta, Carandini Andrea, Bertelli Carlo

 

Pagina 33

(23 giugno 1999) - Corriere della Sera

 

Umbria- Bacco Minore

 

Fino a qualche anno fa l’Umbria aveva il sapore di un grappolo d’uva appena colto dalla pianta. I suoi vini svelavano il mistero delle profondità della terra e la presenza discreta della mano tradizionale dell’uomo. La vite cresceva alla rinfusa, abbracciata all’acero o alla bianchella, in promiscuità con il grano e con le altre coltivazioni foraggere. Ma erano piuttosto gli ulivi a caratterizzare il paesaggio agrario della regione. Ancora sul finire degli anni Settanta quella umbra poteva definirsi un’enologia arcaica, quasi ancestrale; tanto è vero che Mario Soldati, nel suo <> (1968 – 1975) la salta a piedi pari. Eppure già tra le due guerre, e fino all’inizio del boom economico, in Italia la parola “Orvieto” racchiudeva in sé la definizione inequivocabile di “vino bianco”. Poteva capitare in quegli anni, che l’oste chiedesse ai suoi clienti: <>. Sulle qualità organolettiche di quel vino di allora non saprei aggiungere altro, perché ne ho un vago ricordo che si perde nel tempo, fatto di calori appassionati, contrasti olfattivi, visioni adolescenziali, fiaschi impagliati e primi sorsi furtivi di libertà. So solo che al palato avvertivo le sue sfumature amarognole, alcune volte amabili e in certe bottiglie dei sentori dolci, ma sempre fini e delicati. Nemmeno sul suo colore si poteva scommettere: a volte giallo paglierino quasi intenso, altre più trasparente, ma mai torbido. Ci sarebbe da chiedersi perché quella denominazione, tra le più rappresentative del Paese, abbia perso la sua fama. Forse tutto è dipeso dal fatto che già negli anni Cinquanta nelle osterie italiane ne girava di più di quanto le ridenti colline dell’orvietano potessero produrne. La cosa dovrebbe farci riflettere. Ma il vino, si sa, non è soltanto quello che - talvolta con fastidiosa gestualità - volteggia all’interno del bicchiere. Il vino è soprattutto tante storie che vi ruotano intorno, è benessere e prosperità del distretto che lo produce, quadratura di bilanci locali, movimento di turisti e risorsa occupazionale.

Sfoglio alcuni libri ormai rarissimi: “I vini d’Italia” di Luigi Veronelli (1961); “Il libro d’oro dei vini d’Italia” di Cyril Ray (1966); “Vini rossi” e “Vini bianchi e rosati” di Stefano e Alberto Zaccone (1971); “Saper bere - dal Barbera al Whisky”, di Luigi Marinatto e Francesco Zingales (1974); l’”Atlante dei vini d’Italia” (1978), di Burton Anderson. I testi sacri mi confermano che nella storia dei territori consacrati all’enologia, le tre DOC allora riconosciute (Orvieto, Torgiano e Colli del Trasimeno) non meritavano che una fugace menzione. Per assistere al decollo dell’enologia umbra, per lunghi anni connessa a una situazione di abbandono, bisognerà attendere gli anni Ottanta, contrassegnati nella prima metà dalla figura pionieristica di Giorgio Lungarotti e nella seconda dall’exploit del Sagrantino. E’ questa una regione che, per uno scherzo della sorte, si connota d’incomparabili armonie e sfuggenti identità, secondo i fenomeni che più o meno consapevolmente l’attraversano. Il Sagrantino è uno di questi fenomeni, che oggi rappresenta l’Umbria, e la definisce, più di quanto non faccia l’Orvieto. Non è facile stabilire se questo risveglio sia solo merito dei Caprai, o anche dei produttori che hanno seguito il suo esempio. La disputa è aperta. Sta di fatto che Arnaldo, imprenditore tessile prestato all’enologia, ha creduto e investito nella ricerca e nella promozione, dando la prima coraggiosa spallata al mercato, puntando sul figlio Marco, vero elemento trainante per tutta la denominazione e, lasciatemelo dire, per l’economia legata al territorio. In verità non fu solo Caprai a comprendere le potenzialità di questo vino. Per Montefalco fu quello un periodo di grande complicità imprenditoriale, che spinse Arnaldo Caprai a unirsi alle altre aziende storiche: Antonini Angeli Mongalli, Domenico Benincasa, Ruozzi Berretta, Consorzio Agrario di Foligno, Bruno Metelli, Rio Pardi, Antonelli, Adelio Tardioli, Domenico Adanti; tutti produttori che giocarono la scommessa di trasformare in “secco” quello che la tradizione voleva fosse trasformato in “passito”. La caparbietà di questi produttori superò le resistenze di chi non aveva compreso le potenzialità dell’imponete corredo polifenolico di quest’uva a bacca rossa. Fu così che Montefalco, con il suo vitigno autoctono, lanciò la sfida al Barolo, all’Amarone e al Brunello, guadagnandosi un posto di assoluto rilievo nella storia del comparto enologico nazionale. Il Sagrantino è passato dai 100 ettari coltivati nel 2000 ai 600 di oggi e conta su 45 produttori facenti capo ad un consorzio di tutela. Ma soprattutto è entrato con prepotenza nelle grazie di quei consumatori che ricercano nel vino gli elementi misterici capaci di evocare storie e suscitare suggestioni. Oggi, contendendosi gli ultimi fazzoletti di terreno rimasti all’interno dei Comuni di Montefalco, di Giano, di Gualdo Cattaneo e di Bevagna è giunto il Gotha dell’enologia italiana, rappresentato dalla Sai Agricola, dai Lunelli, dai Livon, dai Cecchi e dagli stessi Lungarotti.

Il cuore pulsante di questa straordinaria denominazione si concentra lungo la direttiva che sale da Bevagna a Montefalco. E’ quello di Arquata, Fonte Fulgeri, Campo Letame e Colle Allodole, lo scenario francescano affrescato nel 1451 da Benozzo Gozzoli nella predica agli uccelli, che si può ammirare nella chiesa museo di San Francesco a Montefalco. All’interno di questa conca incontaminata prosperano le vigne delle aziende Adanti, Milziade Antano e Ciro Trabalza. Sul versante che volge a est, si affaccia Collepiano, con il suo secolare querceto circondato dai vigneti di Caprai. Risalendo verso Montepennino, si distendono a tappeto i nuovi impianti di Tiburzi, Goretti e Lunelli, produttori che hanno abbracciato la filosofia di questo lembo di territorio, dove il prezzo della terra, fino a un paio di anni fa, aveva raggiunto cifre esagerate. Proprio all’inizio di questa strada, in agro bevanate, incontro Ciro Trabalza, collega in codici e pandette, custode infallibile delle tradizioni rurali e venatorie della sua terra. La sua azienda di Arquata (ereditata da quel Ciro Trabalza, etnologo di fama mondiale) confina con quella degli Adanti. I tratti vagamente gattopardeschi, uniti al puntiglioso studio delle tecniche agronomiche - non meno di quanto il Principe di Salina studiava il moto perenne degli astri – fanno di Ciro uno di quei vignaioli che sarebbero piaciuti a Mario Soldati. Dalla sua cantina, a conduzione familiare, escono poche bottiglie, da cui Ciro si distacca con dispiacere. Più in là trovo Alvaro Palini, cantiniere, enologo e sarto dai trascorsi parigini, la cui esistenza è legata a quella della famiglia Adanti. Fu Angelo Valentini, enologo dei Lungarotti, che agli inizi degli anni Ottanta presentò Burt Anderson ad Alvaro, con il pretesto di fargli assaggiare il miglior Grechetto della zona. Burton in quegli anni era un critico di vini così importante come oggi lo sono diventati Hugh Johnson e Robert Parker, la cui influenza fu tale da incidere sul mercato vinicolo mondiale. Altro che Grechetto! Anderson fu colpito dal Sagrantino e dal Rosso d'Arquata. Fu così che tra Alvaro e Burton nacque una grande amicizia, suggellata dalla continua presenza di Anderson a Bevagna, Montefalco e al tavolo loro riservato nel ristorante degli amici Sandra e Angelo Scolastra. Oggi Burton ha lasciato lo scettro ad altri colleghi e ad altra filosofia. Sta costruendo il suo “buen retiro” in Maremma e di tanto in tanto viene a trovare Alvaro per assaggiare i suoi vini. Credo di non allontanarmi dalla verità nell’affermare l’influenza che ha avuto Burton Anderson sulla fama acquisita dal Sagrantino, che ebbe modo di far conoscere al mondo, prima che cominciassero a muoversi i soloni del nostro giornalismo enologico. Il resto l’ha fatto Caprai in anni più recenti, mandando a tilt la sua carta Alitalia delle Millemiglia per far conoscere il Sagrantino dalla Germania agli Stati Uniti, dal Giappone alla Cina. Oggi le cose stanno cambiando. Liù Pambuffetti, figlia di Amilcare e futura reginetta di Scacciadiavoli, studia all’Università di Enologia di Bordeaux. Non so quanti illustri rampolli di famiglie legate storicamente al vino facciano altrettanto. Giampiero Bea si fa ritrarre insieme a J. Nossiter, enologo di New York e regista di “Mondovino”, proponendo la sua faccia ai milioni di persone che hanno visto e vedranno i contenuti extra del film che denuncia la globalizzazione dell’industria vinicola. Il messaggio di Bea è lampante e si avvicina alla filosofia neoliberista di Nossiter: il vino è il frutto di un sapere che si trasmette tra padri e figli e la sua cura non va affidata alle decisioni dei soliti consulenti. Ma sono molte le aziende tradizionali che si sforzano di uscire dall’isolamento. Come quella di Luciano Cesarini, ingegnere ed ex capatazze dell’Enel che produce il “Rosso Bastardo” o quella di Filippo Antonelli, erede della nota azienda di San Marco o dello stesso Sindaco di Montefalco, Valentini Valentino (Bocale), che presiede l’Associazione Nazionale delle “Città del Vino” a dimostrazione della notorietà raggiunta nel panorama enologico nazionale dal Comune che egli amministra. Ma le sorprese più incoraggianti vengono da Tabarrini (Colle Grimaldsco) e da Antano (Colle Allodole), piccoli ma preparati imprenditori del settore, in sintonia con il mercato, ma senza far torto alla tradizione. Li ho visti aggirarsi per i padiglioni di Vinataly con padronanza e sicurezza del loro ruolo, corteggiatissimi dalla stampa e dai wine expert a caccia di novità enologiche.

Ad Amelia la fa da padrone il Cigliegiolo. La cantina dei Colli Amerini, con i suoi 700 ettari di vigneti di proprietà dei soci, produce anche La Torretta (Malvasia), il Vignolo (Grechetto), L’Olmeto (Merlot) e vini di grande struttura e longevità come il Carbio (un riuscito uvaggio di Merlot, Sangiovese, Ciliegiolo e Montepulciano) e il Torraccio (un I.G.T. monovitigno di Sangiovese Prugnolo). Sulla strada di Castelluccio Amerino incontriamo il Castello delle Regine, dove si produce un Sangiovese in purezza (Podernovo, Umbria I.G.T.).

L’Umbria è il vostro bicchiere, il cui contenuto liquido va manovrato con cura e attenzione. Solo così i contrasti apparenti e le piccole spigolosità dei suoi vini potranno farsi nel vostro palato note armoniche e lievi. Ma perché riveli il suo sapore eterno bisogna dedicarle tempo e attenzioni. Solo così potrete riconoscere nei suoi vini il vero e proprio ricostituente dell’anima che andavate cercando.

Giovanni Picuti

 

abcabc@cline.it

 

da “Wine Passion” numero di febbraio

 

Canon Powershot A450 CHDK.

 

…Mi volto di scatto, e riesco a vedere un vecchio alpino che piange. “saranno i gas lacrimogeni” penso, invece no, le sue lacrime partono dal più profondo del cuore. Vorrei abbracciarlo, potrebbe essere mio nonno, e mi provoca una tenerezza infinita. Mi guardo ancora intorno, provo un turbine di emozioni. Quasi non ci credo, eppure sono una persona molto logica e pragmatica. Intorno a me solo fumo grigio di gas cs. La gente urla e offre limone e maalox. Eppure non abbiamo fatto nulla. Chi è provvisto di maschera antigas si affretta a neutralizzare i lacrimogeni sparati in modo criminale nel campeggio, dove ci sono donne e bambini. Io stesso prima dell’infame attacco stavo mangiando un panino e mi gustavo una buona birra. Non smetto di guardare, ma gli occhi bruciano molto, anche il naso brucia da impazzire e sono al margine della zona di arrivo delle cartucce di gas. Arriva un ragazzo, ma è una maschera di sangue. Già, l’effetto dei lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo. Lo avevo notato, è un fotoamatore, come me. La reflex fa paura ai playmobil, mercenari in divisa che non guardano in faccia nessuno. E’ una lotta impari, proteste rumorose come la “battitura”, contro idranti, lacrimogeni e manganelli e contro chi li fotografa in atteggiamenti efferati la soluzione migliore è una cartuccia di gas sparata in pieno volto. Non so cosa fare, faccio ciò che mi riesce al meglio, scatto una foto, e poi un’altra e un’altra ancora. Voglio testimoniare al meglio ciò che sta accadendo, in barba a tutti quei giornalisti, o sedicenti tali, che sono servi del regime, uno in particolare, squisitamente infame sopra tutti gli altri, anche il suo amico meritava la fine che ha fatto.

Un bello sport sparare gas cs su popolazione inerme, e anche se non ho mai avuto opinione sulle nostre missioni di pace all’estero - e di questo mi vergogno profondamente - me ne sto formando una ben precisa. Ma qui a Kiomontistan è diverso, qui per i mercenari in divisa è come stare al poligono. Qualsiasi cosa o persona è un bersaglio, e poi li vedi ridere, e indicare i risultati delle loro azioni. In altri luoghi del mondo non è così facile, ma qui, è tutto meglio, più semplice.

Stanno cercando un piccolo pretesto per porre in essere azioni ben più efferate, quindi l’arma migliore è la mia reflex, che servirà per testimoniare gli accadimenti, raccolgo materiale che dimostra come i vigliacchi si comportano.

“Si, due maschere antigas….si, il prezzo mi va bene… ok, a mercoledì”. Già, perché per continuare a scattare mi serve la maschera antigas. Voglio continuare a testimoniare ciò che succede, anche se a volte guardando nel mirino della mia reflex, vorrei più aver con me il mio “Pearson”. Farò ancora ciò che credo mi riesca meglio: scattare foto.

NO TAV

 

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Alle 19:45 stava preparando, insieme ai compagni di Resistenza Viola, il materiale per allestire la videoproiezione del film "IO RICORDO" davanti alla centrale, poiché era previsto di estendere l'invito anche alle forze dell'ordine, alle quali avremmo regalato alcune Agende Rosse. Poi gli spari, alcuni lacrimogeni arrivano nell'area tende ed è il caos. A.L. ha già vissuto quella scena, lo sgombero, il 3 luglio, le notti... è pronto, indossa la maschera antigas, gli occhialini e corre nella zona dove si stava recando per preparare l'evento, tiene in mano la macchina fotografica per documentare ed è pronto ad aiutare chi ne avesse bisogno. Raggiunge il ponte tra una marea di gente che corre, occhi gonfi, tosse, qualcuno sembra disorientato. C'è molto fumo, troppo per capire da dove stanno sparando, quasi una coltre di nebbia. A.L. tenta di filmare e, poco prima di essere colpito al volto riesce a filmare il lancio di un lacrimogeno che parte, presumibilmente, dai mezzi mobili, quelli che hanno montati dei piccoli "cannoni" usati soprattutto per lanciare lacrimogeni a lunghe distanze. Ma qui parliamo di 20, forse 30 metri. Con quei mezzi, infatti, stavano sparando NON SOLO nell'area tende, ma anche sui NO TAV che ancora resistevano nella zona del ponte, a pochi metri dal cancello dietro il quale erano fermi i blindati. UN SECONDO è il tempo impiegato dal colpo che dal blindato raggiunge il ponte. Poi il video s'interrompe. A.L. viene colpito in pieno volto pochi secondi dopo, la maschera distrutta, il colpo è talmente forte da farlo cadere a terra. Alcuni compagni lo aiutano a sollevarsi e allontanarsi, ha il volto coperto di sangue, è confuso, non riesce a parlare. Raggiunge l'area tende dove subito arrivano alcuni medici presenti alla manifestazione e gli prestano le prime cure, la situazione è grave, naso e mascella sono gonfi, perde molto sangue, ha lacerazioni interne, sotto il palato, viene portato in auto al pronto soccorso di Susa.

Arrivato al pronto soccorso i medici, vista la gravità della situazione, lo sottopongono ad una TAC, che rivelerà fratture multiple a naso, mascella, lacerazioni profonde che vengono suturate immediatamente, ma la prognosi resta riservata, in attesa di trasferimento al reparto di chirurgia maxilo facciale di un ospedale di Torino, dove verrà sottoposto ad intervento chirurgico.

 

Doveva essere una giornata colorata, pacifica, resistente ancora una volta all'insegna della non violenza che da sempre contraddistingue le azioni del movimento NO TAV. Ma la frangia violenta ha agito ancora, presumibilmente usando nel modo peggiore (sparando a distanza troppo ravvicinata) un'arma che avrebbe lo scopo di allontanare le persone per effetto dei GAS e non per la spinta dei PROIETTILI! In questo modo la frangia violenta è quella in divisa, l'ingiustizia è coperta ancora una volta da una legalità svuotata ormai di ogni significato, se non quello di garantire l'impunità a chi commette forse la peggiore delle violenze, perché di questo si tratta quando un esercito armato fino ai denti spara a cittadini disarmati. La macchina del fango ha continuato per giorni nell'azione preventiva di costruire quanto oggi è accaduto, parlando di "infiltrati" reduci dalle manifestazioni per il decimo anniversario del G8 di Genova, oltre ai black bloc dei quali si continua a parlare, ma che nessuno evidentemente è in grado di identificare e arrestare (sarà che sono sempre un'invenzione?), quindi dovevano agire, dovevano creare gli scontri e l'hanno fatto prima del solito. Perché le altre sere attendevano una certa ora, ma questa volta no: hanno gasato il campeggio, dove c'erano anche anziani, donne e bambini, tra le 19:30 e le 20:00, annullando così gli eventi previsti, perché nella valle che resiste non si può dire che NO TAV = NO MAFIA!

 

Dall'ospedale A.L. manda un messaggio a tutti: "non mollate, ragazzi. Non molliamo. Resistere! Resistere! Resistere!". Uno dei medici che lo ha accolto al pronto soccorso ha semplicemente detto, dopo averlo esaminato "Lo stato è morto, la democrazia è morta, ma te ne rendi conto solo quando vedi queste cose". Queste cose noi non vogliamo più vederle. Abbiamo il diritto di conoscere le regole d'ingaggio, e di sapere chi ha ordinato di sparare sulle persone (altezza uomo) da quei blindati, con una potenza che ha rischiato di UCCIDERE perché avrebbe potuto finire così se A.L. fosse stato, come tanti, sprovvisto di maschera. Sappiamo che gli uomini in divisa hanno filmato tutto, sta a loro identificare esecutori e mandanti, inclusi i responsabili politici. Perché ancora una volta è stata ridotto ad una questione di ordine pubblico un problema che ha a che fare con la democrazia, con il fallimento della politica, con uno stato assente. Ora è giusto che nelle forze dell'ordine sia avviata un'inchiesta ed è tempo che la politica torni ad affrontare la questione che da 22 anni non trova soluzione. E' tempo di riportare il tema sul piano politico, dove da sempre avrebbe dovuto essere affrontato democraticamente. La Valsusa è pronta, ma non chiedeteci di ascoltare, o di discutere "come" accettare quest'opera inutile e devastante, e non tentate di farcela digerire spostandola in Liguria perché il messaggio è sempre stato forte e chiaro: né qui, né altrove.

E' arrivato il momento di fare allontanare le truppe e riaprire il dialogo. La Valsusa è pronta a spiegare le ragioni del NO, come lo è gran parte degli italiani.

Perché i sogni non si distruggono con i lacrimogeni. Neanche sparandoli in faccia.

Sans pitié, mon ami. Résistance.

