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Ma come vorrei avere i tuoi occhi, spalancati sul mondo come carte assorbenti
e le tue risate pulite e piene, quasi senza rimorsi o pentimenti,
ma come vorrei avere da guardare ancora tutto come i libri da sfogliare
e avere ancora tutto, o quasi tutto, da provare...
........anche se non avrai le mie risse terrose di campi, cortile e di strade
e non saprai che sapore ha il sapore dell' uva rubato a un filare,
presto ti accorgerai com'è facile farsi un' inutile software di scienza
e vedrai che confuso problema è adoprare la propria esperienza...
cosa vuoi che ti dica? Solo che costa sempre fatica
.....e che il vivere è sempre quello, ma è storia antica,
dammi ancora la mano, anche se quello stringerla è solo un pretesto
per sentire quella tua fiducia totale che nessuno mi ha dato o mi ha mai chiesto;
vola, vola tu, dov' io vorrei volare verso un mondo dove è ancora tutto da fare
e dove è ancora tutto, o quasi tutto...
vola, vola tu, dov' io vorrei volare verso un mondo dove è ancora tutto da fare
e dove è ancora tutto, o quasi tutto, da sbagliare... ...................F. Guccini www.youtube.com/watch?v=rKhXMAGNiO8 ♫♫
31 agosto 2010
I fuochi d'artificio di Cesa, paese della Val di Chiana, sono ormai un "must" per tutti quelli che abitano nei dintorni, famosi per la loro spettacolarità e durata (quasi mezz'ora!), in effetti era la prima volta che li vedevo e giuro che di così belli non ne avevo mai visti.
Guardandoli attraverso l'obiettivo della fotocamera, in tutta sincerità, non posso dire di essermeli goduti come le altre persone presenti, però riguardando le foto non potete immaginare la felicità che ho provato vedendo che almeno una era venuta bene, dato che fotografarli è stato veramente difficile per me: era un continuo cambiare tempi e diaframma, il fuoco non sapevo esattamente dove posizionarlo, senza contare che nel primo momento i fuochi sono molto luminosi, poi sbiadiscono lentamente. Insomma è stata davvero una faticaccia, che però mi ha reso entusiasta regalandomi questa bella fotografia.
I fuochi d'artificio sono stati inventati nell'antica Cina. La più recente documentazione risale addirittura al settimo secolo, dove venivano usati per spaventare e disperdere gli spiriti maligni con il loro potente suono, pregando così per la felicità e la prosperità future.
Presto l'arte e la scienza dei fuochi d'artificio si svilupparono diventando pian piano una professione a tutti gli effetti, i “maestri artificieri” erano molto rispettati per la loro sapienza e abilità in quest'arte che mescola suoni potenti con luci abbaglianti, così fino al quattordicesimo secolo vennero utilizzati solo ed esclusivamente per cerimonie regali ed eventi mondani di eccellenza; solo dopo l'era delle dinastie nasce il fuoco d'artificio inteso come celebrazione di feste, inizio di un nuovo anno o semplice pretesto per fare un po' di baccano, più alla portata di tutti.
E' grandioso pensare che abbiano così tanti anni, e che, ancora oggi, ci meraviglino sempre come la prima volta che li abbiamo visti, come se ad un tratto tornassimo bambini, in quegli anni che a tutti mancano, quando ogni cosa intorno a noi destava la nostra fantasia e ogni passo che facevamo era sempre una nuova scoperta.
Gianluca Rosadini
La foto è un pretesto. Per chiedere a voi, amici e contatti di flickr, un piccolo aiuto.
Alcuni colleghi stanno facendo una ricerca sui social network. Se avete tempo e voglia di aiutarli, questo è il link al questionario (in inglese):
www.surveymonkey.com/s/Academic_Research_2
Alcuni di voi avevano già partecipato, ma questa è la nuova versione del questionario.
E' veloce e indolore :-)
Grazie a tutti coloro che contribuiranno!