KURSUS ACLS 2018

(Advanced Cardiac Life Support)

 

TS Yang Terhormat,

Kami mengundang TS untuk mengikuti pelatihan ACLS Perki tahun 2018. Berikut kami informasikan jadwal pelatihan ACLS PERKI tahun 2018,yaitu :

 

Waktu*:

Periode 1 05-07 Januari 2018

Periode 2 12- 14 Januari 2018

Periode 3 19-21 Januari 2018

Periode 4 26-28 Januari 2018

Periode 5 02-04 Februari 2018

Periode 6 09-11 Februari 2018

Periode 7 16-18 Februari 2018

Periode 8 23-25 Februari 2018

Periode 9 02-04 Maret 2018

Periode 10 09-11 Maret 2018

Periode 11 23-25 Maret 2018

Periode 12 24 - 26 Maret 201

Periode 13 31 - 02 Mar – April 2018

Periode 14 07 - 09 April 2018

Periode 15 21 - 23 April 2018

Periode 16 28 - 30 April 2018

Periode 17 05 - 07 Mei 2018

Periode 18 12 - 14 Mei 2018

Periode 19 19 - 21 Mei 2018

Periode 20 07 - 09 Juli 2018

Periode 21 14 - 16 Juli 2018

Periode 22 21 - 23 Juli 2018

Periode 23 28 - 30 Juli 2018

Periode 24 04 - 06 Agustus 2018

Periode 25 11 - 13 Agustus 2018

Periode 26 18 - 20 Agustus 2018

Periode 27 25 - 27 Agustus 2018

Periode 28 08 - 10 September 2018

Periode 29 15 - 17 September 2018

Periode 30 22 - 24 September 2018

Periode 31 29 - 01 Sep – Okt 2018

Periode 32 06 - 08 Oktober 2018

Periode 33 13 - 15 Oktober 2018

Periode 34 20 - 22 Oktober 2018

Periode 35 27 - 29 Oktober 2018

Periode 36 03 - 05 November 2018

Periode 37 10 - 12 November 2018

Periode 38 17 - 19 November 2018

Periode 39 24 - 26 November 2018

Periode 40 08 - 10 Desember 2018

Periode 41 15 - 17 Desember 2018

Periode 42 22 - 23 Desember 2018

  

Tempat Pelatihan* :

 

PERKI HOUSE Jl. Danau Toba No.139 A-C, Bendungan Hilir, Jakarta Pusat

  

Biaya Pelatihan* :

 

Rp. 2.750.000 / Peserta

  

Fasilitas, yaitu :

 

● Pelatihan ACLS PERKI selama 3 hari (Hari Jumat sampai Minggu)

● Buku Panduan ACLS PERKI (2 Buah) versi bahasa Indonesia (Edisi Terbaru)

● Sertifikat ACLS PERKI (Akreditasi 14 SKP)

● Masa Berlaku Sertifikat 3 tahun

● Konsumsi (1x Lunch + 2x Coffee Break)/hari.

  

Persyaratan

Yang harus dibawa saat hari H , yaitu :

 

1. Fotokopi ijazah 1 lembar

2. Foto berwarna ukuran 4x6 sebanyak 4 lembar

3. Bukti transfer biaya pelatihan

4. Soal Pre Test yang sudah dikerjakan (Soal Pre Test ada di dalam paket buku ACLS)

  

Pembayaran:

 

Pembayaran dapat dilakukan dengan Transfer via Teller Bank / ATM / Mobile Banking/ Internet Banking ke rekening

 

MANDIRI KCP Jakarta RS Harapan Kita

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a/n. YAYASAN PERKI – D

 

(Sebelum maupun Setelah melakukan transfer pembayaran pelatihan, mohon melakukan konfirmasi pembayaran ke kami agar data dapat diproses)

  

Materi

 

Materi yang akan diberikan saat pelatihan meliputi sebagai berikut :

Filosofi BLS , ACLS + Film; BHD Dewasa , AED , RJP Anak dan Bayi , Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Praktek dan Ujian BHD Dewasa, AED, RJP Anak dan Bayi, Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Post Test BCLS; Pre Test ACLS; Defribilasi; Perawatan Pasca Henti Jantung; Tata Laksana Jalan Nafas; Skill Station : Teori / Praktek EKG, Teori / Praktek Defribilasi, Teori / Praktek Airway Management; Hipotensi , Shock dan Edema Paru Akut; Sindrom Koroner Akut; Farmakologi dan Therapi; Skill Station :Teori / Praktek VT / VF – PEA – Asistole, Teori / PraktekTakikardi, Teori / Praktek Bradikardi; Skill Station : Kasus Komprehensif (MEGACODE); Ujian Postest; Ujian Praktek RJP berkelompok sebanyak 6 kelompok.

  

Pendaftaran via SMS/TELP/LINE/Whatsapps 08788 96 99 789 Ketik:

 

ACLS # Tgl Pelatihan # Nama Lengkap # No.Handphone, Kirim ke 08788 96 99 789

 

Contoh : ACLS # 6-8 Januari 2017 # Syifa Alia # 08788 96 99 789

 

Info dan Registrasi, dapat menghubungi

08788 96 99 789 (WA, SMS, TELP)

 

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Permintaan Kelas Kolektif di Jakarta maupun di luar Jakarta dapat menghubungi : (Telp/SMS/WA) 08788 96 99 789

 

Ket (*) : Jadwal & Biaya dapat berubah sewaktu-waktu ,untuk informasi lebih lanjut hubungi : 087889699789

  

Karena antusiasme tenaga kesehatan (dalam hal ini dokter) yang tinggi terhadap Kursus ACLS PERKI ini, maka kami secara rutin kami menyelenggarakannya. Untuk beberapa wilayah, kami rutin mengadakannya di setiap bulannya, bahkan ada wilayah yang kami selenggarakan setiap minggunya. Ada pula wilayah yang kami selenggarakan kursus ini setiap 2 bulan sekali. Ini semua tidak terlepas dari tingginya animo dan antusiasme para dokter dan tenaga medis lainnya yang membutuhkan kursus ini.

 

Berikut adalah draft rancangan jadwal pelaksanaan Kursus ACLS PERKI,

  

Tahun 2018

Januari 2018

Februari 2018

Maret 2018

April 2018

Mei 2018

Juni 2018

Juli 2018

Agustus 2018

September 2018

Oktober 2018

November 2018

Desember 2018

 

Tahun 2019

Januari 2019

Februari 2019

Maret 2019

April 2019

Mei 2019

Juni 2019

Juli 2019

Agustus 2019

September 2019

Oktober 2019

November 2019

Desember 2019

 

Tahun 2020

Januari 2020

Februari 2020

Maret 2020

April 2020

Mei 2020

Juni 2020

Juli 2020

Agustus 2020

September 2020

Oktober 2020

November 2020

Desember 2020

   

Tahun 2021

Januari 2021

Februari 2021

Maret 2021

April 2021

Mei 2021

Juni 2021

Juli 2021

Agustus 2021

September 2021

Oktober 2021

November 2021

Desember 2021

  

Tahun 2022

Januari 2022

Februari 2022

Maret 2022

April 2022

Mei 2022

Juni 2022

Juli 2022

Agustus 2022

September 2022

Oktober 2022

November 2022

Desember 2022

  

Tahun 2023

Januari 2023

Februari 2023

Maret 2023

April 2023

Mei 2023

Juni 2023

Juli 2023

Agustus 2023

September 2023

Oktober 2023

November 2023

Desember 2023

   

Untuk Informasi lebih lanjut mengenai Jadwal dan Ketersediaan tempat yang available, silahkan langsung menghubungi 0878-8969-9789 (WA/TELP/SMS).

  

Kursus ACLS PERKI ini sudah pernah dilaksanakan di hampir semua propinsi, yaitu diadakan di ibukota propinsi. Selain di ibukota propinsi, Kursus ACLS PERKI ini juga dilaksanakan di kota besar lainnya, dan juga di kotamadya/kabupaten lainnya. Hal ini tergantung dari permintaan para dokter, tenaga medis lainnya, atau bisa juga permintaan Rumah Sakit, Klinik, Puskesmas, Dinas Kesehatan, dan juga Instansi dari TNI/POLRI.

 

Oleh Karena permintaan para dokter dan instansi yang terkait, maka Kami pun menyelenggarakan Kursus ACLS inhouse training (kolektif). Untuk ACLS inhouse training (kolektif), kami mengadakannya di daerah/di lokasi yang lebih mudah dijangkau oleh para peserta.

 

Berikut adalah daerah-daerah yang pernah diadakan Kursus ACLS PERKI ini. Diantaranya adalah

  

Aceh,Medan,Padang,Riau,Pekanbaru,Jambi,Palembang,Bengkulu,Lampung,BangkaBelitung,Pangkal Pinang,TanjungPinang,Jakarta,Bekasi,Bogor,Depok,Tangerang,Tangerang Selatan,Cilegon,Yogyakarta,Bandung,Semarang,Cilacap,Purwokerto,Purbalingga,Banjarnegara,Kebumen,Purworejo,Wonosobo,Mungkid,Boyolali,Klaten,Sukoharjo,Wonogiri,Karanganyar,Sragen,Purwodadi,Blora,Rembang,Pati,Kudus,Solo,Yogyakarta,Surabaya,Madiun,Malang,Magelang,Tegal,Cilacap,Banten,Serang,Bali,Denpasar, Nusa Tenggara Timur, Kupang, Nusa Tenggara Barat, Mataram, Pontianak, Palangka Raya,Banjarmasin,Samarinda,Tanjung Selor,Manado,Palu,Makassar,Kendari,Mamuju,Gorontalo,Maluku,Maluku Utara,Sofifi,Papua,Jayapura,Papua Barat,Manokwari,Pandeglang, Lebak, Cilegon, Tangerang Selatan,Bandung, Bekasi, Cikarang, Bogor, Cibinong, Ciamis, Cianjur, Cirebon, Garut, Indramayu, Karawang, Kuningan, Majalengka, Pangandaran, Purwakarta, Subang, Sukabumi, Sumedang, Tasikmalaya, Banjar, Cimahi, Cirebon, Depok,Banjarnegara, Banyumas, Purwokerto, Batang, Blora, Boyolali, Brebes, Cilacap, Demak, Grobogan, Purwodadi, Jepara, Karanganyar, Kebumen, Kendal, Klaten, Kudus, Magelang, Pati, Pekalongan, Pemalang, Purbalingga, Purworejo, Rembang, Semarang, Sragen, Sukoharjo, Tegal, Temanggung, Wonogiri, Wonosobo, Salatiga, Surakarta,Bantul, Kulon Progo, Wates, Sleman, Yogyakarta,Bangkalan, Banyuwangi, Blitar, Bojonegoro, Bondowoso, Gresik, Jember, Jombang, Kediri, Lamongan, Lumajang, Madiun, Magetan, Malang, Mojokerto, Nganjuk, Ngawi, Pacitan, Pamekasan, Pasuruan, Ponorogo, Probolinggo, Sampang, Sidoarjo, Situbondo, Sumenep, Trenggalek, Tuban, Tulungagung Kota Batu, Blitar, Surabaya

    

Untuk Informasi lebih lanjut, silahkan langsung menghubungi 0878-8969-9789 (WA/TELP/SMS).

Kami akan selalu siap membantu.

  

Pengalaman Kursus ACLS PERKI Arsip - KURSUS ACLS | KURSUS ...

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087889699789 Pengalaman Kursus ACLS PERKI 2018

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Oct 9, 2017 - 087889699789 Pengalaman Kursus ACLS PERKI 2018. ACLS (Advanced Cardiac Life Support)2020. TS Yang Terhormat, Kami mengundang ...

Pengalaman Ikut Pelatihan ACLS | Ikhsan Kurniawan

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Aug 3, 2015 - Nah kali ini saya pengen bagi pengalaman waktu ikut pelatihan ACLS. Pelatihan ini bertempat di PERKI House Jakarta, setau saya ini ...

Ayuni Rianty: Pengalaman ikut Kursus ACLS (Advanced Cardiac Life ...

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Jan 30, 2017 - Tiga minggu sebelum kursus ACLS dilaksanakan saya di PERKI Surabaya (Perhimpunan Spesialis Kardiovaskular indonesia) saya sudah ...

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08170825883 Pengalaman Kursus EKG Perki 2017 - Forum Liputan6

forum.liputan6.com › Jual Beli › Jasa

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Oct 13, 2017 - 08170825883 Pengalaman Kursus EKG Perki 2017 ... Berikut kami informasikan jadwal kursus ACLS PERKI tahun 2017, yaitu : Pelatihan .

08170825883 Pengalaman Kursus EKG Perki 2020

13 Oct 2017

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13 Oct 2017

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13 Sep 2017

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Nov 2, 2017 - Jual 087889699789 Pengalaman Kursus ACLS PERKI 2017, ACLS dengan harga Rp 2.750.000 dari toko online ACLS Jakarta, Duren Sawit.

Pengalaman Kursus ACLS PERKi 2019

kursusaclsperki2019.blogspot.com/

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Oct 10, 2017 - 087889699789 Pengalaman Kursus ACLS PERKI 2019. ACLS (Advanced Cardiac Life Support) 2019. TS Yang Terhormat, Kami mengundang ...

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pelatihan acls 2017

  

x

Ho giorni grigi in cui io non mi riconosco

volando un po' pesante prendo dentro tutti i vetri,

m' incazzo, ronzando, come un amplificatore in paranoia

e con un pungiglione, intriso di veleni,

cercando un pretesto, cercando una scusa,

affondo i miei colpi e soffoco la rabbia che grida.

 

Dentro frenetici momenti di noia...

 

Ci sono giorni in cui io non interagisco

e appeso al silenzio, come un ragno al soffitto,

sorveglio il mio spazio aereo, minacciando tutto ciò che gira.

   

ACLS (Advanced Cardiac Life Support) 2019

  

TS Yang Terhormat,

Kami mengundang TS untuk mengikuti pelatihan ACLS Perki tahun 2019. Berikut kami informasikan jadwal pelatihan ACLS PERKI tahun 2019,yaitu :

 

Waktu*:

Periode 104 - 06 Januari 2019

Periode 211 - 13 Januari 2019

Periode 318 - 20 Januari 2019

Periode 425 - 27 Januari 2019

Periode 501 - 03 Februari 2019

Periode 608 -10 Februari 2019

Periode 715 -17 Februari 2019

Periode 822 - 24 Februari 2019

Periode 901 - 03 Maret 2019

Periode 1008 - 10 Maret 2019

Periode 1115 - 17 Maret 2019

Periode 1222 - 24 Maret 2019

Periode 1329 - 31 Maret 2019

Periode 1405 - 07 April 2019

Periode 1512 - 14 April 2019

Periode 1619 - 21 April 2019

Periode 1726 - 28 April 2019

Periode 1803 - 05 Mei 2019

Periode 1914 - 16 Juni 2019

Periode 2021 - 23 Juni 2019

Periode 2128 - 30 Juni 2019

Periode 2205 - 07 Juli 2019

Periode 2312 - 14 Juli 2019

Periode 2419 - 21 Juli 2019

Periode 2526 - 28 Juli 2019

Periode 2602 - 04 Agustus 2019

Periode 2709 - 11 Agustus 2019

Periode 2816 - 18 Agustus 2019

Periode 2923 - 25 Agustus 2019

Periode 3030 Agust - 01 September 2019

Periode 3106 - 08 September 2019

Periode 3213 - 15 September 2019

Periode 3320 - 22 September 2019

Periode 3427 - 29 September 2019

Periode 3504 - 06 Oktober 2019

Periode 3611 - 13 Oktober 2019

Periode 3718 - 20 Oktober 2019

Periode 3825 - 27 Oktober 2019

Periode 3901 - 03 November 2019

Periode 4008 - 10 November 2019

Periode 4115 - 17 November 2019

Periode 4222 - 24 November 2019

Periode 4329 Nov - 01 Desember 2019

Periode 4406 - 08 Desember 2019

Periode 4513 - 15 Desember 2019

Periode 4620 - 22 Desember 2019

 

Tempat Pelatihan* :

 

PERKI HOUSE Jl. Danau Toba No.139 A-C, Bendungan Hilir, Jakarta Pusat

  

Biaya Pelatihan* :

 

Rp. 2.750.000 / Peserta

  

Fasilitas, yaitu :

 

● Pelatihan ACLS PERKI selama 3 hari (Hari Jumat sampai Minggu)

● Buku Panduan ACLS PERKI (2 Buah) versi bahasa Indonesia (Edisi Terbaru)

● Sertifikat ACLS PERKI (Akreditasi 14 SKP)

● Masa Berlaku Sertifikat 3 tahun

● Konsumsi (1x Lunch + 2x Coffee Break)/hari.

  

Persyaratan

Yang harus dibawa saat hari H , yaitu :

 

1. Fotokopi ijazah 1 lembar

2. Foto berwarna ukuran 4x6 sebanyak 4 lembar

3. Bukti transfer biaya pelatihan

4. Soal Pre Test yang sudah dikerjakan (Soal Pre Test ada di dalam paket buku ACLS)

  

Pembayaran:

 

Pembayaran dapat dilakukan dengan Transfer via Teller Bank / ATM / Mobile Banking/ Internet Banking ke rekening

 

MANDIRI KCP Jakarta RS Harapan Kita

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Materi

 

Materi yang akan diberikan saat pelatihan meliputi sebagai berikut :

Filosofi BLS , ACLS + Film; BHD Dewasa , AED , RJP Anak dan Bayi , Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Praktek dan Ujian BHD Dewasa, AED, RJP Anak dan Bayi, Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Post Test BCLS; Pre Test ACLS; Defribilasi; Perawatan Pasca Henti Jantung; Tata Laksana Jalan Nafas; Skill Station : Teori / Praktek EKG, Teori / Praktek Defribilasi, Teori / Praktek Airway Management; Hipotensi , Shock dan Edema Paru Akut; Sindrom Koroner Akut; Farmakologi dan Therapi; Skill Station :Teori / Praktek VT / VF – PEA – Asistole, Teori / PraktekTakikardi, Teori / Praktek Bradikardi; Skill Station : Kasus Komprehensif (MEGACODE); Ujian Postest; Ujian Praktek RJP berkelompok sebanyak 6 kelompok.

  

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Ket (*) : Jadwal & Biaya dapat berubah sewaktu-waktu ,untuk informasi lebih lanjut hubungi : 087889699789

 

Karenaantusiasmetenagakesehatan (dalamhalinidokter) yang tinggiterhadapKursus ACLS PERKI ini, maka kami secararutin kami menyelenggarakannya. Untukbeberapawilayah, kami rutinmengadakannya di setiapbulannya, bahkanadawilayah yang kami selenggarakansetiapminggunya. Ada pula wilayah yang kami selenggarakankursusinisetiap 2 bulansekali. Inisemuatidakterlepasdaritingginyaanimodanantusiasme para dokterdantenagamedislainnya yang membutuhkankursusini.

 

Berikutadalah draft rancanganjadwalpelaksanaanKursus ACLS PERKI,

  

Tahun 2018

Januari 2018

Februari 2018

Maret 2018

April 2018

Mei 2018

Juni 2018

Juli 2018

Agustus 2018

September 2018

Oktober 2018

November 2018

Desember 2018

 

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Maret 2019

April 2019

Mei 2019

Juni 2019

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September 2019

Oktober 2019

November 2019

Desember 2019

 

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Oktober 2020

November 2020

Desember 2020

   

Tahun 2021

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November 2021

Desember 2021

  

Tahun 2022

Januari 2022

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November 2022

Desember 2022

  

Tahun 2023

Januari 2023

Februari 2023

Maret 2023

April 2023

Mei 2023

Juni 2023

Juli 2023

Agustus 2023

September 2023

Oktober 2023

November 2023

Desember 2023

     

UntukInformasilebihlanjutmengenaiJadwaldanKetersediaantempat yang available, silahkanlangsungmenghubungi 0878-8969-9789 (WA/TELP/SMS).

  

Kursus ACLS PERKI inisudahpernahdilaksanakan di hampirsemuapropinsi, yaitudiadakan di ibukotapropinsi. Selain di ibukotapropinsi, Kursus ACLS PERKI inijugadilaksanakan di kotabesarlainnya, danjuga di kotamadya/kabupatenlainnya. Hal initergantungdaripermintaan para dokter, tenagamedislainnya, ataubisajugapermintaanRumahSakit, Klinik, Puskesmas, DinasKesehatan, danjugaInstansidari TNI/POLRI.

 

OlehKarenapermintaan para dokterdaninstansi yang terkait, maka Kami pun menyelenggarakanKursus ACLS inhouse training (kolektif). Untuk ACLS inhouse training (kolektif), kami mengadakannya di daerah/di lokasi yang lebihmudahdijangkauoleh para peserta.

 

Berikutadalahdaerah-daerah yang pernahdiadakanKursus ACLS PERKI ini. Diantaranyaadalah

  

Aceh,Medan,Padang,Riau,Pekanbaru,Jambi,Palembang,Bengkulu,Lampung,BangkaBelitung,Pangkal Pinang,TanjungPinang,Jakarta,Bekasi,Bogor,Depok,Tangerang,Tangerang Selatan,Cilegon,Yogyakarta,Bandung,Semarang,Cilacap,Purwokerto,Purbalingga,Banjarnegara,Kebumen,Purworejo,Wonosobo,Mungkid,Boyolali,Klaten,Sukoharjo,Wonogiri,Karanganyar,Sragen,Purwodadi,Blora,Rembang,Pati,Kudus,Solo,Yogyakarta,Surabaya,Madiun,Malang,Magelang,Tegal,Cilacap,Banten,Serang,Bali,Denpasar,Nusa Tenggara Timur,Kupang,Nusa Tenggara Barat,Mataram,Pontianak,PalangkaRaya,Banjarmasin,Samarinda,Tanjung Selor,Manado,Palu,Makassar,Kendari,Mamuju,Gorontalo,Maluku,Maluku Utara,Sofifi,Papua,Jayapura,PapuaBarat,Manokwari,Pandeglang, Lebak, Cilegon, Tangerang Selatan,Bandung, Bekasi, Cikarang, Bogor, Cibinong, Ciamis, Cianjur, Cirebon, Garut, Indramayu, Karawang, Kuningan, Majalengka, Pangandaran, Purwakarta, Subang, Sukabumi, Sumedang, Tasikmalaya, Banjar, Cimahi, Cirebon, Depok,Banjarnegara, Banyumas, Purwokerto, Batang, Blora, Boyolali, Brebes, Cilacap, Demak, Grobogan, Purwodadi, Jepara, Karanganyar, Kebumen, Kendal, Klaten, Kudus, Magelang, Pati, Pekalongan, Pemalang, Purbalingga, Purworejo, Rembang, Semarang, Sragen, Sukoharjo, Tegal, Temanggung, Wonogiri, Wonosobo, Salatiga, Surakarta,Bantul, KulonProgo, Wates, Sleman, Yogyakarta,Bangkalan, Banyuwangi, Blitar, Bojonegoro, Bondowoso, Gresik, Jember, Jombang, Kediri, Lamongan, Lumajang, Madiun, Magetan, Malang, Mojokerto, Nganjuk, Ngawi, Pacitan, Pamekasan, Pasuruan, Ponorogo, Probolinggo, Sampang, Sidoarjo, Situbondo, Sumenep, Trenggalek, Tuban, Tulungagung Kota Batu, Blitar, Surabaya

   

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Dailymotion

  

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PictionID:54255500 - Catalog:14_034412 - Title:GD/Astronautics Testing Details: OAO Jettison Test; Pretest at LERC Date: 08/04/1965 - Filename:14_034412.tif - - - Images from the Convair/General Dynamics Astronautics Atlas Negative Collection. The processing, cataloging and digitization of these images has been made possible by a generous National Historical Publications and Records grant from the National Archives and Records Administration---Please Tag these images so that the information can be permanently stored with the digital file.---Repository: San Diego Air and Space Museum

Betty - Progetto installativo di fotografia di Elisabetta Falqui

 

Mostra visitabile dal 20 al 30 marzo 2009

SPAZIO P

Via Napoli 62

Cagliari

+39-348-8039469

 

http://www.exibart.com/profilo/eventiV2.asp?idelemento=68227

 

Una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi se vogliamo essere: e non sarà mai una vita per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile. (Luigi Pirandello, Uno, nessuno, centomila)

 

Betty guarda lontano. Più lontano di quanto i suoi occhi possano vedere.

 

Betty con gesto infantile saluta qualcuno che è già andato via. Non sa che tornerà.

 

Betty al telefono ascolta in sacrale silenzio. Avrebbe voluto capirlo prima.

 

Betty manda un bacio a labbra socchiuse. Impassibile osserva. Pensierosa attende.

 

Betty è tutte e nessuna. Betty è il pretesto per scoprire l’essenza del sé. È il mezzo per comprendere che la nostra percezione degli altri è spesso alterata, stereotipata nonostante l’identità sia in continuo divenire. Perché la vita è fatta di travisamenti e visioni superficiali. E l’individuo di frammenti di personalità.

 

Tutti, chi più, chi meno, assorbiti in un vortice di pirandelliana memoria rivestiamo i ruoli più diversi recitando un copione già visto. In una società delle immagini fondata sull’enfasi dell’apparenza più tangibile, quella di Elisabetta Falqui è una riflessione su come l’individuo viene percepito dalle persone che incontra nel corso della propria esistenza. Sulla condizione dell’uomo imprigionato in una realtà fittizia, non oggettiva, costruita secondo convenzioni sociali prestabilite.

 

La percezione dello smembramento dell’io, della disgregazione dell’identità in mille faccettature, è una costante dei dieci racconti d’invenzione ispirati dalle fotografie che vedono come protagonista Betty. Ad ogni foto è abbinato un racconto, basato sulla sensazione suscitata a prima vista, ma anche assolutamente adattabile a ognuna delle immagini fissate sulla pellicola ad evidenziare che innumerevoli sono i modi in cui una persona può essere avvertita dagli altri. Constante che ritorna nell’esasperato ingrandimento dei frames fino alla sgranatura che permette la visione dei singoli pixel scomponendo e astrattizzando la figura. Poichè nulla è ciò che sembra. E l’uomo è schiavo di quella visione che gli altri hanno di sé.

 

(Roberta Vanali - L'Unione Sarda)

 

Si ringraziano per i testi: Maria Paola Falqui, Gianluca Floris, Maria Stella Granara, Laura Ledda, Paolo Maccioni, Lorena Piccapietra, Maria Costantina Seri, Rossella Serri, Francesca Ziccheddu e Nicoletta Zonchello.

KURSUS ACLS 2018

(Advanced Cardiac Life Support)

 

TS Yang Terhormat,

Kami mengundang TS untuk mengikuti pelatihan ACLS Perki tahun 2018. Berikut kami informasikan jadwal pelatihan ACLS PERKI tahun 2018,yaitu :

 

Waktu*:

Periode 1 05-07 Januari 2018

Periode 2 12- 14 Januari 2018

Periode 3 19-21 Januari 2018

Periode 4 26-28 Januari 2018

Periode 5 02-04 Februari 2018

Periode 6 09-11 Februari 2018

Periode 7 16-18 Februari 2018

Periode 8 23-25 Februari 2018

Periode 9 02-04 Maret 2018

Periode 10 09-11 Maret 2018

Periode 11 23-25 Maret 2018

Periode 12 24 - 26 Maret 201

Periode 13 31 - 02 Mar – April 2018

Periode 14 07 - 09 April 2018

Periode 15 21 - 23 April 2018

Periode 16 28 - 30 April 2018

Periode 17 05 - 07 Mei 2018

Periode 18 12 - 14 Mei 2018

Periode 19 19 - 21 Mei 2018

Periode 20 07 - 09 Juli 2018

Periode 21 14 - 16 Juli 2018

Periode 22 21 - 23 Juli 2018

Periode 23 28 - 30 Juli 2018

Periode 24 04 - 06 Agustus 2018

Periode 25 11 - 13 Agustus 2018

Periode 26 18 - 20 Agustus 2018

Periode 27 25 - 27 Agustus 2018

Periode 28 08 - 10 September 2018

Periode 29 15 - 17 September 2018

Periode 30 22 - 24 September 2018

Periode 31 29 - 01 Sep – Okt 2018

Periode 32 06 - 08 Oktober 2018

Periode 33 13 - 15 Oktober 2018

Periode 34 20 - 22 Oktober 2018

Periode 35 27 - 29 Oktober 2018

Periode 36 03 - 05 November 2018

Periode 37 10 - 12 November 2018

Periode 38 17 - 19 November 2018

Periode 39 24 - 26 November 2018

Periode 40 08 - 10 Desember 2018

Periode 41 15 - 17 Desember 2018

Periode 42 22 - 23 Desember 2018

  

Tempat Pelatihan* :

PERKI HOUSE Jl. Danau Toba No.139 A-C, Bendungan Hilir, Jakarta Pusat

 

Biaya Pelatihan* :

Rp. 2.750.000 / Peserta

 

Fasilitas, yaitu :

● Pelatihan ACLS PERKI selama 3 hari (Hari Jumat sampai Minggu)

● Buku Panduan ACLS PERKI (2 Buah) versi bahasa Indonesia (Edisi Terbaru)

● Sertifikat ACLS PERKI (Akreditasi 14 SKP)

● Masa Berlaku Sertifikat 3 tahun

● Konsumsi (1x Lunch + 2x Coffee Break)/hari.

  

Persyaratan

Yang harus dibawa saat hari H , yaitu :

1. Fotokopi ijazah 1 lembar

2. Foto berwarna ukuran 4x6 sebanyak 4 lembar

3. Bukti transfer biaya pelatihan

4. Soal Pre Test yang sudah dikerjakan (Soal Pre Test ada di dalam paket buku ACLS)

 

Pembayaran:

Pembayaran dapat dilakukan dengan Transfer via Teller Bank / ATM / Mobile Banking/ Internet Banking ke rekening

MANDIRI KCP Jakarta RS Harapan Kita

No Rek : 117-000654139-5

a/n. YAYASAN PERKI – D

 

(Sebelum maupun Setelah melakukan transfer pembayaran pelatihan, mohon melakukan konfirmasi pembayaran ke kami agar data dapat diproses)

 

Materi

Materi yang akan diberikan saat pelatihan meliputi sebagai berikut :

Filosofi BLS , ACLS + Film; BHD Dewasa , AED , RJP Anak dan Bayi , Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Praktek dan Ujian BHD Dewasa, AED, RJP Anak dan Bayi, Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Post Test BCLS; Pre Test ACLS; Defribilasi; Perawatan Pasca Henti Jantung; Tata Laksana Jalan Nafas; Skill Station : Teori / Praktek EKG, Teori / Praktek Defribilasi, Teori / Praktek Airway Management; Hipotensi , Shock dan Edema Paru Akut; Sindrom Koroner Akut; Farmakologi dan Therapi; Skill Station :Teori / Praktek VT / VF – PEA – Asistole, Teori / PraktekTakikardi, Teori / Praktek Bradikardi; Skill Station : Kasus Komprehensif (MEGACODE); Ujian Postest; Ujian Praktek RJP berkelompok sebanyak 6 kelompok.

 

Pendaftaran via SMS/TELP/LINE/Whatsapps 08788-9699-789 Ketik:

ACLS # Tgl Pelatihan # Nama Lengkap # No.Handphone, Kirim ke 08788-9699#7-9

Contoh : ACLS # 6-8 Januari 2017 # Syifa Alia # 08788-9699-789

 

Permintaan Kelas Kolektif di Jakarta maupun di luar Jakarta dapat menghubungi : (Telp/SMS/WA) 08788-9699-789

 

Ket (*) : Jadwal & Biaya dapat berubah sewaktu-waktu ,untuk informasi lebih lanjut hubungi : 0878-8969-9789

 

Karena antusiasme tenaga kesehatan (dalam hal ini dokter) yang tinggi terhadap Kursus ACLS PERKI ini, maka kami secara rutin kami menyelenggarakannya. Untuk beberapa wilayah, kami rutin mengadakannya di setiap bulannya, bahkan ada wilayah yang kami selenggarakan setiap minggunya. Ada pula wilayah yang kami selenggarakan kursus ini setiap 2 bulan sekali. Ini semua tidak terlepas dari tingginya animo dan antusiasme para dokter dan tenaga medis lainnya yang membutuhkan kursus ini.

    

Untuk Informasi lebih lanjut mengenai Jadwal dan Ketersediaan tempat yang available, silahkan langsung menghubungi 0878-8969-9789 (WA/TELP/SMS).

 

Kursus ACLS PERKI ini sudah pernah dilaksanakan di hampir semua propinsi, yaitu diadakan di ibukota propinsi. Selain di ibukota propinsi, Kursus ACLS PERKI ini juga dilaksanakan di kota besar lainnya, dan juga di kotamadya/kabupaten lainnya. Hal ini tergantung dari permintaan para dokter, tenaga medis lainnya, atau bisa juga permintaan Rumah Sakit, Klinik, Puskesmas, Dinas Kesehatan, dan juga Instansi dari TNI/POLRI.

 

Oleh Karena permintaan para dokter dan instansi yang terkait, maka Kami pun menyelenggarakan Kursus ACLS inhouse training (kolektif). Untuk ACLS inhouse training (kolektif), kami mengadakannya di daerah/di lokasi yang lebih mudah dijangkau oleh para peserta.

 

Berikut adalah daerah-daerah yang pernah diadakan Kursus ACLS PERKI ini. Diantaranya adalah

 

Aceh,Medan,Padang,Riau,Pekanbaru,Jambi,Palembang,Bengkulu,Lampung,BangkaBelitung,Pangkal Pinang,TanjungPinang,Jakarta,Bekasi,Bogor,Depok,Tangerang,Tangerang Selatan,Cilegon,Yogyakarta,Bandung,Semarang,Cilacap,Purwokerto,Purbalingga,Banjarnegara,Kebumen,Purworejo,Wonosobo,Mungkid,Boyolali,Klaten,Sukoharjo,Wonogiri,Karanganyar,Sragen,Purwodadi,Blora,Rembang,Pati,Kudus,Solo,Yogyakarta,Surabaya,Madiun,Malang,Magelang,Tegal,Cilacap,Banten,Serang,Bali,Denpasar, Nusa Tenggara Timur, Kupang, Nusa Tenggara Barat, Mataram, Pontianak, Palangka Raya,Banjarmasin,Samarinda,Tanjung Selor,Manado,Palu,Makassar,Kendari,Mamuju,Gorontalo,Maluku,Maluku Utara,Sofifi,Papua,Jayapura,Papua Barat,Manokwari,Pandeglang, Lebak, Cilegon, Tangerang Selatan,Bandung, Bekasi, Cikarang, Bogor, Cibinong, Ciamis, Cianjur, Cirebon, Garut, Indramayu, Karawang, Kuningan, Majalengka, Pangandaran, Purwakarta, Subang, Sukabumi, Sumedang, Tasikmalaya, Banjar, Cimahi, Cirebon, Depok,Banjarnegara, Banyumas, Purwokerto, Batang, Blora, Boyolali, Brebes, Cilacap, Demak, Grobogan, Purwodadi, Jepara, Karanganyar, Kebumen, Kendal, Klaten, Kudus, Magelang, Pati, Pekalongan, Pemalang, Purbalingga, Purworejo, Rembang, Semarang, Sragen, Sukoharjo, Tegal, Temanggung, Wonogiri, Wonosobo, Salatiga, Surakarta,Bantul, Kulon Progo, Wates, Sleman, Yogyakarta,Bangkalan, Banyuwangi, Blitar, Bojonegoro, Bondowoso, Gresik, Jember, Jombang, Kediri, Lamongan, Lumajang, Madiun, Magetan, Malang, Mojokerto, Nganjuk, Ngawi, Pacitan, Pamekasan, Pasuruan, Ponorogo, Probolinggo, Sampang, Sidoarjo, Situbondo, Sumenep, Trenggalek, Tuban, Tulungagung Kota Batu, Blitar, Surabaya

 

Untuk Informasi lebih lanjut, silahkan langsung menghubungi 0878-8969-9789 (WA/TELP/SMS).

Kami akan selalu siap membantu.

 

Info dan Registrasi, dapat menghubungi

08788 96 99 789 (WA, SMS, TELP)

 

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Sem Benelli

Sem Benelli (Prato, 10 agosto 1877 – Zoagli, 18 dicembre 1949) è stato un poeta, scrittore e drammaturgo italiano, autore di testi per il teatro e di sceneggiature per il cinema. Fu anche autore di libretti d'opera.

 

È stato spesso considerato dalla critica un D'Annunzio in minore ("ciabatta smessa del dannunzianesimo" lo definì addirittura in maniera un po' ingenerosa Giovanni Papini), ma recentemente il suo talento letterario è stato rivalutato fino a considerarlo come una fra le maggiori espressioni della tragedia moderna.

 

Il drammaturgo pratese fu autore del testo teatrale La cena delle beffe, tragedia ambientata nella Firenze medicea di Lorenzo il Magnifico, che ebbe un successo clamoroso e tale comunque da consegnare il suo nome alla storia della letteratura. Da questa tragedia fu tratto nel 1941 dal regista Alessandro Blasetti l'omonimo celebre film con Amedeo Nazzari e Clara Calamai.

 

Dalla riduzione del testo a libretto, venne ricavata da Umberto Giordano l'opera omonima andata in scena in prima rappresentazione al Teatro alla Scala di Milano il 20 dicembre 1924. La sola bibliografia teatrale di Benelli comprende una trentina di titoli, sviluppati nell'arco di una quarantina di anni e articolati tanto su drammi sociali quanto su commedie di ambientazione di tipo borghese.

Biografia

 

Benelli, padre del giornalista Sennuccio Benelli e nonno della regista Gioia Benelli, nacque in una famiglia di artigiani di umili condizioni e dovette interrompere gli studi a causa della morte prematura del padre. Dopo una breve esperienza come giornalista, si avvicinò alla letteratura da autodidatta e solo poco più che trentenne, nel 1908, scrisse la sua prima commedia, Tìgnola. Il successo non tardò però ad arrivare: l'anno successivo, infatti, veniva messo in scena al Teatro Argentina di Roma il dramma La cena delle beffe.

 

Il lavoro di Benelli fu accolto con estremo favore dalla critica, spiazzata dal tentativo (evidentemente riuscito) dell'autore di rompere gli schemi classici dell'epoca, centrati sulla foga e la crudezza del verismo o altrimenti sull'ars declamatoria di stampo dannunziano. La fortuna di questo titolo non si limitò al territorio italiano (la tragedia entrerà stabilmente nel repertorio teatrale per essere rappresentata anche sotto chiavi diverse, come nella versione di Gigi Proietti) ma fu replicata anche all'estero, tanto da essere portato in scena negli anni successivi in numerose repliche sia a Parigi, da Sarah Bernhardt, sia a Broadway, dalla compagnia di John Barrymore.

 

Nel 1945 è cofondatore, insieme a Ugo Betti, Diego Fabbri, Massimo Bontempelli ed altri autori teatrali, del Sindacato Nazionale Autori Drammatici (SNAD), con l'intento di salvaguardare il lavoro dei drammaturghi e degli scrittori teatrali.

 

Tragedie ed altri lavori

Benelli ebbe il pregio di saper coltivare la sua vena artistica, senza adagiarsi sugli allori del successo ottenuto con la Cena; negli anni immediatamente successivi riuscì a scrivere altri importanti lavori teatrali di impronta storica che ebbero un particolare successo anche in virtù dei multiformi apparati scenografici con i quali venivano rappresentati in scena. Si segnalano qui, in particolare, le tragedie L'amore dei tre re (1910), servita anche da libretto per un melodramma di Italo Montemezzi andato in scena nel 1913; Il mantellaccio e Rosmunda (scritte nel 1911); La Gorgona (1913), da cui furono tratti due film omonimi La Gorgona nel 1915 e nel 1942, La Gorgona; ed infine Le nozze dei centauri (lavoro pubblicato nel 1915). Nel 1913 compose un poema sinfonico in onore di Giuseppe Verdi musicato da Francesco Cilea ed eseguito al Teatro Carlo Felice di Genova, città alla quale il cigno di Busseto era molto legato.

Il simbolismo

 

A detta dei critici l'arte letteraria di Benelli - specie per quanto riguarda la produzione principale che va dal 1908 al 1915 - è contraddistinta da una raffinata ricchezza di simbolismi, solo in parte intaccata da un cupo erotismo e da forti connotazioni di carattere psicologico. La successiva produzione poco aggiungerà al suo valore di scrittore dalle molte sfaccettature. Meritano di essere comunque segnalate le commedie: Adamo ed Eva (del 1933), Madre Regina ed Eroi (messe in scena nel 1934) e Caterina Sforza, ispirato all'omonimo personaggio storico (1938).

Il castello

 

A quasi voler concretizzare il suo simbolismo nel 1914 fece costruire sulla scogliera di Zoagli a strapiombo sul mare, un castello denominato tuttora "Il castello di Sem Benelli", progettato da Gian Giuseppe Mancini: nel suo complesso, ma soprattutto in ogni particolare architettonico, traspare la personalità del drammaturgo, la stessa scelta dei materiali tra i più diversi ed eterogenei, come marmi, maioliche, mattoni, pietra... rispecchiano le sfaccettature dello scrittore. Nel suo insieme, maestoso e compatto, addolcito dalle linee curve delle ripetute rotondità, contornato da uno sfondo naturale unico, ne fanno quasi una scenografia teatrale ad integrazione delle sue opere.

Autore simbolista, sostenitore del futurismo

 

Fortemente condizionato dai fermenti operai di fine Ottocento e primo Novecento, su sostenuto da una forte tensione verso i valori della giustizia sociale. Assieme a Filippo Tommaso Marinetti (con il quale fondò nel 1905 a Milano la rivista letteraria Poesia) fu fra coloro che propugnarono il movimento del Futurismo. Venne eletto deputato nel 1921, ma all'indomani dell'uccisione di Giacomo Matteotti entrò in rotta di collisione con il regime fascista. Nel 1922 Sem Benelli, con la collaborazione di Mario Broglio, coordinò la realizzazione dell'esposizione d'arte La Fiorentina Primaverile di Belle Arti, a cura della "Società delle Belle Arti di Firenze"[1].

 

Nel 1925 fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce. Trascorse gli ultimi anni di vita sul golfo del Tigullio, nella amatissima città di Zoagli, nella quale è tutt'oggi visibile l'elegante castello sul mare che fece costruire e che ne ricorda la figura e l'attività letteraria. A Firenze una targa in una trattoria del centro storico lo ricorda con un suo motto celebre:

« Fate che tutto sia preparato per bene ... »

I rapporti con il fascismo

« È difficile guardarmi con occhi limpidi »

(Sem Benelli)

 

Benelli fu amico di Marinetti, che aveva avuto parole di lode per le sue opere[2][3] fino a dopo la fine Prima guerra mondiale, che Benelli aveva propugnato come convinto interventista. In seguito i rapporti tra i due mutarono radicalmente, arrivando al «disprezzo reciproco»[4]

 

Allo stesso modo mutò in Benelli l'ammirazione per il regime fascista, che pure aveva condiviso con Gabriele D'Annunzio partecipando con lui all'impresa fiumana come legionario. Dopo l'omicidio di Giacomo Matteotti ad opera di fascisti nel 1924 nasce in Benelli, che fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti del maggio del 1925, un'accesa ostilità per il regime fino al punto di fondare un'organizzazione antifascista, la Lega Italica, che il governo chiuse quasi immediatamente.