Umbria- Bacco Minore (da Wine Passion - febbraio 2009)
Fino a qualche anno fa l’Umbria aveva il sapore di un grappolo d’uva appena colto dalla pianta. I suoi vini svelavano il mistero delle profondità della terra e la presenza discreta della mano tradizionale dell’uomo. La vite cresceva alla rinfusa, abbracciata all’acero o alla bianchella, in promiscuità con il grano e con le altre coltivazioni foraggere. Ma erano piuttosto gli ulivi a caratterizzare il paesaggio agrario della regione. Ancora sul finire degli anni Settanta quella umbra poteva definirsi un’enologia arcaica, quasi ancestrale; tanto è vero che Mario Soldati, nel suo <> (1968 – 1975) la salta a piedi pari. Eppure già tra le due guerre, e fino all’inizio del boom economico, in Italia la parola “Orvieto” racchiudeva in sé la definizione inequivocabile di “vino bianco”. Poteva capitare in quegli anni, che l’oste chiedesse ai suoi clienti: <>. Sulle qualità organolettiche di quel vino di allora non saprei aggiungere altro, perché ne ho un vago ricordo che si perde nel tempo, fatto di calori appassionati, contrasti olfattivi, visioni adolescenziali, fiaschi impagliati e primi sorsi furtivi di libertà. So solo che al palato avvertivo le sue sfumature amarognole, alcune volte amabili e in certe bottiglie dei sentori dolci, ma sempre fini e delicati. Nemmeno sul suo colore si poteva scommettere: a volte giallo paglierino quasi intenso, altre più trasparente, ma mai torbido. Ci sarebbe da chiedersi perché quella denominazione, tra le più rappresentative del Paese, abbia perso la sua fama. Forse tutto è dipeso dal fatto che già negli anni Cinquanta nelle osterie italiane ne girava di più di quanto le ridenti colline dell’orvietano potessero produrne. La cosa dovrebbe farci riflettere. Ma il vino, si sa, non è soltanto quello che - talvolta con fastidiosa gestualità - volteggia all’interno del bicchiere. Il vino è soprattutto tante storie che vi ruotano intorno, è benessere e prosperità del distretto che lo produce, quadratura di bilanci locali, movimento di turisti e risorsa occupazionale.
Sfoglio alcuni libri ormai rarissimi: “I vini d’Italia” di Luigi Veronelli (1961); “Il libro d’oro dei vini d’Italia” di Cyril Ray (1966); “Vini rossi” e “Vini bianchi e rosati” di Stefano e Alberto Zaccone (1971); “Saper bere - dal Barbera al Whisky”, di Luigi Marinatto e Francesco Zingales (1974); l’”Atlante dei vini d’Italia” (1978), di Burton Anderson. I testi sacri mi confermano che nella storia dei territori consacrati all’enologia, le tre DOC allora riconosciute (Orvieto, Torgiano e Colli del Trasimeno) non meritavano che una fugace menzione. Per assistere al decollo dell’enologia umbra, per lunghi anni connessa a una situazione di abbandono, bisognerà attendere gli anni Ottanta, contrassegnati nella prima metà dalla figura pionieristica di Giorgio Lungarotti e nella seconda dall’exploit del Sagrantino. E’ questa una regione che, per uno scherzo della sorte, si connota d’incomparabili armonie e sfuggenti identità, secondo i fenomeni che più o meno consapevolmente l’attraversano. Il Sagrantino è uno di questi fenomeni, che oggi rappresenta l’Umbria, e la definisce, più di quanto non faccia l’Orvieto. Non è facile stabilire se questo risveglio sia solo merito dei Caprai, o anche dei produttori che hanno seguito il suo esempio. La disputa è aperta. Sta di fatto che Arnaldo, imprenditore tessile prestato all’enologia, ha creduto e investito nella ricerca e nella promozione, dando la prima coraggiosa spallata al mercato, puntando sul figlio Marco, vero elemento trainante per tutta la denominazione e, lasciatemelo dire, per l’economia legata al territorio. In verità non fu solo Caprai a comprendere le potenzialità di questo vino. Per Montefalco fu quello un periodo di grande complicità imprenditoriale, che spinse Arnaldo Caprai a unirsi alle altre aziende storiche: Antonini Angeli Mongalli, Domenico Benincasa, Ruozzi Berretta, Consorzio Agrario di Foligno, Bruno Metelli, Rio Pardi, Antonelli, Adelio Tardioli, Domenico Adanti; tutti produttori che giocarono la scommessa di trasformare in “secco” quello che la tradizione voleva fosse trasformato in “passito”. La caparbietà di questi produttori superò le resistenze di chi non aveva compreso le potenzialità dell’imponete corredo polifenolico di quest’uva a bacca rossa. Fu così che Montefalco, con il suo vitigno autoctono, lanciò la sfida al Barolo, all’Amarone e al Brunello, guadagnandosi un posto di assoluto rilievo nella storia del comparto enologico nazionale. Il Sagrantino è passato dai 100 ettari coltivati nel 2000 ai 600 di oggi e conta su 45 produttori facenti capo ad un consorzio di tutela. Ma soprattutto è entrato con prepotenza nelle grazie di quei consumatori che ricercano nel vino gli elementi misterici capaci di evocare storie e suscitare suggestioni. Oggi, contendendosi gli ultimi fazzoletti di terreno rimasti all’interno dei Comuni di Montefalco, di Giano, di Gualdo Cattaneo e di Bevagna è giunto il Gotha dell’enologia italiana, rappresentato dalla Sai Agricola, dai Lunelli, dai Livon, dai Cecchi e dagli stessi Lungarotti.