La censura fascista

 

Da quel periodo la censura fascista si accanì sulle rappresentazioni teatrali di Benelli. Il Ministero della Cultura Popolare nel maggio del 1933 ordinava all'Opera Nazionale Dopolavoro di proibire «a tutte le compagnie filodrammatiche di rappresentare lavori di Roberto Bracco e di Sem Benelli», sospetto antifascista e comunque «contrarie ai criteri educativi e morali» del fascismo. Sorvegliato dall'OVRA, impossibilitato a pagare i suoi debiti, Benelli, a cui è stato espressamente vietato di comporre altre opere, attraversa un difficile momento anche se l'ambiguo atteggiamento del regime nei confronti dell'arte gli permette a sprazzi di continuare il suo lavoro non senza clamorosi incidenti.

 

Significativo quanto accadde con il dramma l'Orchidea, rappresentato all'"Eliseo" di Roma il 20 maggio del 1938. Scriveva Arturo Bocchini, il capo della polizia, a Francesco Peruzzi, ispettore responsabile dell'OVRA: «Com'è noto la sera del 20 maggio u.s., al teatro Eliseo di Roma, la commedia Orchidea di Sem Benelli ebbe un'accoglienza talmente ostile da parte degli spettatori che se ne dovette sospendere la rappresentazione. Il lavoro è stato poi definitivamente tolto dal cartellone.»

 

In realtà l'Orchidea al suo debutto aveva avuto una buona accoglienza dal pubblico e se ora invece ne subiva i fischi e le urla di dissenso questo era dovuto alla gazzarra organizzata da una cinquantina di squadristi fascisti mandati appositamente da Starace, segretario nazionale del Partito nazionale fascista e da Andrea Ippolito, federale di Roma.

 

Precedentemente a questi fatti la censura fascista si era maldestramente esercitata anche su un altro dramma di Benelli L'elefante, rappresentato nel 1937. Per un qualche equivoco i tagli imposti al copione non erano stati riportati nel testo che era stato pubblicato e distribuito in teatro, per cui il pubblico poté constatare, seguendo la recitazione degli attori, l'insensatezza delle frasi censurate come quella che diceva «il matrimonio è diventato la fissazione della civiltà moderna».

 

Le opere di Benelli, per la sua fama nazionale e internazionale di cui il regime fascista era costretto a tener conto, continuarono però ad essere rappresentate regolarmente riscuotendo un grande successo di pubblico e di critica ma da quel momento Benelli era ormai caduto in disgrazia presso il Duce che pure egli aveva apostrofato come genio in cima a una piramide, Dio in terra.

Il rapporto con Mussolini

 

Nonostante le pressioni di alcuni intellettuali, Mussolini non desistette dal suo atteggiamento ostile nei confronti di Benelli e si rifiutò di annoverarlo tra gli accademici d'Italia poiché «...neanche il suo essersi arruolato volontario per l'Africa Orientale mi ha convinto della sua improvvisa fedeltà al fascismo.»[5] È forse nel Diario di Galeazzo Ciano che si può rintracciare il motivo di tanta avversità del Duce nei confronti dell'artista che pure il regime sovvenzionava con il pretesto di aiuti finanziari per l'edificazione, ad opera di Benelli, del castello di Zoagli.

 

Scrive Ciano il 21 maggio del 1938: «[Mussolini] critica l'arte di Sem Benelli che consiste nel mettere in pubblico la parte deteriore dell'umanità. In ogni casa c'è un cesso e tutti lo sanno: ma non per questo lo si mostra all'ospite, quando viene a far visita»[6] La proibizione di stampare le sue opere, il divieto ai giornali di accogliere sue collaborazioni, e il fatto di non essere visto di buon occhio né dai fascisti, né dai tedeschi, convincono Benelli a lasciare l'Italia (lo avrebbe probabilmente fatto prima se il regime non glielo avesse impedito bloccandogli il passaporto e facendolo pedinare per lunghi periodi della sua vita) e a riparare nel 1944 in Svizzera dopo aver collaborato con la Resistenza milanese.

 

Nel 1948 Sem Benelli si iscrive all' "Alleanza per la difesa della cultura", un'emanazione del Fronte popolare, l'unione elettorale delle sinistre: il «Fronte incandescente», come lo definisce Benelli, dove «...il fuoco purifica e fluidifica ». «Vi aderisco» scriveva Benelli «essendo e volendo essere sempre italianissimo, non balcanico, ma nato sulle rive della Toscana, dove l'aria è in perenne vibrazione». Non tutti appoggiarono questa adesione "libertaria" di Benelli come Carlo Levi che ritirò la sua partecipazione al Fronte rifiutandosi di stare accanto a Benelli «trombone fascista».

 

La vera natura politica del drammaturgo è stata forse colta da Giuseppe Bottai nel suo Diario 1944-48[7] definendo non fascista ma mussoliniano Benelli che, insieme a altri come lui «davano ragione a Mussolini contro il fascismo».[8] Un mussolinismo ideale il suo, pericoloso e dannoso per il reale regime fascista. Ma forse chi era veramente Sem Benelli lo si può cogliere in quanto egli scrisse di se stesso:

« L'artista è l'eroe che i tiranni invidiano e che gli Stati vogliono assoggettare e deformare poiché egli vive per l'uomo ed è spesso contro lo Stato. Se mi direte anarchico, non importa: sono anarchico perché credo l'uomo più importante dello Stato

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Lucio Sergio Catilina (in latino: Lucius Sergius Catilina; Roma, 108 a.C. – Pistoia, 62 a.C.) è stato un militare e senatore romano, per lo più noto per la congiura che porta il suo nome, un tentativo di sovvertire la Repubblica romana, e in particolare il potere oligarchico del Senato.

Biografia

(LA)

« Lucius Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque. »

(IT)

« Lucio Catilina, nato di stirpe nobile, fu uomo di grande vigore morale e fisico, ma d'indole malvagia e corrotta. »

(Sallustio, De coniuratione Catilinae, 5.)

Origini familiari

Catilina nasce a Roma nel 108 a.C. dal patrizio Lucio Sergio Silo e da Belliena. La famiglia nativa, i Sergii, pur di nobili origini, da molti anni non aveva più un ruolo significativo nella vita politica di Roma. L'ultimo dei Sergii ad essere nominato console era stato Gneo Sergio Fidenate Cosso nel 380 aC. Virgilio più tardi fece derivare il nome della famiglia da un antenato importante, Sergesto, giunto in Italia insieme a Enea, facendo quindi dei Sergii una delle famiglie originarie nella storia dell'Urbe.

Le conoscenze sulla gioventù di Catilina e sulla sua vita familiare sono piuttosto limitate. Ebbe due mogli: Gratiana, sorella di Marco Mario Gratidiano, nipote di Gaio Mario, e Aurelia Orestilla, figlia di Gneo Aufidio Oreste (console nel 71 a.C.). Dalla prima ebbe un figlio che, secondo Sallustio, uccise in quanto ostacolo alle nozze con Aurelia Orestilla

Fasi iniziali

Nell'89 a.C. il poco più che ventenne Catilina segue il generale Strabone nella guerra marsica contro le popolazioni italiche coalizzate contro Roma, e in questa occasione conosce Cicerone e Pompeo.

Nell'88 a.C. passa agli ordini di Silla, eletto console, e lo segue in Asia nella Prima guerra mitridatica.

La leggenda nera di Catilina

Dagli storici contemporanei e da Cicerone, tutti a lui ostili, Catilina è descritto come un uomo malvagio e depravato, anche se vigoroso. Nell'84 a.C., quando Silla rientra a Roma per contrastare i suoi nemici politici (i populares) nella Guerra civile romana, Catilina si segnala come uno dei più abili e spietati sostenitori di Silla, uccidendo fra gli altri il cognato Marco Mario Gratidiano, da lui stesso torturato e decapitato sulla tomba di Quinto Lutazio Catulo, illustre vittima delle persecuzioni di Gaio Mario; portò poi la testa a Roma e nel Foro la gettò ai piedi di Silla. Questo racconto e altri che raffigurano eventi simili, descritti come un sacrificio umano dell'epoca arcaica, in cui secondo varianti (come quella di Cassio Dione, vissuto tre secoli dopo), Catilina si macchia anche di cannibalismo, sono state rilevate eccessive da alcuni storici moderni, e miranti a screditare il personaggio anche dal punto di vista umano, come sarebbe avvenuto molte volte anche per imperatori romani detestati dal Senato (Caligola, Nerone, Tiberio, Commodo). Tra le altre accuse rivolte a Catilina, oltre all'omicidio e alla cospirazione, quella di corruzione, di incesto, di violenza sessuale ad una vergine vestale; verrà però assolto in tutti i processi, tuttavia ebbero l'effetto di rallentare la sua carriera politica.

Le cariche pubbliche

Negli anni successivi, pur nel mutato clima politico dopo la morte di Silla, Catilina non subisce condanne, ma ottiene anzi i primi successi politici: questore nel 78, legato in Macedonia nel 74, edile nel 70, pretore nel 68 e governatore dell'Africa nel 67.

Al suo ritorno, nel 66 a.C., si candida alla carica di console, ma viene subito perseguito per concussione e abuso di potere, uscendone assolto; ancora nel 66 è accusato di una cospirazione con Autronio e un certo Publio Cornelio Silla, anche se i particolari sono poco chiari. Portato in giudizio nel 65 a.C., ricevette l'appoggio di molte persone influenti, anche di categoria consolare come Lucio Manlio Torquato, e lo stesso Cicerone aveva ipotizzato di difenderlo in tribunale. Catilina fu assolto, ma i processi furono sufficienti a mandare a monte la sua elezione a console.

Poiché è ancora sotto processo, Catilina può ricandidarsi a console solo nel 64 a.C. per l'anno successivo, ma il Senato, allarmato dalla sua accresciuta popolarità, gli oppone un brillante e famoso avvocato, Cicerone, un Homo novus. Già nel discorso di candidatura In toga candida, (da cui il termine candidato), Cicerone inizia a costruire l'immagine "nera" di Catilina, insinuando che fosse incestuoso, assassino, degenerato; gli optimates, l'oligarchia senatoria, mobilitano le loro clientele a favore di Cicerone, che vince e viene eletto.

Catilina, tenace, si candiderà nuovamente alle elezioni per il 62 a.C., non prima di essersi guadagnato l'appoggio della plebe romana e degli schiavi con ingegnosa demagogia, frequentando attori e gladiatori, idoli del popolino, e promettendo una ridistribuzione delle terre demaniali e prede di guerra (guadagnandosi così anche l'appoggio dei veterani di Silla, caduti in disgrazia) ed emanando addirittura un editto per la remissione dei debiti (detto Tabulae novae). Quest'ultima proposta allarma la classe senatoria e Cicerone che, nell'orazione Pro Murena, sottolinea in Catilina «...la ferocia, nel suo sguardo il delitto, nelle sue parole la tracotanza, come se avesse già agguantato il consolato».

L'accusa di congiura

All'ultimo momento Cicerone presenta in Senato alcune lettere anonime che accusano Catilina di cospirazione contro la Repubblica, radunando uomini in armi attorno a Fiesole, pur non potendo provarlo. Cicerone inoltre sostiene che Catilina abbia fatto offerte a varie tribù in Gallia per assicurarsi alleati, ma la tribù degli Allobrogi avrebbe rifiutato l'offerta e l'avrebbe resa pubblica avvertendo con lettere Cicerone stesso.

Con queste premesse, e con un probabile broglio elettorale, nelle elezioni Catilina viene sconfitto da Murena, personaggio gradito al Senato. La questione dei brogli venne sollevata non da Catilina ma da Servio Sulpicio Rufo, un altro dei non eletti, e da Catone, uomo tutto d'un pezzo e notoriamente ostile a Catilina. Cicerone difende Murena dalle accuse di brogli e attacca Catilina, denunciandone la presunta congiura; Catilina è costretto a una fuga in Etruria, che però definirà "esilio volontario".

Il 5 gennaio del 62 a.C. Catilina e i suoi fedelissimi vengono intercettati dall'esercito romano comandato dal generale Marco Petreio nei pressi dell'odierna Pistoia (Campo Tizzoro), nella piana denominata Ager Pisternensis; Catilina, vistosi bloccato il passaggio degli Appennini che conduce alla Gallia cisalpina da Quinto Cecilio Metello Celere, pur consapevole di andare incontro a morte certa, decide di battersi comunque insieme al suo esercito. Prima della fine, Catilina pronuncia quest'ultimo discorso ai suoi pochi ma fedeli seguaci:

(LA)

« Compertum ego habeo, milites, verba virtutem non addere neque ex ignavo strenuum neque fortem ex timido exercitum oratione imperatoris fieri. Quanta cuiusque animo audacia natura aut moribus inest, tanta in bello patere solet. Quem neque gloria neque pericula excitant, nequiquam hortere: timor animi auribus officit. Sed ego vos, quo pauca monerem, advocavi, simul uti causam mei consili aperirem. Scitis equidem, milites, socordia atque ignavia Lentuli quantam ipsi nobisque cladem attulerit quoque modo, dum ex urbe praesidia opperior, in Galliam proficisci nequiverim. Nunc vero quo loco res nostrae sint, iuxta mecum omnes intellegitis. Exercitus hostium duo, unus ab urbe, alter a Gallia obstant; diutius in his locis esse, si maxume animus ferat, frumenti atque aliarum rerum egestas prohibet; quocumque ire placet, ferro iter aperiundum est. Quapropter uos moneo, uti forte atqueparato animo sitis et, quom proelium inibitis, memineritis uos diuitias decus gloriam, praeterea libertatem atque patriam in dextris uostris portare. Si uincimus, omnia nobis tuta erunt: commeatus abunde, municipia atque coloniae patebunt: si metu cesserimus, eadem illa aduorsa fient, neque locus neque amicus quisquam teget quem arma non texerint. Praeterea, milites, non eadem nobis et illis necessitudo inpendet: nos pro patria, pro libertate, pro uita certamus; illis superuacaneum est pugnare pro potentia paucorum. Quo audacius adgredimini, memores pristinae uirtutis. Licuit uobis cum summa turpitudine in exilio aetatem agere, potuistis nonnulli Romae amissis bonis alienas opes expectare: quia illa foeda atque intoleranda uiris uidebantur, haec sequi decreuistis. Si haec relinquere uoltis, audacia opus est: nemo nisi uictor pace bellum mutauit. Semper in proelio iis maxumum est periculum, qui maxume timent: audacia pro muro habetur. Cum vos considero, milites, et cum facta vostra aestumo, magna me spes victoriae tenet. Animus, aetas, virtus vostra me hortantur, praeterea necessitudo, quae etiam timidos fortis facit. Nam multitudo hostium ne circumvenire queat, prohibent angustiae loci. Quod si virtuti vostrae fortuna inviderit, cavete inulti animam amittatis neu capiti potius sicuti pecora trucidemini quam virorum more pugnantes cruentam atque luctuosam victoriam hostibus relinquatis! »

(IT)

« So assolutamente, o soldati, che le parole non aggiungono valore e che un esercito non diventa coraggioso da vile né forte da pavido per un discorso del generale. Quanto è grande il coraggio nell'animo di ciascuno per indole o per educazione, tanto grande è solito manifestarsi in guerra. Colui che né la gloria né i pericoli incitano, lo potresti esortare invano: il timore dell'animo tappa le orecchie. Ma io vi ho convocato per ammonirvi riguardo a poche cose e contemporaneamente per esporvi il motivo del mio piano. Invero certamente sapete, o soldati, qual grave danno abbiano portato a noi la viltà e l'indolenza di Lentulo, e anche a lui stesso, e per quale modo mentre aspettavo rinforzi dalla città, non sono potuto partire per la Gallia. Ora dunque a quale punto sia la nostra situazione, voi tutti lo capite insieme a me. Due eserciti nemici ci sbarrano la strada, uno dalla città e uno dalla Gallia; rimanere più a lungo in questi luoghi, anche se il nostro animo lo desidera moltissimo, lo impedisce la mancanza di frumento e di altre cose. Dovunque ci piaccia andare, bisogna aprirsi la strada con le armi. Perciò vi esorto a essere forti e pronti e, quando entrerete in combattimento, a ricordare che voi portate nelle vostre mani destre ricchezze, onore, gloria, senza contare la libertà e la patria. Se vinceremo, non correremo più alcun pericolo; ci saranno vettovaglie in abbondanza, municipi e colonie spalancheranno le porte. Se, causa la paura, ci saremo ritirati, quei medesimi diventeranno ostili, nessun amico, nessun luogo potrà proteggere chi le armi non siano riuscite a proteggere. Inoltre, soldati, non è il medesimo bisogno a incombere su di noi e su di loro: noi combattiamo per la patria, per la libertà, per la vita; per loro è superfluo combattere per il potere di pochi. Perciò, attaccate con maggior audacia, memori dell'antico valore! Vi sarebbe stato concesso passare la vita in esilio con il massimo disonore: alcuni di voi avrebbero potuto bramare a Roma, dopo aver perso le proprie, le ricchezze di altri. Poiché quelle azioni sembravano turpi ed intollerabili agli uomini, avete deciso di seguire queste. Se volete abbandonare questa situazione, c'è bisogno di coraggio; nessuno, se non da vincitore, ha mai cambiato in pace una guerra. In guerra il massimo pericolo è quello di coloro che di più hanno paura; il coraggio è considerato come un muro. Quando vi guardo, o soldati, e quando considero le vostre azioni, mi prende una grande speranza di vittoria. L'animo, l'età, il valore vostri mi incoraggiano, e la necessità, inoltre, che rende coraggiosi anche i pavidi. E infatti l'inaccessibilità del luogo impedisce che la moltitudine dei nemici possa circondarci. Se la fortuna si sarà opposta al vostro valore, non fatevi ammazzare invendicati, e neppure, una volta catturati, non fatevi trucidare come bestie piuttosto che lasciare ai nemici una vittoria cruenta e luttuosa combattendo alla maniera degli eroi! »

(Sallustio, De coniuratione Catilinae, 58.)

Dopo la sanguinosa battaglia di Pistoia, Catilina muore (secondo lo storico Sallustio, Catilina fu ritrovato ancora vivo sul campo di battaglia, anche se ferito mortalmente) insieme ai suoi 20'000 soldati e i suoi resti vengono gettati in un fiume, mentre la testa viene riportata a Roma da Antonio, uno dei congiurati di Catilina che si era finto malato per non combattere contro il suo superiore e soprattutto per non rischiare che quest'ultimo ne rivelasse la partecipazione alla congiura (proprio per questo motivo preferì lasciare il comando delle truppe romane a Marco Petreio)

Cicerone, l'anti-Catilina

« [Rivolgendosi ai congiurati] Se io non avessi sperimentato la vostra determinazione e la vostra fedeltà, invano si sarebbe presentata a noi questa occasione favorevole; inutile sarebbe la nostra grande aspettativa di potere, né io cercherei, attraverso uomini codardi e falsi, l'incertezza al posto della certezza. Ma siccome io conosco la vostra fortezza e la vostra fedeltà nei miei confronti in molti e ardui cimenti, proprio per questo il mio animo mi consente di intraprendere questa impresa davvero grande e gloriosa, anche perché ho constatato che condividete con me i possibili vantaggi ma anche i pericoli. Infatti una vera amicizia si basa sugli scopi e interessi comuni. »

(L. Sergio Catilina, citato in De Catilinae coniuratione di Sallustio)

La maggior parte delle informazioni su Catilina ci è giunta tramite Cicerone, suo acerrimo nemico politico. La posizione di Cicerone si riassume bene nell' incipit della prima delle orazioni Catilinarie, pronunciata al Senato l'8 novembre del 63 a.C., in presenza dello stesso Catilina, quando Cicerone esordisce con:

(LA)

« Quo usque tandem abutēre, Catilina, patientia nostra? »

(IT)

« Fino a quando abuserai, o Catilina, della nostra pazienza? »

(Cicerone, Oratio in Catilinam I, 1.)

La nota congiura di Catilina, che ha come fonte principale l'impianto accusatorio di Cicerone, è uno degli eventi più famosi degli ultimi turbolenti decenni della Repubblica Romana. Dalle fonti non risultano chiari gli obiettivi dei cospiratori; secondo quanto riferito da Cicerone, sarebbero stati previsti un incendio doloso e altri danni materiali, oltre che l'assassinio di personaggi politici (in particolare Cicerone stesso). La congiura si sarebbe sviluppata attraverso incontri segreti - l'ultimo sarebbe avvenuto nella casa del senatore Leca il 6-7 novembre del 63 a.C., alla vigilia della prima Catilinaria - ma una certa Fulvia, amante di uno dei congiurati (Quinto Curio), avrebbe informato direttamente Cicerone di quel che stava accadendo. Quella sera stessa due congiurati (Cornelio e Vargunteio) si sarebbero presentati a casa di Cicerone e, con il pretesto di salutarlo, avrebbero tentato di ucciderlo. Ma grazie a Fulvia, Cicerone sarebbe scampato agli assassini. Cicerone non risparmiò mezzi ed effetti speciali per mettere in cattiva luce Catilina. In attesa dell'esito della denuncia per brogli contro Murena (.Aiuto:Chiarezza|che avrebbe potuto assegnare regolarmente la carica di console a Catilina, che non aveva dunque motivo per mosse disperate), Cicerone si presentò al Campo Marzio circondato da una scorta e «...vestendo quella mia ampia e vistosa corazza [sotto la toga], non perché essa mi proteggesse dai colpi, che io sapevo essere suo costume [di Catilina] sferrare non al fianco o al ventre ma al capo o al collo, bensì per richiamare l'attenzione di tutti gli onesti».

Il console Cicerone, cioè, dopo aver difeso il neo-console Murena dall'accusa di brogli (e allo scopo di evitare l'assegnazione della carica al candidato dell'opposizione Catilina, senza che nessuno contestasse tale conflitto d'interessi), ostentava un comportamento per indurre «gli onesti» a vedere in Catilina un uomo pericoloso, capace di uccidere il suo rivale. A seguito di ciò ottenne l'emanazione del senatusconsultum ultimum, che dava ai consoli in carica, tra cui Cicerone stesso, poteri di vita e di morte. In virtù di tale delibera Cetego e Lentulo, i catilinari che non erano scappati con il loro capo (secondo l'accusa, rimasti a Roma avrebbero tentato comunque di far sollevare la plebe e la tribù degli Allobrogi), furono condannati alla pena capitale. Portati con i loro seguaci nel carcere Mamertino furono strangolati uno a uno. Come cittadini romani sarebbe stato loro diritto appellarsi al popolo (provocatio ad populum, la richiesta di grazia sulla quale erano chiamati a pronunciarsi i comizi elettivi delle tribù romane) e in ogni caso avrebbero avuto diritto a poter scegliere l'esilio al posto della morte, anche se questo avrebbe comportato la confisca di tutti i loro beni. Il vulnus così inferto alla Costituzione romana fu rimproverato a Cicerone da Gaio Giulio Cesare durante la seduta del Senato e alcuni anni dopo, su iniziativa del tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro, Cicerone verrà punito con l'esilio per l'uccisione illegittima di cittadini romani.

Considerando che il senato aveva già dichiarato nemici della Repubblica i congiurati e dato pieni poteri al console Cicerone, l'esecuzione dei congiurati era, o può essere considerata, esecuzione di nemici, non di cittadini.

Lo storico Sallustio ha scritto un resoconto sull'intera questione circa 20 anni dopo, dal titolo De Catilinae coniuratione, senza però discostarsi significativamente dalle descrizioni di Cicerone (le differenze storiche sono per lo più sulla cronologia, forse errori involontari di Sallustio, più probabilmente usati per scagionare Cesare dal sospetto di aver partecipato per un periodo alla congiura).La storiografia ci fornisce inoltre molteplici contributi che potrebbero far pensare alla congiura come un bluff ciceroniano, per scrollarsi di dosso l'appellattivo di civis inquilinus urbis conferitogli da Catilina.

Il progetto politico di Catilina

« Non è più degno morire da valorosi, piuttosto che trascorrere passivamente e con vergogna un'esistenza misera e senza onori, soggetti allo scherno e all'alterigia? »

(L. Sergio Catilina, citato in De Catilinae coniuratione di Sallustio)

Il progetto di Catilina non era troppo diverso da quello di altri che avevano tentato di riformare la Repubblica in senso popolare, anche forzando il sistema, come Tiberio Gracco e suo fratello Gaio, come farà anche lo stesso Cesare in seguito.

Nell'orazione Pro Murena del 63 a.C. Cicerone contesterà a Catilina un'affermazione che ne rivela il progetto politico: «La Repubblica ha due corpi: uno fragile, con una testa malferma; l'altro vigoroso, ma senza testa affatto; non gli mancherà, finché vivo».

Nell'analisi politica di Catilina la Repubblica Romana vive una separazione gravissima della società dalle istituzioni. Il corpo fragile rappresenta il corpo elettorale romano, spaccato in cricche, clientele e bande (nell'88 a.C. tutti gli italici avevano avuto la cittadinanza romana, ma per votare occorrevano tempo e risorse per recarsi a Roma, da qui la degenerazione clientelare); la testa malferma rappresentava invece il Senato, abituato al potere ereditario, colluso con i grandi proprietari terrieri, composto per lo più dall'ottusa classe del patriziato.

Il corpo vigoroso ma senza testa simboleggiava la massa di contribuenti, tartassati e umiliati dal disordine politico (per ripagare i propri reduci, Silla aveva ordinato larghe confische ai piccoli possidenti), senza vera rappresentanza politica, per la quale Catilina si propone come "testa" pensante, al tempo stesso rendendosi conto della pericolosità dell'andare contro l'oligarchia dominante. Tra l'altro Catilina, tempo prima di organizzare la congiura contro l'oligarchia senatoria, si era fatto molti alleati e amici non solo tra i contribuenti e i piccoli proprietari terrieri, ma anche tra esponenti della classe degli equites. Insieme agli equites Catilina era riuscito a ingraziarsi anche molti senatori, spinti dal malcontento provocato dalla politica senatoria dell'epoca e di Pompeo, così come anche dalla difficile situazione economica di allora. A testimonianza della popolarità di Catilina fra i ceti sociali più bassi riportiamo due brani di Sallustio da De Catilinae coniuratione:

« Nel frattempo Manlio in Etruria istigava la plebe, desiderosa di cambiamenti allo stesso tempo per la miseria e per il risentimento dell'ingiustizia subita, poiché, durante la dittatura di Silla, aveva perso i campi e tutti i suoi beni; inoltre istigava i ladri di qualsiasi genere, di cui in quella regione c'era grande abbondanza, e alcuni coloni Sillani, ai quali, per dissolutezza e lussuria, non era rimasto nulla di ciò che avevano rubato. »

(Sallustio, De Catilinae coniuratione, 28.)

« E non era sconvolta solo la mente di coloro che erano i complici della congiura, bensì l'intera plebe, desiderosa di cambiamenti, approvava i propositi di Catilina. Così sembrava facesse ciò secondo il suo costume abituale. Infatti in uno Stato i poveri invidiano sempre i ricchi ed esaltano i malvagi; odiano le cose antiche, desiderano vivamente le novità; a causa dell'avversione alla loro situazione aspirano a sovvertire ogni cosa; si nutrono di tafferugli e di disordini, visto che la povertà rende facilmente senza perdite. »

(Sallustio, De Catilinae coniuratione.)

Diversi anni dopo la morte di Catilina, nell'orazione Pro Caelio del 56 a.C. (Celio era stato amico di Catilina), Cicerone ammetterà che Catilina aveva raccolto attorno a sé «anche persone forti e buone», offriva «qualche stimolo all'attività e all'impegno», e che in certi momenti era sembrato a Cicerone perfino «un buon cittadino, appassionato ammiratore degli uomini migliori, amico sicuro e leale». Catilina, ammetterà ancora Cicerone, «era gaio, spavaldo, attorniato da uno stuolo di giovani»; per di più, «vi erano in quest'uomo caratteristiche singolari: la capacità di legare a sé l'animo di molti con l'amicizia, conservarseli con l'ossequio, far parte a tutti di ciò che aveva, prestar servigi a chiunque con il denaro, con le aderenze, con l'opera...».

Catilina presenta dunque i tratti dell'uomo politico di successo, capace di ottenere consensi, ma malvisto dall'oligarchia degli optimates del Senato.

Dipinto di Cesare Maccari;

Raccolta Foto de Alvariis

La Cacia, die dominico 30 iunii anno domini 1491

 

In una casa in campagna, nel paese di La Cacia, vicino a Torino, Maria e sua figlia sono in casa, in un ambiente unico a piano terra con la stalla e la cucina.

Sulla stufa qualche pentola manda profumi di cibo, la figlia è alla finestra, guarda fuori. La porta è aperta, si sente un bel caldo in questa primavera che è quasi diventata estate.

 

Mantina, devi andare a portare le capre al pascolo, muoviti.

Sì mamma, ora vado. Ma stassera ceniamo con gli altri?

Certo, sarà una bella sera; uniremo i tavoli sulla strada come al solito, in queste giornate che si allungano è ancora più bello.

Quanti saremo?

Quasi tutti.. forse tutta la via, questa volta. Anche perchè prima dobbiamo trovarci per delle discussioni importanti.

Quando?

Tra poco. Mentre tu sei al pascolo; poi chiudile nel recinto e raggiungici lì.

Che bello! Sono contenta!

Ma... perchè piangi mamma?

Non piango.. sono le cipolle.

E perchè le metti così vicino agli occhi?

Per farli lacrimare. Ma tu va adesso, vai.

E perchè devi lacrimare?

Ho detto vai! Ti spiego tutto dopo. Pestifera.. muoviti dai!

E perchè metti il viso nel pentolone, col vapore?!?

Diamante! Vai ora, ti ho detto che ti spiego tutto.

Va bene, vado....

 

La bambina uscì dalla casa con il viso un po' corrucciato.

Maria cercò il più possibile di avvicinare il viso alla pentola dell'acqua calda, e di resistere il più possibile.

Lo fece più volte, poi di nuovo sfregò le cipolle sotto gli occhi.

Si guardò nello specchio, una lastra di stagno lucida... ottimo risultato, pensò.

Ora veniva la parte più difficile, l'ultima.

Aveva legato una cintura di suo marito alla ruota dell'arcolaio; girando la manovella la cintura sibilava veloce nell'aria.

Alzò la gonna, preparò le natiche a ricevere un colpo.

Girò l'arcolaio più forte che poteva esponendo il sedere vicino alla zona dove sibilava la cintura, non osando avvicinarsi; pensava di colpirsi un po' di striscio, in modo da lasciare un bel segno ma non il dolore.

Continuava a girare la manovella ma non riusciva a risolversi a farsi prendere a cinghiate da quel mezzo poco usuale. Si accorse che le lacrime cominciavano a diminuire, che il rossore in viso provocato dal vapore stava scemando. Oh e che sarà mai, ragionò e spostò la natica proprio in pieno sotto la cinghia sibilante.

Fu un dolore lancinante, come non aveva mai sentito. Maledisse il giorno in cui aveva deciso di farlo, le lacrime sgorgarono vere, questa volta, irrefrenabili.

Che dolore! Si morse le labbra.

La cute era rossa accesa, i margini viola fino ad essere rossi dove a tratti usciva sangue dall'abrasione, il segno fortissimo, il dolore acuto e bruciante. Rimise a posto la gonna, ma ad ogni passo la frizione del tessuto grezzo con la ferita le procurava una sofferenza acutissima.

 

Dopo qualche passo si ritrovò in paese al luogo convenuto, davanti alla chiesa.

Il curato troneggiava davanti a tutti; una serie di uomini da una parte ascoltava a capo chino, una serie di donne dall'altra, un po' più distanti, guardava la scena di sottecchi, confabulando sottovoce.

La voce del curato si sentiva forte, tuonava di castighi tremendi.

Un uomo disse ad un altro "A Lanzo ne hanno bruciate dodici'."

Gaspardo trasalì nel sentirlo; istintivamente cercò gli occhi di Maria nel gruppo delle donne; l'aveva vista arrivare - sembrava zoppicasse - poco tempo prima.

Alzò lo sguardo verso le donne e vide sua moglie lacrimante, rossa in viso; ebbe un tuffo al cuore. Proprio in quel momento lei alzava la gonna per far vedere alle altre quel segno, ormai viola, sulle cosce.

Gli uomini notarono lo sguardo fisso di Gaspardo e tutti, curato compreso, si voltarono nella direzione degli occhi e videro la striscia viola tra la natica e la coscia, tutt'intorno arrossita, e notarono le lacrime ed il viso compunto di Maria. Durò troppo, quella scena; il curato se ne accorse ed invitò con lo sguardo, e riprendendo a parlare, a non osservare quelle nudità. Ma nel riprendere il discorso quando posava gli occhi su Gaspardo ora sembrava esprimere ammirazione e, congedando il gruppo, senza parlarne apertamente lodò Gaspardo per essere un buon capofamiglia.

 

Anche gli altri uomini lo guardavano con un misto di ammirazione e rispetto; qualcuno gli disse bravo, o così o fanno quello che vogliono e perdi il controllo. Altri si stupirono che un uomo forte come lui avesse preso a cinghiate una moglie così esile; ci sono altri metodi, suvvia. Subito gli offrirono un bicchiere di vino; per certo si congratularono con lui per aver risolto positivamente una bella grana; a Lanzo, del resto, ne avevano bruciate dodici! Così si spostarono dove si stavano apparecchiando i tavoli per la cena e lui cercò in tutti modi di schivare i complimenti che gli altri uomini gli facevano.

Non stava capendo niente.

L'unica cosa che voleva era parlare con Maria, capire cosa fosse successo. Se non era stato lui a prenderla a cinghiate, e questo era certo, cosa poteva essere successo? Chi l'aveva fatto? Chi, comunque, aveva risolto questa brutta situazione in cui si era andata a ficcare, proprio ora che lui aveva trovato un lavoro stabile e ben pagato, alla fabbrica del Duomo di Torino?

Era la sera, più o meno verso le sette, e le donne si stavano dando da fare per apparecchiare il tavolo, entrando e uscendo dalle case; ognuna entrava nella casa dell'altra, chiacchierava, dava un giro di mestolo nelle pentole, prendeva qualche tovaglia, qualche stoviglia, qualcosa per apparecchiare fuori.

 

Appena l'attenzione su di lui fu scemata uscì dal drappello di uomini e seguì Maria nella casa di una vicina. Era ancora rossa in viso e con gli occhi lucidi.

La raggiunse in una stanza dov'erano soli; lei stava cercando delle tovaglie da un armadio, dopo averle prese si rigirò e si trovò suo marito davanti.

Non ci fu bisogno di parlare; il sorriso felice di Maria non richiedeva parole, lui capì che non c'era nulla di cui preoccuparsi, che quella donna esile, dolce era anche a suo modo furba; quasi quanto un uomo, pensò. Forse di più, gli venne in testa di pensare, ma non osò soffermarsi; già avevano corso un grosso rischio di eresia.

"Ma cosa hai fatto, chi te l'ha fatto, perchè, per come dimmi almeno cosa... "

Lei pose l'indice sul suo naso.

"sssttt ti dirò tutto.

Senti.

Ho fatto tutto io, da sola."

E lei gli schioccò un bacio sul naso, sonoro, proprio mentre la padrona di casa entrava. Era un donnone forte e curioso, gioviale e chiacchierone; ma questa proprio non se la spiegava, e mentre Maria correva fuori saltellando disse a Gaspardo:

"Questa me la devi spiegare però; come fai a battere le donne e poi a farti baciare con quel sorriso così radioso? Che ci fai tu alle donne?"

Gaspardo fece uno sguardo d'intesa, sostenne lo sguardo e disse gravemente "Taci donna, son segreti degli uomini forti; non t'impicciare."

Lei lo seguì con uno sguardo di ammirazione, e, forse, di invidia per la moglie.

 

Arrivò in mezzo a loro il banditore, Medichino Liegi; il realtà era una guardia del Duca che assolveva anche a questo compito, ed aveva in mano un rotolo che, come al solito avrebbe letto davanti a tutti. Era un uomo mingherlino e pieno di sè, si dava molta importanza e gli piaceva molto sentire il suono della propria voce davanti al pubblico silenzioso, perciò disse "venite, adunatevi che devo leggervi un avviso importante, e muovetevi non ho tempo da perdere e lo leggerò una volta sola."

 

Gaspardo un po' si rabbuiò. Era successa la stessa cosa, più o meno un mese prima; ricordava ancora quasi tutte le parole.

Quante cose erano successe da allora; alla felicità per avere trovato un lavoro così nobile e bello alla fabbrica del Duomo era seguito un periodo di paura infinita per la sorte di sua moglie e della sua famiglia.

Anche allora era arrivato Medichino con il suo fare altezzoso; anche allora li aveva radunati tutti; anche allora aveva letto un editto che non era del duca, ma addirittura del vescovo, del quale il duca si faceva braccio esecutivo, e diceva:

 

La Santità di Nostro Signore

per impedire gli inconvenienti che sotto vano pretesto di prendere la Guazza

sogliono commettersi nella notte precedente la Festa della Natività del glorioso precursore San Giovanni Battista,

ci ha comandato coll'Oracolo della sua viva voce

di rinnovare il presente Editto altre volte pubblicato,

in cui coll'autorità del Nostro Uffizio non solo in questo, ma in ogni altro Anno avvenire,

espressamente proibiamo

a qualsivoglia persona dell'uno e l'altro sesso

di andar in detta notte fuori delle porte della Città

sotto qualsivoglia pretesto che possa recar scandalo,

o dar motivo di credere ciò farsi in continuazione de' passati abusi

sotto pena in caso di contravvenzione rispetto agli Uomini

di tre tratti di corda in pubblico e di scudi 50 e altre pene a nostro arbitrio

secondo la qualità delle persone da applicarsi la metà ad usi pii e l'altra metà

per un quarto agli Accusatori, che saranno tenuti segreti,

e l'altro quarto agli Esecutori.

Rispetto poi alle Donne sotto pene gravi anche corporali a nostro arbitrio.

E per togliere ogni occasione ai mentovati disordini

si ordina e si comanda

a tutti gli osti e bettolieri che, nella Vigilia di detto Santo,

debbano tener serrate le loro osterie e bettole dalle ore 3 di notte alle 10 del giorno dopo [dalle 21 alle 4]

sotto le stesse pene, nelle quali incorreranno anche le persone trovate in detti luoghi sebbene a porte chiuse.

Avvertendo finalmente, che contro i trasgressori

sia nel primo sia nel secondo caso

si procederà per inquisizione

ed in ogni altro modo alla cattura ed esecuzione di dette pene.

 

"Si procederà per inquisizione", questo lo ricordava bene, a chi andrà a 'prendere la Guazza'.

Per questo aveva pregato sua moglie, troppo intelligente, troppo furba, troppo di tutto di non andare a prendere la guazza la notte del Precursore di Nostro Signore, il san Giovanni Battista; anzi, di restare in casa.

Maria lo aveva guardato con gli occhi dolci, i più dolci che aveva a disposizione, e gli aveva detto "ci sono cose, marito mio, ci sono cose che ho dentro; e non ci sarà prete a farle tacere. Ci sono cose che sento forti e buone e potenti, ci sono cose a cui mi lascio andare per sentirmi viva, per sentirmi femmina in questo mondo di maschi e per i maschi. L'anno scorso l'ho presa, mia madre la prendeva, mia nonna e così via fino alla Maddalena e forse prima ancora; la terra tutta la prende in quella notte sacra. Il Precursore battezzò con l'acqua: e acqua sia in me, la terra mi faccia germogliare in grembo la vita nella notte in cui la luna sposa l'acqua. Nessuna femmina può resistere al richiamo, se è viva dentro; lo insegnerò a Mantina quando sarà ora, vorrò sentire la Luna chiamare Diamante, vieni, uniamo le acque in questa notte magica."

 

Lui semplicemente, era spaventato. Ma chi ho davanti, cos'è questa potenza che mi si para in questo corpo di femmina. E forse il demonio? Incapace di tenere tanta potenza nella sua mente, ne era sovrastato; la fiducia negli occhi di Maria vinceva su tutto, ma il terrore che incorresse in qualche denuncia e si procedesse 'per inquisizione' lo lasciava senza possibilità di ragionare. A Lanzo, si diceva allora, sarebbero salite sul rogo dodici streghe.

E per questo quella notte, tornando dal lavoro, non poteva pensare ad altro; era notte, c'era una luna grande, e dalla fabbrica del Duomo a casa ci volevano due ore buone.

Era rimasto alla fabbrica fino a ora tarda; di giorno il carro della festa che buttava merci a tutti era passato davanti alle chiese di Solutore, del Precursore e di Santa Maria donando a tutti merci e regali; la festa di san Giovanni era veramente grandea Torino; poi era dovuto rimanere fino a tarda ora, fino all'ultima messa in san Solutore, a controllare che i rinforzi alle murature non presentassero problemi mentre venivano celebrate le messe.

Aveva visto, e sentito, cose incredibili, ne era scosso; ma tornando a casa il pensiero di sua moglie insieme alle altre donne a prendere la guazza lo tormentava.

 

Lei glielo aveva raccontato, una sera d'inverno; c'era anche sua madre e sua nonna. Non erano d'accordo nel dirlo ad un maschio le due più anziane; ma Maria aveva insistito, "è mio marito e mi fido."

"Ci sono cose che gli uomini non devono sapere" - dicevano loro, e storcevano un po' il naso; nonostante questo assistettero e anzi, spiegarono meglio.

Così quella notte di San Giovanni tornando lungo le mulattiere di Druento, mentre la luna illuminava la bella valle e i campi, lui guardava verso il monte Barone e si immaginava quelle donne. Non c'era un rituale preciso; a volte la più anziana faceva un gesto e lo ripetevano le altre, a volte invece era una a caso che prendeva l'iniziativa, diceva, cantava o faceva qualcosa e le altre seguivano. A volte si tenevano per mano, spesso in cerchio, i piedi nudi nell'erba alta. Ad un segnale corale che sembrava arrivare insieme a tutte alzavano le gonne, fino sopra al seno, scoprendo il corpo nudo.

L'erba, gonfia di rugiada a quell'ora della notte, luceva sotto i raggi della luna.

 

Le donne, cantando e ripetendo la melodia quasi salmodiata in coro, piano, una ad una si inginocchiavano aprendo le ginocchia, facendo penetrare l'erba bagnata tra le gambe, in un amplesso magico con la terra; gli occhi rivolti alla luna bianchissima, le braccia levate in alto a riceverne l'influsso, il bacino ad eseguire piccoli cerchi di intensità crescente.

Non poteva non pensarci, non poteva pensare ad un mondo così lontano da lui eppure così desiderabile, per qualche momento si diceva che avrebbe voluto essere donna per provarlo; ma il timore di peccare subito faceva tacere in lui questi pensieri e sarebbe stato solo il sorriso di Maria, una volta tornato a casa, a fargli capire che, anche quest'anno l'aveva fatto e, anche quest'anno, era stato bellissimo.