Il cuore pulsante di questa straordinaria denominazione si concentra lungo la direttiva che sale da Bevagna a Montefalco. E’ quello di Arquata, Fonte Fulgeri, Campo Letame e Colle Allodole, lo scenario francescano affrescato nel 1451 da Benozzo Gozzoli nella predica agli uccelli, che si può ammirare nella chiesa museo di San Francesco a Montefalco. All’interno di questa conca incontaminata prosperano le vigne delle aziende Adanti, Milziade Antano e Ciro Trabalza. Sul versante che volge a est, si affaccia Collepiano, con il suo secolare querceto circondato dai vigneti di Caprai. Risalendo verso Montepennino, si distendono a tappeto i nuovi impianti di Tiburzi, Goretti e Lunelli, produttori che hanno abbracciato la filosofia di questo lembo di territorio, dove il prezzo della terra, fino a un paio di anni fa, aveva raggiunto cifre esagerate. Proprio all’inizio di questa strada, in agro bevanate, incontro Ciro Trabalza, collega in codici e pandette, custode infallibile delle tradizioni rurali e venatorie della sua terra. La sua azienda di Arquata (ereditata da quel Ciro Trabalza, etnologo di fama mondiale) confina con quella degli Adanti. I tratti vagamente gattopardeschi, uniti al puntiglioso studio delle tecniche agronomiche - non meno di quanto il Principe di Salina studiava il moto perenne degli astri – fanno di Ciro uno di quei vignaioli che sarebbero piaciuti a Mario Soldati. Dalla sua cantina, a conduzione familiare, escono poche bottiglie, da cui Ciro si distacca con dispiacere. Più in là trovo Alvaro Palini, cantiniere, enologo e sarto dai trascorsi parigini, la cui esistenza è legata a quella della famiglia Adanti. Fu Angelo Valentini, enologo dei Lungarotti, che agli inizi degli anni Ottanta presentò Burt Anderson ad Alvaro, con il pretesto di fargli assaggiare il miglior Grechetto della zona. Burton in quegli anni era un critico di vini così importante come oggi lo sono diventati Hugh Johnson e Robert Parker, la cui influenza fu tale da incidere sul mercato vinicolo mondiale. Altro che Grechetto! Anderson fu colpito dal Sagrantino e dal Rosso d'Arquata. Fu così che tra Alvaro e Burton nacque una grande amicizia, suggellata dalla continua presenza di Anderson a Bevagna, Montefalco e al tavolo loro riservato nel ristorante degli amici Sandra e Angelo Scolastra. Oggi Burton ha lasciato lo scettro ad altri colleghi e ad altra filosofia. Sta costruendo il suo “buen retiro” in Maremma e di tanto in tanto viene a trovare Alvaro per assaggiare i suoi vini. Credo di non allontanarmi dalla verità nell’affermare l’influenza che ha avuto Burton Anderson sulla fama acquisita dal Sagrantino, che ebbe modo di far conoscere al mondo, prima che cominciassero a muoversi i soloni del nostro giornalismo enologico. Il resto l’ha fatto Caprai in anni più recenti, mandando a tilt la sua carta Alitalia delle Millemiglia per far conoscere il Sagrantino dalla Germania agli Stati Uniti, dal Giappone alla Cina. Oggi le cose stanno cambiando. Liù Pambuffetti, figlia di Amilcare e futura reginetta di Scacciadiavoli, studia all’Università di Enologia di Bordeaux. Non so quanti illustri rampolli di famiglie legate storicamente al vino facciano altrettanto. Giampiero Bea si fa ritrarre insieme a J. Nossiter, enologo di New York e regista di “Mondovino”, proponendo la sua faccia ai milioni di persone che hanno visto e vedranno i contenuti extra del film che denuncia la globalizzazione dell’industria vinicola. Il messaggio di Bea è lampante e si avvicina alla filosofia neoliberista di Nossiter: il vino è il frutto di un sapere che si trasmette tra padri e figli e la sua cura non va affidata alle decisioni dei soliti consulenti. Ma sono molte le aziende tradizionali che si sforzano di uscire dall’isolamento. Come quella di Luciano Cesarini, ingegnere ed ex capatazze dell’Enel che produce il “Rosso Bastardo” o quella di Filippo Antonelli, erede della nota azienda di San Marco o dello stesso Sindaco di Montefalco, Valentini Valentino (Bocale), che presiede l’Associazione Nazionale delle “Città del Vino” a dimostrazione della notorietà raggiunta nel panorama enologico nazionale dal Comune che egli amministra. Ma le sorprese più incoraggianti vengono da Tabarrini (Colle Grimaldsco) e da Antano (Colle Allodole), piccoli ma preparati imprenditori del settore, in sintonia con il mercato, ma senza far torto alla tradizione. Li ho visti aggirarsi per i padiglioni di Vinataly con padronanza e sicurezza del loro ruolo, corteggiatissimi dalla stampa e dai wine expert a caccia di novità enologiche.