 

C'era qualcuno a spiare le donne, quella notte; Medichino Liegi, inviato dal duca, che non aveva trovato mezzo migliore per avere l'amicizia del vescovo: trovare qualcuno che disobbedisse ai sui editti, e notificarglielo. Per questo aveva mandato la guardia che, una volta tornata, riportò al duca tutti i nomi delle donne coinvolte; tra cui Maria. In realtà il duca era infastidito da questa storia dell'inquisizione; perchè mai la Chiesa doveva occuparsi dei crimini nei territori del duca? Molto meglio prima, quando ogni Signore del territorio poteva liberamente sia decidere cosa fosse l'eresia, sia mandare al rogo a proprio piacimento gli eretici; tutto più semplice e lineare, molto più comodo da governare. Invece da quando c'era l'inquisizione no: lui non poteva essere signore in casa propria! Doveva per forza passare attraverso la Chiesa per mettere sul rogo un eretico, roba da pazzi. Che poi magari succedeva anche che la Chiesa istruisse un processo e alla fine dichiarasse innocente l'eretico, sconfessando il giudizio del Signore del territorio! Cose da pazzi, il mondo alla rovescia. Aveva visto un processo ad un eretico, giù nelle cantine di via san Domenico a Torino: che ci voleva a farlo? Non era anche lui in grado? Un prete esperto, un verbalizzatore civile cioè un notaio, un po' di strumenti per far uscire l'eresia dalla bocca dell'eretico.. cos'altro ci voleva? Invece no, tutto in mano alla Chiesa! Tutto in mano ai predicatori, a quei cani di San Domenico... Domini Canes, i cani di Dio, tanto che in via san Domenico i palazzi avevano le teste di cane ai portoni...

In ogni caso, era andato personalmente dal vescovo a portare la lista delle donne che avevano preso la guazza contravvenendo agli ordini; era certo di barattare la lista con qualche... concessione nei confronti della sua condotta, a volte un po' troppo libertina, che gli inimicava le gerarchie ecclesiastiche.

 

Il vescovo, non lo ricevette neanche; lo fece aspettare ore nel Chiostro del Paradiso, dove venivano custoditi proprio dietro a San Giovanni, nel palazzo del Vescovo, tutti i beni della curia; dandogli speranza di udienza lo fece passare da un subalterno che si impossessò della lista; il duca se ne andò infuriato.

Come da prassi, venne convocato il curato del paese in modo che potesse avviare le prime indagini; e fu proprio lui, durante la messa della domenica, a parlare in pubblico di questa lista, di come il demonio si fosse impossessato del paese di La Cacia dove proprio lui aveva in cura le anime.

Non fece nomi, in pubblico, ma predicò la necessità dei mariti di tenere 'in ordine' le proprie mogli, evitando gli influssi del demonio, e di non esitare a batterle nel caso che ne spuntassero i segni, in modo da estirpare il male fin dalla radice. Parlò della lista, ed ogni volta che la nominava le donne abbassavano gli occhi; gli uomini si guardavano l'un l'altro, e guardavano le mogli, sospetti e curiosi, sicuri della propria famiglia e inorriditi dalle altre.

La predica durò parecchio, incentrata sul castigo e sul perdono; fece capire che il giusto castigo è quanto più sia necessario, e se avesse visto i segni del castigo scendere sulle famiglie della città avrebbe capito che, forse, in qualche caso, qualche nome poteva essere tolto dalla lista.

Quando pronunciava la parola castigo lo sguardo faceva una strana parabola, partendo dagli uomini e andando verso le donne: cas--->tigo, come a far intendere che gli uomini avrebbero dovuto interpretare il giudizio divino per salvare la propria famiglia.

Fuori dalla chiesa, capannelli di uomini discutevano proprio di questo; nessuno sapeva bene cosa fosse la guazza e se la propria moglie partecipasse a questa sconosciuta pratica; spesso la sera o la notte, si recavano una a casa dell'altra, non si poteva sapere dove fossero andate. Qualcuno sosteneva comunque di battere le mogli, così, come cura ogni tanto necessaria, per farsi rispettare.

 

Quando Gaspardo si ritrovò solo con Maria, la guardò smarrito e le disse solo 'Non ti batterò mai'.

Lei le rispose di rimando 'E se to chiedessi io? Potrebbe diventare necessario'.

 

Tutto questo pensava Gaspardo, mentre il banditore stava per aprire il foglio.

Tutti questi pensieri si aggrovigliavano nella sua mente, mentre cominciava a declamare con la sua voce stridula.

L'editto era del duca ed era una copia di quello del vescovo, semplicemente diceva che avrebbe provveduto lui stesso oltre all'inquisizione; venendo dal duca, lo riteneva meno importante, sapeva che in fondo era solo un gran chiacchierone.

Poi guardando la tavolata che s'apprestava allegramente a mangiare Medichino chiese:

'"Avete il permesso ducale per l'uso del suolo pubblico? Senza quello dovete sgomberare immediatamente la via, o sono obbligato a denunciarvi al duca!'"

Gli uomini cominciarono a canzonarlo... il permesso ducale!! Per poter pranzare davanti a casa!

Il messo continuava a sbraitare, ma più nessuno lo stava sentendo; era arrossito e arroventato dalla situazione.

Fu Mantina a prenderlo per mano e a portarlo a sedere a tavola; qualche uomo gli servì un bicchiere di vino e lui prese la decisione che gli cambiò la vita: si sedette con loro, e dimenticò il permesso d'uso del suolo pubblico, cominciando a sorridere e a conoscere, davvero, i suoi compaesani.

Partecipò alla serata; dopo qualche bicchiere di vino gli animi si fecero allegri, e Gaspardo portò un liquore che aveva preso il giorno di San Giovanni quando il carro ne distribuiva a tutti, a Torino.

Qualcuno si complementò con lui per il lavoro alla fabbrica del Duomo; nella sera estiva gli chiesero dai, raccontaci, cos'è, come funziona una fabbrica, come lavori, cosa fai.

Gaspardo era un 'mastro', cioè un muratore in grado di tracciare muri e costruirli; aveva lavorato parecchio nelle valli e per questo era stato chiamato dal Beccuti, che era colui che per conto del Cardinale della Rovere seguiva i lavori.

Cominciò a raccontare.

"Il posto l'avete visto anche voi, a Torino, noi normalmente andiamo a vendere le verdure sotto la porta palatina e non ci avventuriamo oltre; più avanti, un po' a sinistra e prima di arrivare a porta Fibellona, ci sono tre chiese. Ma non sono tre chiese separate; cioè, mi hanno detto che erano separate, ma poi col tempo si sono unite. Quindi pensate a tre chiese, una a fianco all'altra, che poco alla volta nel tempo si estendono sia tra di loro che, con i portico, in avanti; in modo da costruire un portico unico e una chiesa grande e unica perchè tutti i lati comunicano tra loro.

La chiesa di mezzo è quella del Precursore, di San Giovanni; quella alla sua sinistra è san Solutore in ricordo dei primi martiri cristiani, quella a destra santa Maria del Dompno, che vuol dire del Signore.

L'interno è un dedalo: si può entrare da una parte e uscire dall'altra. Inoltre al fianco sinistro di san Solutore e a quello destro di santa Maria hanno costruito dei chiostri; quindi tutto è coperto da chiese e chiostri. Poi, dietro a queste tre.. ci sono zone.. strane."

"Ma non c'è il palazzo del vescovo lì?"

"Si, c'è anche il palazzo del vescovo, e dei cimiteri, e poi c'è il chiostro del Paradiso, e poi c'è la Sapienza. Sapeste che roba..."-

L'uditorio cominciava ad essere molto curioso e interessato. Donne e uomini e bambini si stringevano intorno a Gaspardo, qualcuno gli versava un bicchiere di vino, la sera era tiepida.

"Dai, racconta."

La Sapienza è un ambiente molto grande. Ha le finestre alte: tutte con i vetri. E' divisa in sezioni da muriccioli poco alti; ha una parte centrale che è una spece di rialzo largo, come se dovesse ospitare un altare, e libri, libri, tantissimi libri. C'è anche un forno, forse fanno del pane, e molte bottiglie e bottigliette dalle forme strane; boccette, contenitori."

"E chi sta lì?"

Poche persone ho visto da quelle parti; quasi sempre un uomo con la barba poco lunga e un mantello fino ai piedi. A volte è invece accompagnato da molte persone, una decina, sembrano sapienti, o saggi, e parlano lingue che non conosco. La notte di san Giovanni ero lì a controllare i puntelli, ho visto una luce nella Sapienza e sono andato a vedere.

Nella parte centrale, quella rialzata, c'erano tante candele, per terra, a costruire un cerchio largo più o meno come tre uomini distesi. In mezzo al cerchio, si muovevano delle figure. Dapprima non ho distinto chi fossero, poi ho visto; una era l'uomo con il mantello. L'altra era una donna."

"Una donna!! Lì!, nell'"insula episcopalis", non la chiamano così? Una donna!" Esclamo una delle mogli. " E cosa facevano? Si accoppiavano cantando i salmi?". Tutti risero un po'.

"No. La luce delle candele li illuminava dal basso; sembravano molto concentrati, seri, e sereni insieme.

Gli occhi di lei brillavano dolci; li intuivo alla luce tremolante delle candele, mi si fecero sempre più vicini, sempre più chiari; quegli occhi color nocciola non li dimenticherò più. Anche lo sguardo di lui era intenso e fisso negli occhi di lei.

Ad un certo punto..."

Si fermò, non sapendo se continuare il racconto; c'era il messo Medichino, poteva riportare chissà cosa.

Il suo amico Stefano versò un bicchiede di vino al messo, e uno a Gaspardo, e lo pregò di continuare.

Riprese il racconto.

"Entrambi avevano vesti lunghe; sembravano vesti regali, come se fossero un re ed una regina. Da lontano si sentivano i cori della messa della notte da san Giovanni e sentivo i brividi salirmi dalla schiena"

Stefano disse: " anche le donne a quell'ora la notte di san Giovanni avevano i brividi!" e tutti risero per un attimo, poi puntarono lo sguardo su Gaspardo.

"Si guardarono negli occhi per un po'. Poi entrambi si chinarono e presero un fiore con la mano destra.

Cominciarono una specie di danza descrivendo un cerchio a piccoli passi; sempre uno di fronte all'altro.

Alzarono le mani, come il parroco quando recita il paternoster nella messa; poi mossero entrambi la sinistra, e la strinsero l'uno con l'altra. Esattamente in quel momento dalle candele si levò una specie di fiamma rossa che durò un istante. Poi, sempre ruotando piano, forse nell'altra direzione non ricordo, alzarono i fiori; erano delle specie di tulipani, con il gambo molto lungo, li tenevano con la destra e lentamente chinarono i fiori in modo che si toccassero tra loro in alto; nel momento stesso in cui i fiori vennero a contatto si levò dalle candele una seconda fiammata rossa."

"E poi?"

"E poi sono caduto con un gran frastuono! Li stavo guardando aggrappato ad una finestra, sono scivolato e mi sono fatto anche male!"

"NOOOOOOO dissero tutti, non puoi lasciarci così!!"

Tutti ridevano e ricominciavano a bere, allegri.

" Ma li hai ancora visti quei due? "

" Sì, li ho visti ancora, una notte in san Giovanni";

"In san Giovanni! Di notte! Un'altra danza?!?"

Stefano gli versò un altro bicchiere, ormai forse ne aveva bevuti troppi, ma gli occhi che aveva davanti chiedevano spiegazioni, racconti.

La notte era scesa, le stelle luccicavano, gli animi erano allegri.

"Era la notte dopo quella di San Giovanni, mi ero fermato per parlare con gli scalpellini di Maestro Meo, quelli che erano arrivati da Roma con una mula. Erano arrivati tardi, ma avevano voluto vedere il cantiere, così li ho accompagnati a visitarlo; poi li ho accompagnati al loro albergo. Passando lì vicino ho visto dei piccoli bagliori in San Giovanni, quindi dopo sono tornato a vedere."

Stranamente c'erano delle guardie alle porte; probabilmente se mi fossi fatto riconoscere mi avrebbero fatto entrare; ma ho utilizzato qualche passaggio che conosco per entrare in San Giovanni da una porta laterale.

Quando sono entrato sono rimasto senza fiato.

La solea era tutta segnata da candele ai lati. L'avevo appena aggiustata: la solea è un percorso, una pedana sopraelevata che parte dal presbiterio, dall'altare, passa in mezzo ai banchi, e consente ai prelati di scendere in mezzo al popolo senza dover abbassarsi al loro livello; una specie di molo che passa attraverso la chiesa.

L'uomo era di nuovo vestito con il manto regale e stava percorrendo la Solea, a partire dal fondo e andando verso l'altare.

Dall'altare venne la donna. Era bellissima, splendida nel suo manto azzurro, regale nei suoi passi; di nuovo quegli occhi dolci e sicuri mi stordirono.

I due si avvicinarono poco alla volta, si congiunsero esattamente sotto la cupola, dove le candele formavano un cerchio e a terra c'erano i fiori pronti ad essere utilizzati come l'altra volta.

Quando si avvicinarono mi accorsi che una musica stava suonando, e forse anche un canto; tra le chiese di san Giovanni e quella di san Solutore c'era un grande organo a canne che le serviva entrambe essendo esattamente nel divisorio; il pensiero mi tranquillizzò, qualcun altro stava seguendo questa strana cerimonia, suonando e cantando.

I due si avvicinarono; questa volta i manti regali splendevano ancora di più grazie alla maggiore luce.

Cominciarono la stessa danza; anche questa volta le due fiammate rosse si sprigionarono dalle candele ma si trasformarono salendo in alto e diventando azzurrine; sembrava per un attimo che esistesse una colonna di fuoco sopra di loro che in alto era azzurro intenso, diventava rossa e poi gialla intorno a loro per scendere sotto e diventare marrone e viola, a costruire una colonna verticale.

Unirono le sinistre, unirono i fiori; prima di andare avanti, scollarono un po' le spalle a scostare i mantelli, tuffarono gli occhi uno nell'altro.

Entrambi portarono la mano alla spilla che unisce i bordi del mantello al collo; pensavo se lo stessero togliendo.

Intanto la musica saliva. il canto si innalzava più alto.

Lui disse una parola.

Lei rispose con la stessa parola.

Ho letto dalle loro labbra qual era".

"E che parola era?"

"Septingenti".

"Come septingenti? E che vuol dire?"

"Significa settecento".

"E allora? perchè settecento?"

"E che ne so? Questo dicevano, prima che prendessi il più grande spavento della mia vita"

"Spavento?? Ma cos'è quest'avventura?? Incredibile. Racconta racconta racconta!"

"Li vedevo di sbieco, e volevo vederli meglio. Allora ho deciso che sarei andato a vederli dalla balconata dell'organo; i cantori e l'organista non avrebbero potuto vedermi, conosco bene quella balconata, mentre io potevo sia vedere loro che la coppia 'regale'.

Così, facendo piano sono salito curandomi di non essere visto, mi sono accucciato, e finalmente ho potuto guardare; e lì ho preso, cari amici, come dicevo, il più grande spavento della mia vita.

L'organo suonava da solo.

I tasti scendevano come se fossero mossi da dita invisibili; i registri si muovevano tirati e spinti da... nessuno.

Non solo questo mi spaventò.

Dalle canne, usciva un canto, una voce.

Voce umana."

  

C'è la pagina Facebook di Krueger, e il romanzo si può approfondire e comprare su krueger.losero.net.

da la Repubblica

  

La manifestazione organizzata dopo il raid punitivo di sabato scorso

sfila senza incidenti. La Digos nega "il movente di tipo politico"

Pigneto, migliaia in corteo

"Solidarietà, no al razzismo"

 

Fava (Sd): "I pestaggi immotivati raccontano di un clima da liberi tutti"

Marrazzo (Pd): "No a strumentalizzazioni. Chiarirà tutto la magistratura"

 

ROMA - "Solidarietà agli immigrati colpiti dal razzismo, associazione Bangladesh". E' lo striscione che apre la manifestazione organizzata da centri sociali e associazioni di cittadini immigrati dopo l'aggressione contro tre negozi di immigrati avvenuta sabato scorso nel quartiere. Almeno tremila persone, secondo la questura, soprattutto residenti e immigrati, hanno attraversato le stradine di uno dei quartieri più di moda della Capitale proprio perchè multietnico e con mille facce e colori. "Pigneto libero da speculatori, fascisti, razzisti" era scritto su un altro striscione rosso.

 

La manifestazione è durata circa un'ora e mezzo e si è conclusa senza alcun tipo di tensione. E' partita dall'isola pedonale, ha raggiunto via Prenestina, è passata vicino alla chiesa di San Leone Pio, via Giovenale per poi tornare in via del Pigneto. Molti gli striscioni e le bandiere comprese quelle anarchiche. Un cartello espone la scritta "Xenofobia e razzismo centro sinistra e centro destra, dov'è la differenza". Tra i manifestanti ci sono il presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo, l'assessore regionale Giulia Rodano, l'europarlamentare Claudio Fava, gli assessori provinciali Massimiliano Smeriglio e Cecilia d'Elia oltre a Roberto Morassut, già assessore al comune di Roma. Presente anche il presidente del Municipio VI Gianmarco Palmieri.

 

Il corteo ha fatto tappa davanti ad ognuno dei tre negozi che sono stati assaliti e distrutti sabato pomeriggio da una decina di persone con caschi, cappucci e mazze. "Una ritorsione per lo scippo di un portafoglio" è la ricostruzione fornita dagli investigatori della Digos della questura di Roma molto attenti a non indicare un movente di tipo politico dietro il raid di sabato. Gli investigatori sono convinti di poter dare molto presto un nome e un cognome a chi ha organizzato la spedizione punitiva.

 

Una ricostruzione non condivisa dalle forze della sinistra. "Sarebbe grave sottovalutare il raid violento del Pigneto o derubricarlo ad un esempio di folklore fascista" dice Claudio Fava, coordinatore nazionale di Sinistra Democratica. "Quei pestaggi immotivati contro immigrati inermi raccontano di un clima da 'liberi tutti', che la stretta repressiva di questo governo sta provocando".

 

Il presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo dice "no alle strumentalizzazioni" e che nessuno si metta a fare come Charles Bronson nel film "Giustiziere della notte". C'è la magistratura e "provvederà a chiarire la vicenda". E dice no anche "al commissario straordinario all'immigrazione: ci sono rappresentanze elette democraticamente dai cittadini per questo". Guai, avverte Marrazzo, "non deve assolutamente farsi strada l'idea di potersi fare giustizia da soli altrimenti viene meno il principio di vivibilità e di condivisione dei valori democratici".

 

L'obiettivo della manifestazione, hanno spiegato gli organizzatori, è "salvaguardare i valori fondanti della democrazia, condannare con fermezza ogni azione di violenza e garantire per tutti i cittadini il rispetto delle regole". Il sindaco Alemanno, che per primo ha negato un movente di tipo politico dietro la spedizione punitiva, ha promesso che il Comune risarcirà i danni subiti dai commercianti extracomunitari. Una reazione che non è piaciuta a Forza Nuova. "E' un inizio senza mordente - scandisce Roberto Fiore, leader del movimento di estrema destra - che ci sembra non abbia colto gli umori della società. La gente si è spostata a destra, ha voglia di ordine, di sicurezza, di qualcuno che difenda con forza i valori cristiani e quelli dell'italianità, ma finora la politica non ha risposto a questo appello".

 

(26 maggio 2008)

  

da Il Manifesto

 

«Ma quale razzismo, volevano farsi giustizia»

Il day after del Pigneto, il quartiere «antifascista» che si scopre assediato «Alcuni immigrati non rispettano le regole. E lo Stato non fa nulla»

Sara Menafra

Roma

 

Ti viene il dubbio che il fascismo c'entri poco quando a prendere le difese degli aggressori del Pigneto ci si mette pure Dario Santilli, un passato da militante della sinistra con qualche accusa di terrorismo e oggi proprietario di un ristorante nel cuore del quartiere: «Farsi giustizia da soli è sbagliato, ed è giusto che chi s'è comportato così paghi, non lo metto in dubbio», ti spiega: «Però in questa zona ci sono negozi di immigrati che vendono alcol fino a tarda notte senza nessuna regola e piccole botteghe che coprono giri di droga e ricettazione. Sono anni che chiediamo l'intervento del municipio o delle forze dell'ordine. Non ci ascoltano e allora qualcuno ha pensato che i problemi potessero essere risolti come il Pigneto ha sempre fatto: all'interno, tanto lo Stato non funziona».

 

«Non siamo razzisti»

Sono le tre di un pomeriggio torrido e il quartiere romano incastrato tra Casilina e Prenestina si guarda attorno aspettando l'arrivo di quel corteo antirazzista in cui parecchi faticano a riconoscersi. Si sentono accusati ingiustamente, loro che, in più di un caso giurano di essere «di sinistra» e quasi sempre assicurano di avere ottimi rapporti con gli immigrati. Due anni fa, tutto il Pigneto è sceso in strada per dar manforte ai senegalesi di via Campobasso: insieme, contro un proprietario che voleva sfrattarli o aumentare l'affitto pagato «in nero». E adesso prendono le distanze, sì, ma non se la sentono di dare dei «fascisti» a quei venti giovani, capeggiati da un uomo più anziano, che sabato hanno assalito tre negozi gestiti da bengalesi urlando «andatevene» e prendendo a pretesto il furto di un portafogli avvenuto il giorno addietro. Mario, macellaio, s'affaccia dalle vetrine del suo negozietto scuotendo la testa: «E' vero, siamo tornati ai metodi di trent'anni fa. Ma una cosa gliel'assicuro, se nel mio negozio fossero capitate le cose che capitano in alcuni di quelli che hanno subito il raid, avrebbero sfondato pure le mie vetrine».

 

Una Soho all'amatriciana

I problemi, a sentir loro, sono cominciati due o tre anni fa, quando l'economia del Pigneto s'è messa improvvisamente a correre e il quartiere s'è trasformato in una specie di Soho all'amatriciana. Se negli anni '80 c'erano quasi solo immigrati appena arrivati, d'improvviso sono arrivati studenti universitari, quindi attori, attrici, registi, intellettuali. Andrea Callisti, titolare dell'agenzia immobiliare di zona, l'unico nel raggio di chilometri con un impeccabile gessato blu, è certo del fatto suo: «Nel 2007, questo è stato il quartiere col più alto numero di compravendite nell'intero paese. Mediamente le case costano 4.000 euro al metroquadro, quasi quanto nel centro storico». Non lievitano solo i prezzi delle case: giusto in cima alla strada, l'ex fabbrica Sirono sta per essere trasformata in un albergo d'alto livello. E due traverse più in là, il cinema l'Aquila, sequestrato alla banda della Magliana nei primi anni '80, vanta una ricercata architettura di vetro e cemento. «Rischiava di trasformarsi in un cinema intellettuale e il quartiere ha discusso per mesi, anche sui forum del sito internet (www.pigneto.it ndr), tra i giovani coatti che volevano un posto normale, che proiettasse anche "Vacanze di natale" e gli studenti e intellettuali che lo volevano di tendenza. I proprietari alla fine hanno un po' mediato, ma c'è anche questo: i ragazzi del quartiere, quelli che sono nati qui e magari sono disoccupati, si sentono espropriati da questi studenti che arrivano e magari vomitano all'angolo o suonano i tamburi fino a notte fonda», racconta Diana Martinese, proprietaria del negozietto di fotografie proprio di fronte al luogo dell'aggressione di sabato scorso.

 

«Tamburi da incubo»

Bonghi, piccolo spaccio, birre e bottiglie un po' ovunque, il quartiere che negli anni '70 nascondeva la «mala», all'alba dell'estate 2008 si sveglia spaventato perché gli studenti si mettono a cantare e ballare persino a notte fonda. O perché l'altra domenica c'è stata una rissa coi coltelli, persino nel parco dove giocano i bambini. E, sopra ogni cosa, si racconta invaso dall'alcol, venduto da immigrati ma consumato quasi esclusivamente da italianissimi giovanotti. «Solo negli ultimi sei mesi, il comune ha dato dieci licenze per la vendita di bevande alcoliche», l'amara statistica di Dario. Ma poi ci sono quelli che non ce l'hanno e vendono birra lo stesso, quello del "Tutto a un euro", i negozietti di telefonate internazionali, c'è persino chi tiene le birre nascoste dietro ad un muro finto. E' per questo, che lasciano da parte le convinzioni politiche quando si tratta di insultare Gianni Alemanno e la sua idea di precipitarsi qui domenica a farsi immortalare mentre stringeva la mano ad uno spacciatore del quartiere, detto «professore» perché s'è specializzato nel commercio di pasticche.

Il consigliere municipale Sandro Santilli, eletto con la Sinistra arcobaleno i suo concittadini dice di capirli bene: «La risposta da far west non è accettabile, ma quando i riflettori caleranno dovremo occuparci di tutelare meglio il territorio.Convocando ad un unico tavolo tutti i residenti».

 

   

ACLS (Advanced Cardiac Life Support)

Tahun 2020

  

TS Yang Terhormat,

Kami mengundang TS untuk mengikuti pelatihan ACLS Perki tahun 2020. Berikut kami informasikan jadwal pelatihan ACLS PERKI tahun 2020,yaitu :

 

Waktu*:

Periode 103 - 05 Januari 2020

Periode 210 - 12 Januari 2020

Periode 317 - 19 Januari 2020

Periode 424 - 26 Januari 2020

Periode 531 Jan - 02 Februari 2020

Periode 607 - 09 Februari 2020

Periode 714 -16 Februari 2020

Periode 821 - 23 Februari 2020

Periode 928 Feb - 01 Maret 2020

Periode 1006 - 08 Maret 2020

Periode 1113 - 15 Maret 2020

Periode 1220 - 22 Maret 2020

Periode 1327 - 29 Maret 2020

Periode 1403 - 05 April 2020

Periode 1510 - 12 April 2020

Periode 1617 - 19 April 2020

Periode 1724 - 26 April 2020

Periode 1801 - 03 Mei 2020

Periode 1908 - 10 Mei 2020

Periode 2015 - 17 Mei 2020

Periode 2122 - 24 Mei 2020

Periode 2229 - 31 Mei 2020

Periode 2305 - 07 Juni 2020

Periode 2412 - 14 Juni 2020

Periode 2519 - 21 Juni 2020

Periode 2626 - 28 Juni 2020

Periode 2703 - 05 Juli 2020

Periode 2810 - 12 Juli 2020

Periode 2917 - 19 Juli 2020

Periode 3024 - 26 Juli 2020

Periode 3107 - 09 Agustus 2020

Periode 3214 - 16 Agustus 2020

Periode 3321 - 23 Agustus 2020

Periode 3428 - 30 Agustus 2020

Periode 3504 - 06 September 2020

Periode 3611 - 13 September 2020

Periode 3718 - 20 September 2020

Periode 3825 - 27 September 2020

Periode 3902 - 04 Oktober 2020

Periode 4009 - 11 Oktober 2020

Periode 4116 - 18 Oktober 2020

Periode 4223 - 25 Oktober 2020

Periode 4330 Oktober – 01 November 2020

Periode 4406 – 08 November 2020

Periode 4513 – 15 November 2020

Periode 4620 – 22 November 2020

Periode 4727 – 29 November 2020

Periode 4804 – 06 Desember 2020

Periode 4911 – 13 Desember 2020

Periode 5018 – 20 Desember 2020

  

Tempat Pelatihan* :

 

PERKI HOUSE Jl. Danau Toba No.139 A-C, Bendungan Hilir, Jakarta Pusat

  

Biaya Pelatihan* :

 

Rp. 2.750.000 / Peserta

  

Fasilitas, yaitu :

 

● Pelatihan ACLS PERKI selama 3 hari (Hari Jumat sampai Minggu)

● Buku Panduan ACLS PERKI (2 Buah) versi bahasa Indonesia

● Sertifikat ACLS PERKI (Akreditasi 14 SKP)

● Masa Berlaku Sertifikat 3 tahun

● Konsumsi (1x Lunch + 2x Coffee Break)/hari.

  

Persyaratan

Yang harus dibawa saat hari H , yaitu :

 

1. Fotokopi ijazah 1 lembar

2. Foto berwarna ukuran 4x6 sebanyak 4 lembar

3. Bukti transfer biaya pelatihan

4. Soal Pre Test yang sudah dikerjakan (Soal Pre Test ada di dalam paket buku ACLS)

  

Pembayaran:

 

Pembayaran dapat dilakukan dengan Transfer via Teller Bank / ATM / Mobile Banking/ Internet Banking ke rekening

 

MANDIRI KCP Jakarta RS Harapan Kita

No Rek : 117-000654139-5

a/n. YAYASAN PERKI – D

 

(Sebelum maupun Setelah melakukan transfer pembayaran pelatihan, mohon melakukan konfirmasi pembayaran ke kami agar data dapat diproses)

  

Materi

 

Materi yang akan diberikan saat pelatihan meliputi sebagai berikut :

Filosofi BLS , ACLS + Film; BHD Dewasa , AED , RJP Anak dan Bayi , Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Praktek dan Ujian BHD Dewasa, AED, RJP Anak dan Bayi, Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Post Test BCLS; Pre Test ACLS; Defribilasi; Perawatan Pasca Henti Jantung; Tata Laksana Jalan Nafas; Skill Station : Teori / Praktek EKG, Teori / Praktek Defribilasi, Teori / Praktek Airway Management; Hipotensi , Shock dan Edema Paru Akut; Sindrom Koroner Akut; Farmakologi dan Therapi; Skill Station :Teori / Praktek VT / VF – PEA – Asistole, Teori / PraktekTakikardi, Teori / Praktek Bradikardi; Skill Station : Kasus Komprehensif (MEGACODE); Ujian Postest; Ujian Praktek RJP berkelompok sebanyak 6 kelompok.

  

Pendaftaran via SMS/LINE/Whatsapp 08788 96 99 789 / BBM 5441F2A2 Ketik:

 

ACLS # Tgl Pelatihan # Nama Lengkap # No.Handphone, Kirim ke 08788 96 99 789

 

Contoh : ACLS # 11 - 13 Januari 2020# Syifa Alia # 08788 96 99 789

  

Info dan Registrasi, dapat menghubungi

08788 96 99 789 (WA, SMS, TELP)

 

Email : seminarkedokteran02@gmail.com

Facebook :

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Instagram :

Blog :

Youtube :

Website : pelatihankedokteran.com/

  

Permintaan Kelas Kolektif di Jakarta maupun di luar Jakarta dapat menghubungi : (Telp/SMS/WA) 08788 96 99 789

 

Ket (*) : Jadwal & Biaya dapat berubah sewaktu-waktu ,untuk informasi lebih lanjut hubungi : 087889699789

  

Karena antusiasme tenaga kesehatan (dalam hal ini dokter) yang tinggi terhadap Kursus ACLS PERKI ini, maka kami secara rutin kami menyelenggarakannya. Untuk beberapa wilayah, kami rutin mengadakannya di setiap bulannya, bahkan ada wilayah yang kami selenggarakan setiap minggunya. Ada pula wilayah yang kami selenggarakan kursus ini setiap 2 bulan sekali. Ini semua tidak terlepas dari tingginya animo dan antusiasme para dokter dan tenaga medis lainnya yang membutuhkan kursus ini.

 

Berikut adalah draft rancangan jadwal pelaksanaan Kursus ACLS PERKI,

  

Tahun 2018

Januari 2018

Februari 2018

Maret 2018

April 2018

Mei 2018

Juni 2018

Juli 2018

Agustus 2018

September 2018

Oktober 2018

November 2018

Desember 2018

 

Tahun 2019

Januari 2019

Februari 2019

Maret 2019

April 2019

Mei 2019

Juni 2019

Juli 2019

Agustus 2019

September 2019

Oktober 2019

November 2019

Desember 2019

 

Tahun 2020

Januari 2020

Februari 2020

Maret 2020

April 2020

Mei 2020

Juni 2020

Juli 2020

Agustus 2020

September 2020

Oktober 2020

November 2020

Desember 2020

   

Tahun 2021

Januari 2021

Februari 2021

Maret 2021

April 2021

Mei 2021

Juni 2021

Juli 2021

Agustus 2021

September 2021

Oktober 2021

November 2021

Desember 2021

  

Tahun 2022

Januari 2022

Februari 2022

Maret 2022

April 2022

Mei 2022

Juni 2022

Juli 2022

Agustus 2022

September 2022

Oktober 2022

November 2022

Desember 2022

  

Tahun 2023

Januari 2023

Februari 2023

Maret 2023

April 2023

Mei 2023

Juni 2023

Juli 2023

Agustus 2023

September 2023

Oktober 2023

November 2023

Desember 2023

   

Untuk Informasi lebih lanjut mengenai Jadwal dan Ketersediaan tempat yang available, silahkan langsung menghubungi 0878-8969-9789 (WA/TELP/SMS).

  

Kursus ACLS PERKI ini sudah pernah dilaksanakan di hampir semua propinsi, yaitu diadakan di ibukota propinsi. Selain di ibukota propinsi, Kursus ACLS PERKI ini juga dilaksanakan di kota besar lainnya, dan juga di kotamadya/kabupaten lainnya. Hal ini tergantung dari permintaan para dokter, tenaga medis lainnya, atau bisa juga permintaan Rumah Sakit, Klinik, Puskesmas, Dinas Kesehatan, dan juga Instansi dari TNI/POLRI.

 

Oleh Karena permintaan para dokter dan instansi yang terkait, maka Kami pun menyelenggarakan Kursus ACLS inhouse training (kolektif). Untuk ACLS inhouse training (kolektif), kami mengadakannya di daerah/di lokasi yang lebih mudah dijangkau oleh para peserta.

 

Berikut adalah daerah-daerah yang pernah diadakan Kursus ACLS PERKI ini. Diantaranya adalah

  

Aceh,Medan,Padang,Riau,Pekanbaru,Jambi,Palembang,Bengkulu,Lampung,BangkaBelitung,Pangkal Pinang,TanjungPinang,Jakarta,Bekasi,Bogor,Depok,Tangerang,Tangerang Selatan,Cilegon,Yogyakarta,Bandung,Semarang,Cilacap,Purwokerto,Purbalingga,Banjarnegara,Kebumen,Purworejo,Wonosobo,Mungkid,Boyolali,Klaten,Sukoharjo,Wonogiri,Karanganyar,Sragen,Purwodadi,Blora,Rembang,Pati,Kudus,Solo,Yogyakarta,Surabaya,Madiun,Malang,Magelang,Tegal,Cilacap,Banten,Serang,Bali,Denpasar,Nusa Tenggara Timur,Kupang,Nusa Tenggara Barat,Mataram,Pontianak,Palangka Raya,Banjarmasin,Samarinda,Tanjung Selor,Manado,Palu,Makassar,Kendari,Mamuju,Gorontalo,Maluku,Maluku Utara,Sofifi,Papua,Jayapura,Papua Barat,Manokwari,Pandeglang, Lebak, Cilegon, Tangerang Selatan,Bandung, Bekasi, Cikarang, Bogor, Cibinong, Ciamis, Cianjur, Cirebon, Garut, Indramayu, Karawang, Kuningan, Majalengka, Pangandaran, Purwakarta, Subang, Sukabumi, Sumedang, Tasikmalaya, Banjar, Cimahi, Cirebon, Depok,Banjarnegara, Banyumas, Purwokerto, Batang, Blora, Boyolali, Brebes, Cilacap, Demak, Grobogan, Purwodadi, Jepara, Karanganyar, Kebumen, Kendal, Klaten, Kudus, Magelang, Pati, Pekalongan, Pemalang, Purbalingga, Purworejo, Rembang, Semarang, Sragen, Sukoharjo, Tegal, Temanggung, Wonogiri, Wonosobo, Salatiga, Surakarta,Bantul, Kulon Progo, Wates, Sleman, Yogyakarta,Bangkalan, Banyuwangi, Blitar, Bojonegoro, Bondowoso, Gresik, Jember, Jombang, Kediri, Lamongan, Lumajang, Madiun, Magetan, Malang, Mojokerto, Nganjuk, Ngawi, Pacitan, Pamekasan, Pasuruan, Ponorogo, Probolinggo, Sampang, Sidoarjo, Situbondo, Sumenep, Trenggalek, Tuban, Tulungagung Kota Batu, Blitar, Surabaya

  

Untuk Informasi lebih lanjut, silahkan langsung menghubungi 0878-8969-9789 (WA/TELP/SMS).

Kami akan selalu siap membantu.

  

Dailymotion

   

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KURSUS ACLS 2018

(Advanced Cardiac Life Support)

 

TS Yang Terhormat,

Kami mengundang TS untuk mengikuti pelatihan ACLS Perki tahun 2018. Berikut kami informasikan jadwal pelatihan ACLS PERKI tahun 2018,yaitu :

 

Waktu*:

Periode 1 05-07 Januari 2018

Periode 2 12- 14 Januari 2018

Periode 3 19-21 Januari 2018

Periode 4 26-28 Januari 2018

Periode 5 02-04 Februari 2018

Periode 6 09-11 Februari 2018

Periode 7 16-18 Februari 2018

Periode 8 23-25 Februari 2018

Periode 9 02-04 Maret 2018

Periode 10 09-11 Maret 2018

Periode 11 23-25 Maret 2018

Periode 12 24 - 26 Maret 201

Periode 13 31 - 02 Mar – April 2018

Periode 14 07 - 09 April 2018

Periode 15 21 - 23 April 2018

Periode 16 28 - 30 April 2018

Periode 17 05 - 07 Mei 2018

Periode 18 12 - 14 Mei 2018

Periode 19 19 - 21 Mei 2018

Periode 20 07 - 09 Juli 2018

Periode 21 14 - 16 Juli 2018

Periode 22 21 - 23 Juli 2018

Periode 23 28 - 30 Juli 2018

Periode 24 04 - 06 Agustus 2018

Periode 25 11 - 13 Agustus 2018

Periode 26 18 - 20 Agustus 2018

Periode 27 25 - 27 Agustus 2018

Periode 28 08 - 10 September 2018

Periode 29 15 - 17 September 2018

Periode 30 22 - 24 September 2018

Periode 31 29 - 01 Sep – Okt 2018

Periode 32 06 - 08 Oktober 2018

Periode 33 13 - 15 Oktober 2018

Periode 34 20 - 22 Oktober 2018

Periode 35 27 - 29 Oktober 2018

Periode 36 03 - 05 November 2018

Periode 37 10 - 12 November 2018

Periode 38 17 - 19 November 2018

Periode 39 24 - 26 November 2018

Periode 40 08 - 10 Desember 2018

Periode 41 15 - 17 Desember 2018

Periode 42 22 - 23 Desember 2018

  

Tempat Pelatihan* :

 

PERKI HOUSE Jl. Danau Toba No.139 A-C, Bendungan Hilir, Jakarta Pusat

  

Biaya Pelatihan* :

 

Rp. 2.750.000 / Peserta

  

Fasilitas, yaitu :

 

● Pelatihan ACLS PERKI selama 3 hari (Hari Jumat sampai Minggu)

● Buku Panduan ACLS PERKI (2 Buah) versi bahasa Indonesia (Edisi Terbaru)

● Sertifikat ACLS PERKI (Akreditasi 14 SKP)

● Masa Berlaku Sertifikat 3 tahun

● Konsumsi (1x Lunch + 2x Coffee Break)/hari.

  

Persyaratan

Yang harus dibawa saat hari H , yaitu :

 

1. Fotokopi ijazah 1 lembar

2. Foto berwarna ukuran 4x6 sebanyak 4 lembar

3. Bukti transfer biaya pelatihan

4. Soal Pre Test yang sudah dikerjakan (Soal Pre Test ada di dalam paket buku ACLS)

  

Pembayaran:

 

Pembayaran dapat dilakukan dengan Transfer via Teller Bank / ATM / Mobile Banking/ Internet Banking ke rekening

 

MANDIRI KCP Jakarta RS Harapan Kita

No Rek : 117-000654139-5

a/n. YAYASAN PERKI – D

 

(Sebelum maupun Setelah melakukan transfer pembayaran pelatihan, mohon melakukan konfirmasi pembayaran ke kami agar data dapat diproses)

  

Materi

 

Materi yang akan diberikan saat pelatihan meliputi sebagai berikut :

Filosofi BLS , ACLS + Film; BHD Dewasa , AED , RJP Anak dan Bayi , Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Praktek dan Ujian BHD Dewasa, AED, RJP Anak dan Bayi, Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Post Test BCLS; Pre Test ACLS; Defribilasi; Perawatan Pasca Henti Jantung; Tata Laksana Jalan Nafas; Skill Station : Teori / Praktek EKG, Teori / Praktek Defribilasi, Teori / Praktek Airway Management; Hipotensi , Shock dan Edema Paru Akut; Sindrom Koroner Akut; Farmakologi dan Therapi; Skill Station :Teori / Praktek VT / VF – PEA – Asistole, Teori / PraktekTakikardi, Teori / Praktek Bradikardi; Skill Station : Kasus Komprehensif (MEGACODE); Ujian Postest; Ujian Praktek RJP berkelompok sebanyak 6 kelompok.

  

Pendaftaran via SMS/TELP/LINE/Whatsapps 08788 96 99 789 Ketik:

 

ACLS # Tgl Pelatihan # Nama Lengkap # No.Handphone, Kirim ke 08788 96 99 789

 

Contoh : ACLS # 6-8 Januari 2017 # Syifa Alia # 08788 96 99 789

 

Info dan Registrasi, dapat menghubungi

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Website : pelatihankedokteran.com/

  

Permintaan Kelas Kolektif di Jakarta maupun di luar Jakarta dapat menghubungi : (Telp/SMS/WA) 08788 96 99 789

 

Ket (*) : Jadwal & Biaya dapat berubah sewaktu-waktu ,untuk informasi lebih lanjut hubungi : 087889699789

  

Karena antusiasme tenaga kesehatan (dalam hal ini dokter) yang tinggi terhadap Kursus ACLS PERKI ini, maka kami secara rutin kami menyelenggarakannya. Untuk beberapa wilayah, kami rutin mengadakannya di setiap bulannya, bahkan ada wilayah yang kami selenggarakan setiap minggunya. Ada pula wilayah yang kami selenggarakan kursus ini setiap 2 bulan sekali. Ini semua tidak terlepas dari tingginya animo dan antusiasme para dokter dan tenaga medis lainnya yang membutuhkan kursus ini.

 

Berikut adalah draft rancangan jadwal pelaksanaan Kursus ACLS PERKI,

  

Tahun 2018

Januari 2018

Februari 2018

Maret 2018

April 2018

Mei 2018

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Juli 2018

Agustus 2018

September 2018

Oktober 2018

November 2018

Desember 2018

 

Tahun 2019

Januari 2019

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Mei 2019

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November 2019

Desember 2019

 

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Desember 2020

   

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Januari 2021

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Tahun 2022

Januari 2022

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September 2022

Oktober 2022

November 2022

Desember 2022

  

Tahun 2023

Januari 2023

Februari 2023

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Desember 2023

   

Untuk Informasi lebih lanjut mengenai Jadwal dan Ketersediaan tempat yang available, silahkan langsung menghubungi 0878-8969-9789 (WA/TELP/SMS).

  

Kursus ACLS PERKI ini sudah pernah dilaksanakan di hampir semua propinsi, yaitu diadakan di ibukota propinsi. Selain di ibukota propinsi, Kursus ACLS PERKI ini juga dilaksanakan di kota besar lainnya, dan juga di kotamadya/kabupaten lainnya. Hal ini tergantung dari permintaan para dokter, tenaga medis lainnya, atau bisa juga permintaan Rumah Sakit, Klinik, Puskesmas, Dinas Kesehatan, dan juga Instansi dari TNI/POLRI.

 

Oleh Karena permintaan para dokter dan instansi yang terkait, maka Kami pun menyelenggarakan Kursus ACLS inhouse training (kolektif). Untuk ACLS inhouse training (kolektif), kami mengadakannya di daerah/di lokasi yang lebih mudah dijangkau oleh para peserta.

 

Berikut adalah daerah-daerah yang pernah diadakan Kursus ACLS PERKI ini. Diantaranya adalah

  

Aceh,Medan,Padang,Riau,Pekanbaru,Jambi,Palembang,Bengkulu,Lampung,BangkaBelitung,Pangkal Pinang,TanjungPinang,Jakarta,Bekasi,Bogor,Depok,Tangerang,Tangerang Selatan,Cilegon,Yogyakarta,Bandung,Semarang,Cilacap,Purwokerto,Purbalingga,Banjarnegara,Kebumen,Purworejo,Wonosobo,Mungkid,Boyolali,Klaten,Sukoharjo,Wonogiri,Karanganyar,Sragen,Purwodadi,Blora,Rembang,Pati,Kudus,Solo,Yogyakarta,Surabaya,Madiun,Malang,Magelang,Tegal,Cilacap,Banten,Serang,Bali,Denpasar, Nusa Tenggara Timur, Kupang, Nusa Tenggara Barat, Mataram, Pontianak, Palangka Raya,Banjarmasin,Samarinda,Tanjung Selor,Manado,Palu,Makassar,Kendari,Mamuju,Gorontalo,Maluku,Maluku Utara,Sofifi,Papua,Jayapura,Papua Barat,Manokwari,Pandeglang, Lebak, Cilegon, Tangerang Selatan,Bandung, Bekasi, Cikarang, Bogor, Cibinong, Ciamis, Cianjur, Cirebon, Garut, Indramayu, Karawang, Kuningan, Majalengka, Pangandaran, Purwakarta, Subang, Sukabumi, Sumedang, Tasikmalaya, Banjar, Cimahi, Cirebon, Depok,Banjarnegara, Banyumas, Purwokerto, Batang, Blora, Boyolali, Brebes, Cilacap, Demak, Grobogan, Purwodadi, Jepara, Karanganyar, Kebumen, Kendal, Klaten, Kudus, Magelang, Pati, Pekalongan, Pemalang, Purbalingga, Purworejo, Rembang, Semarang, Sragen, Sukoharjo, Tegal, Temanggung, Wonogiri, Wonosobo, Salatiga, Surakarta,Bantul, Kulon Progo, Wates, Sleman, Yogyakarta,Bangkalan, Banyuwangi, Blitar, Bojonegoro, Bondowoso, Gresik, Jember, Jombang, Kediri, Lamongan, Lumajang, Madiun, Magetan, Malang, Mojokerto, Nganjuk, Ngawi, Pacitan, Pamekasan, Pasuruan, Ponorogo, Probolinggo, Sampang, Sidoarjo, Situbondo, Sumenep, Trenggalek, Tuban, Tulungagung Kota Batu, Blitar, Surabaya

    

Untuk Informasi lebih lanjut, silahkan langsung menghubungi 0878-8969-9789 (WA/TELP/SMS).

Kami akan selalu siap membantu.

  

Pengalaman Kursus ACLS PERKI Arsip - KURSUS ACLS | KURSUS ...

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087889699789 Pengalaman Kursus ACLS PERKI 2018

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Pengalaman Ikut Pelatihan ACLS | Ikhsan Kurniawan

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Aug 3, 2015 - Nah kali ini saya pengen bagi pengalaman waktu ikut pelatihan ACLS. Pelatihan ini bertempat di PERKI House Jakarta, setau saya ini ...

Ayuni Rianty: Pengalaman ikut Kursus ACLS (Advanced Cardiac Life ...

www.ayunirianty.com/.../pengalaman-ikut-kursus-acls-advan....

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Jan 30, 2017 - Tiga minggu sebelum kursus ACLS dilaksanakan saya di PERKI Surabaya (Perhimpunan Spesialis Kardiovaskular indonesia) saya sudah ...

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08170825883 Pengalaman Kursus EKG Perki 2017 - Forum Liputan6

forum.liputan6.com › Jual Beli › Jasa

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Oct 13, 2017 - 08170825883 Pengalaman Kursus EKG Perki 2017 ... Berikut kami informasikan jadwal kursus ACLS PERKI tahun 2017, yaitu : Pelatihan .

08170825883 Pengalaman Kursus EKG Perki 2020

13 Oct 2017

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13 Sep 2017

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Pengalaman Kursus ACLS PERKi 2019

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Oct 10, 2017 - 087889699789 Pengalaman Kursus ACLS PERKI 2019. ACLS (Advanced Cardiac Life Support) 2019. TS Yang Terhormat, Kami mengundang ...

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KURSUS ACLS 2018

(Advanced Cardiac Life Support)

  

TS Yang Terhormat,

Kami mengundang TS untuk mengikuti pelatihan ACLS Perki tahun 2018. Berikut kami informasikan jadwal pelatihan ACLS PERKI tahun 2018,yaitu :

 

Waktu*:

Periode 1 05-07 Januari 2018

Periode 2 12- 14 Januari 2018

Periode 3 19-21 Januari 2018

Periode 4 26-28 Januari 2018

Periode 5 02-04 Februari 2018

Periode 6 09-11 Februari 2018

Periode 7 16-18 Februari 2018

Periode 8 23-25 Februari 2018

Periode 9 02-04 Maret 2018

Periode 10 09-11 Maret 2018

Periode 11 23-25 Maret 2018

Periode 12 24 - 26 Maret 201

Periode 13 31 - 02 Mar – April 2018

Periode 14 07 - 09 April 2018

Periode 15 21 - 23 April 2018

Periode 16 28 - 30 April 2018

Periode 17 05 - 07 Mei 2018

Periode 18 12 - 14 Mei 2018

Periode 19 19 - 21 Mei 2018

Periode 20 07 - 09 Juli 2018

Periode 21 14 - 16 Juli 2018

Periode 22 21 - 23 Juli 2018

Periode 23 28 - 30 Juli 2018

Periode 24 04 - 06 Agustus 2018

Periode 25 11 - 13 Agustus 2018

Periode 26 18 - 20 Agustus 2018

Periode 27 25 - 27 Agustus 2018

Periode 28 08 - 10 September 2018

Periode 29 15 - 17 September 2018

Periode 30 22 - 24 September 2018

Periode 31 29 - 01 Sep – Okt 2018

Periode 32 06 - 08 Oktober 2018

Periode 33 13 - 15 Oktober 2018

Periode 34 20 - 22 Oktober 2018

Periode 35 27 - 29 Oktober 2018

Periode 36 03 - 05 November 2018

Periode 37 10 - 12 November 2018

Periode 38 17 - 19 November 2018

Periode 39 24 - 26 November 2018

Periode 40 08 - 10 Desember 2018

Periode 41 15 - 17 Desember 2018

Periode 42 22 - 23 Desember 2018

  

Tempat Pelatihan* :

 

PERKI HOUSE Jl. Danau Toba No.139 A-C, Bendungan Hilir, Jakarta Pusat

  

Biaya Pelatihan* :

 

Rp. 2.750.000 / Peserta

  

Fasilitas, yaitu :

 

● Pelatihan ACLS PERKI selama 3 hari (Hari Jumat sampai Minggu)

● Buku Panduan ACLS PERKI (2 Buah) versi bahasa Indonesia (Edisi Terbaru)

● Sertifikat ACLS PERKI (Akreditasi 14 SKP)

● Masa Berlaku Sertifikat 3 tahun

● Konsumsi (1x Lunch + 2x Coffee Break)/hari.

  

Persyaratan

Yang harus dibawa saat hari H , yaitu :

 

1. Fotokopi ijazah 1 lembar

2. Foto berwarna ukuran 4x6 sebanyak 4 lembar

3. Bukti transfer biaya pelatihan

4. Soal Pre Test yang sudah dikerjakan (Soal Pre Test ada di dalam paket buku ACLS)

  

Pembayaran:

 

Pembayaran dapat dilakukan dengan Transfer via Teller Bank / ATM / Mobile Banking/ Internet Banking ke rekening

 

MANDIRI KCP Jakarta RS Harapan Kita

No Rek : 117-000654139-5

a/n. YAYASAN PERKI – D

 

(Sebelum maupun Setelah melakukan transfer pembayaran pelatihan, mohon melakukan konfirmasi pembayaran ke kami agar data dapat diproses)

  

Materi

 

Materi yang akan diberikan saat pelatihan meliputi sebagai berikut :

Filosofi BLS , ACLS + Film; BHD Dewasa , AED , RJP Anak dan Bayi , Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Praktek dan Ujian BHD Dewasa, AED, RJP Anak dan Bayi, Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Post Test BCLS; Pre Test ACLS; Defribilasi; Perawatan Pasca Henti Jantung; Tata Laksana Jalan Nafas; Skill Station : Teori / Praktek EKG, Teori / Praktek Defribilasi, Teori / Praktek Airway Management; Hipotensi , Shock dan Edema Paru Akut; Sindrom Koroner Akut; Farmakologi dan Therapi; Skill Station :Teori / Praktek VT / VF – PEA – Asistole, Teori / PraktekTakikardi, Teori / Praktek Bradikardi; Skill Station : Kasus Komprehensif (MEGACODE); Ujian Postest; Ujian Praktek RJP berkelompok sebanyak 6 kelompok.

  

Pendaftaran via SMS/TELP/LINE/Whatsapps 08788 96 99 789 Ketik:

 

ACLS # Tgl Pelatihan # Nama Lengkap # No.Handphone, Kirim ke 08788 96 99 789

 

Contoh : ACLS # 6-8 Januari 2017 # Syifa Alia # 08788 96 99 789

  

Info dan Registrasi, dapat menghubungi

08788 96 99 789 (WA, SMS, TELP)

 

Email : seminarkedokteran02@gmail.com

  

Permintaan Kelas Kolektif di Jakarta maupun di luar Jakarta dapat menghubungi : (Telp/SMS/WA) 08788 96 99 789

 

Ket (*) : Jadwal & Biaya dapat berubah sewaktu-waktu ,untuk informasi lebih lanjut hubungi : 087889699789

  

Karena antusiasme tenaga kesehatan (dalam hal ini dokter) yang tinggi terhadap Kursus ACLS PERKI ini, maka kami secara rutin kami menyelenggarakannya. Untuk beberapa wilayah, kami rutin mengadakannya di setiap bulannya, bahkan ada wilayah yang kami selenggarakan setiap minggunya. Ada pula wilayah yang kami selenggarakan kursus ini setiap 2 bulan sekali. Ini semua tidak terlepas dari tingginya animo dan antusiasme para dokter dan tenaga medis lainnya yang membutuhkan kursus ini.

 

Berikut adalah draft rancangan jadwal pelaksanaan Kursus ACLS PERKI,

  

Tahun 2018

Januari 2018

Februari 2018

Maret 2018

April 2018

Mei 2018

Juni 2018

Juli 2018

Agustus 2018

September 2018

Oktober 2018

November 2018

Desember 2018

 

Tahun 2019

Januari 2019

Februari 2019

Maret 2019

April 2019

Mei 2019

Juni 2019

Juli 2019

Agustus 2019

September 2019

Oktober 2019

November 2019

Desember 2019

 

Tahun 2020

Januari 2020

Februari 2020

Maret 2020

April 2020

Mei 2020

Juni 2020

Juli 2020

Agustus 2020

September 2020

Oktober 2020

November 2020

Desember 2020

   

Tahun 2021

Januari 2021

Februari 2021

Maret 2021

April 2021

Mei 2021

Juni 2021

Juli 2021

Agustus 2021

September 2021

Oktober 2021

November 2021

Desember 2021

  

Tahun 2022

Januari 2022

Februari 2022

Maret 2022

April 2022

Mei 2022

Juni 2022

Juli 2022

Agustus 2022

September 2022

Oktober 2022

November 2022

Desember 2022

  

Tahun 2023

Januari 2023

Februari 2023

Maret 2023

April 2023

Mei 2023

Juni 2023

Juli 2023

Agustus 2023

September 2023

Oktober 2023

November 2023

Desember 2023

   

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Kursus ACLS PERKI ini sudah pernah dilaksanakan di hampir semua propinsi, yaitu diadakan di ibukota propinsi. Selain di ibukota propinsi, Kursus ACLS PERKI ini juga dilaksanakan di kota besar lainnya, dan juga di kotamadya/kabupaten lainnya. Hal ini tergantung dari permintaan para dokter, tenaga medis lainnya, atau bisa juga permintaan Rumah Sakit, Klinik, Puskesmas, Dinas Kesehatan, dan juga Instansi dari TNI/POLRI.

 

Oleh Karena permintaan para dokter dan instansi yang terkait, maka Kami pun menyelenggarakan Kursus ACLS inhouse training (kolektif). Untuk ACLS inhouse training (kolektif), kami mengadakannya di daerah/di lokasi yang lebih mudah dijangkau oleh para peserta.

 

Berikut adalah daerah-daerah yang pernah diadakan Kursus ACLS PERKI ini. Diantaranya adalah

  

Aceh,Medan,Padang,Riau,Pekanbaru,Jambi,Palembang,Bengkulu,Lampung,BangkaBelitung,Pangkal Pinang,TanjungPinang,Jakarta,Bekasi,Bogor,Depok,Tangerang,Tangerang Selatan,Cilegon,Yogyakarta,Bandung,Semarang,Cilacap,Purwokerto,Purbalingga,Banjarnegara,Kebumen,Purworejo,Wonosobo,Mungkid,Boyolali,Klaten,Sukoharjo,Wonogiri,Karanganyar,Sragen,Purwodadi,Blora,Rembang,Pati,Kudus,Solo,Yogyakarta,Surabaya,Madiun,Malang,Magelang,Tegal,Cilacap,Banten,Serang,Bali,Denpasar, Nusa Tenggara Timur, Kupang, Nusa Tenggara Barat, Mataram, Pontianak, Palangka Raya,Banjarmasin,Samarinda,Tanjung Selor,Manado,Palu,Makassar,Kendari,Mamuju,Gorontalo,Maluku,Maluku Utara,Sofifi,Papua,Jayapura,Papua Barat,Manokwari,Pandeglang, Lebak, Cilegon, Tangerang Selatan,Bandung, Bekasi, Cikarang, Bogor, Cibinong, Ciamis, Cianjur, Cirebon, Garut, Indramayu, Karawang, Kuningan, Majalengka, Pangandaran, Purwakarta, Subang, Sukabumi, Sumedang, Tasikmalaya, Banjar, Cimahi, Cirebon, Depok,Banjarnegara, Banyumas, Purwokerto, Batang, Blora, Boyolali, Brebes, Cilacap, Demak, Grobogan, Purwodadi, Jepara, Karanganyar, Kebumen, Kendal, Klaten, Kudus, Magelang, Pati, Pekalongan, Pemalang, Purbalingga, Purworejo, Rembang, Semarang, Sragen, Sukoharjo, Tegal, Temanggung, Wonogiri, Wonosobo, Salatiga, Surakarta,Bantul, Kulon Progo, Wates, Sleman, Yogyakarta,Bangkalan, Banyuwangi, Blitar, Bojonegoro, Bondowoso, Gresik, Jember, Jombang, Kediri, Lamongan, Lumajang, Madiun, Magetan, Malang, Mojokerto, Nganjuk, Ngawi, Pacitan, Pamekasan, Pasuruan, Ponorogo, Probolinggo, Sampang, Sidoarjo, Situbondo, Sumenep, Trenggalek, Tuban, Tulungagung Kota Batu, Blitar, Surabaya

    

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A20 | Sadroc 17/06/2015 12h23

Driving on the A20 and passing a 1964/1973 Fors Mustang is not very usual in France. It gave us a bit of driving on the Route 66 instead of the autoroute A vingt.

 

Ford Mustang

The Ford Mustang is an American automobile manufactured by Ford. It was originally based on the platform of the second generation North American Ford Falcon, a compact car. The original Ford Mustang I four-seater concept car had evolved into the 1963 Mustang II two-seater prototype, which Ford used to pretest how the public would take interest in the first production Mustang which was released as the 1964 1/2, with a slight variation on the frontend and a top that was 2.7 inches shorter than the 1963 Mustang II. Introduced early on April 17, 1964, and thus dubbed as a "1964½" model by Mustang fans, the 1965 Mustang was the automaker's most successful launch since the Model A. The Mustang has undergone several transformations to its current sixth generation.

The Mustang created the "pony car" class of American automobiles—sports-car like coupes with long hoods and short rear decks —and gave rise to competitors such as the Chevrolet Camaro, Pontiac Firebird, AMC Javelin, Chrysler's revamped Plymouth Barracuda and the first generation Dodge Challenger. The Mustang is also credited for inspiring the designs of coupés such as the Toyota Celica and Ford Capri, which were imported to the United States.

 

FACT AND FIGURES

Production years Mustang I: 1964 - 1973

Numbers of vehicles produced: 2 977 651

Type: Coupé, cabriolet, fastback

Length: 4 610 mm

Width: 1 730 mm

Height: 2 700 mm

[ Source + more Info: Wikipedia - Ford Mustang ]

I was minding my own business at this small toy store in South Pasadena looking for a gift for a friend. When I got into my car, my purse opened up and look who I found!

Oggi non lavoro, oggi non mi vesto

resto nudo e manifesto

Sono fuori dal coro, nettamente diverso

le mode se ne vanno, io resto! e manifesto!

contro! ogni occasione persa

i calci di rigore sulla traversa

Resto nudo e manifesto - Faccio un gesto e manifesto - Oggi guardo il cielo..e manifesto

Penso a meno stress e più farfalle, meno chiacchiere alle spalle

Non ho più silenzio, non ho più un pretesto

gli eroi non se ne vanno, io resto! e manifesto!

contro! ogni occasione persa

i calci di rigore sulla traversa

contro! paranoie e tempeste

rimanere fuori, fuori dalle feste

Resto nudo e manifesto - Faccio un gesto e manifesto - Oggi guardo il cielo e manifesto

Resto nudo e manifesto - Faccio un gesto e manifesto - Oggi guardo il cielo e manifesto

Resto nudo e manifesto - Faccio un gesto e manifesto - Oggi guardo il cielo...e manifesto

 

Manifesto - Bandabardò

S. Maria de' Cerchi

 

Quest' oratorio è addossato ai ruderi del Circo Massimo, oggi via de' Cerchi, sotto il Palatino. Ivi si trovava una miracolosa imagine di monaca santissima, la quale fu oltraggiata da alcuni ebrei che ivi giocavano, e percossa, dicono, ne sgorgasse vivo sangue; così narra il Crescimbeni. Da pochi anni, col pretesto della passeggiata archeologica, quell' oratorio fu dolorosamente dissacrato e ridotto ad officina di mascalcia. Alcuni divoti nel secolo XVII eressero questa cappellina, che fu poi giuspatronato dei Cenci. In essa si leggevano le seguenti iscrizioni: SEDENTE CLEMENTE PAPA XIV — IOSEPH MARIA CONTESINI ARCHIEPS — ATHENARVM HOC PVBLICVM SACELLVM S. MARIAE VVLGO DE CERCHI NVNCVPATVM — RITV SOLEMNI BENEDIXIT — DIE II MENSIS IANVARII A. MDCCLXXIV.

 

PIVS PP. VI — ALTARE PRIVILEGIATVM CONCESSIT — DIE VII DECEMBRIS MDCCLXXXI — PONTIFICATVS SVI ANNO VII.

 

Nel 1880 alcuni giovani si raccolsero in pia congregazione con lo scopo di onorare quella imagine, ed ottennero dal proprietario della cappella, il marchese Sampieri, il permesso di ufficiarla: quella congregazione fu chiamata Della madonna de' Cerchi e Gesù Nazareno. La divota imagine della Vergine, che vi si venerava, staccata e trasferita nella chiesina di s. Maria in Vincis all' arco de' Saponari, fu donata alla detta congregazione dal sullocato marchese. A sinistra dell' altare v' era una statua di Gesù caduto sotto il peso della Croce.

Da Le chiese di Roma di Mariano Armellini 1891;

Raccolta Internet de Le Chiese di Bill Thayer;

Raccolta Foto de Alvariis;

Acquerello di Achille Pinelli.

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