Ad Amelia la fa da padrone il Cigliegiolo. La cantina dei Colli Amerini, con i suoi 700 ettari di vigneti di proprietà dei soci, produce anche La Torretta (Malvasia), il Vignolo (Grechetto), L’Olmeto (Merlot) e vini di grande struttura e longevità come il Carbio (un riuscito uvaggio di Merlot, Sangiovese, Ciliegiolo e Montepulciano) e il Torraccio (un I.G.T. monovitigno di Sangiovese Prugnolo). Sulla strada di Castelluccio Amerino incontriamo il Castello delle Regine, dove si produce un Sangiovese in purezza (Podernovo, Umbria I.G.T.).
L’Umbria è il vostro bicchiere, il cui contenuto liquido va manovrato con cura e attenzione. Solo così i contrasti apparenti e le piccole spigolosità dei suoi vini potranno farsi nel vostro palato note armoniche e lievi. Ma perché riveli il suo sapore eterno bisogna dedicarle tempo e attenzioni. Solo così potrete riconoscere nei suoi vini il vero e proprio ricostituente dell’anima che andavate cercando.
Giovanni Picuti
abcabc@cline.it
The Ford Mustang is an American automobile manufactured by Ford. It was originally based on the platform of the second generation North American Ford Falcon, a compact car.[1] The original Ford Mustang I four-seater concept car had evolved into the 1963 Mustang II two-seater prototype, which Ford used to pretest how the public would take interest in the first production Mustang which was released as the 1964 1/2, with a slight variation on the frontend and a top that was 2.7 inches shorter than the 1963 Mustang II.[2] Introduced early on April 17, 1964,[3] and thus dubbed as a "1964½" model by Mustang fans, the 1965 Mustang was the automaker's most successful launch since the Model A.[4] The Mustang has undergone several transformations to its current sixth generation.
The Mustang created the "pony car" class of American automobiles—sports-car like coupes with long hoods and short rear decks[5]—and gave rise to competitors such as the Chevrolet Camaro,[6] Pontiac Firebird, AMC Javelin,[7] Chrysler's revamped Plymouth Barracuda and the first generation Dodge Challenger.[8] The Mustang is also credited for inspiring the designs of coupés such as the Toyota Celica and Ford Capri, which were imported to the United States.
Also my sig rig
Rimbaud è ancora rilevante ora che stiamo vivendo una stagione infernale in una civiltà che si sta muovendo verso un nuovo ordine mondiale: questo comunitarismo è già la base di centinaia di nuove regole e regolamenti globali che eliminano i diritti individuali perché questo la politica ritiene che i diritti e le libertà individuali costituiscano una reale minaccia alla sicurezza della comunità - la propaganda messianica usata ci ricorda i giorni bui del nazismo o del comunismo. La storia non ci ha insegnato nulla: possiamo vedere le commemorazioni dell'Olocausto quasi quotidianamente mentre oggi c'è una proliferazione di armi chimiche (tecnologia delle camere a gas) ed energetiche su scala individuale. : è la tortura contemporanea per coloro che sono sospettati di non pensare correttamente. La tecnologia “Safe City” monitora tutti dal momento in cui lasciano la porta fino al momento in cui tornano, ed entrano nella tua casa per posizionare microfoni e micro telecamere con il pretesto che sei in contatto con una persona "sospetto" di terrorismo. Secondo Hannah Arendt, la preparazione al totalitarismo è riuscita quando le persone hanno perso il contatto con i loro simili e con la realtà che li circonda: pensaci!
Jan Theuninck nel libro “Rimbaud et moi”, pubblicato da Editions du Pont de l'Europe (settembre 2020) ISBN 978-2-36851-520-4
Lo psicologo tedesco lo spiega chiaramente, le misure della corona sono metodi di tortura che vengono utilizzati anche in Cina e Corea del Nord
www.youtube.com/watch?v=WdUNkPERLbg
twitter.com/i/status/1387893178267848706
Prof MD Karl Hecht (armes énergétiques)
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Dr Russell Blaylock (armes chimiques - english/français)
Il XV sec. fu caratterizzato da scontri e contese tra i vari comuni che per controversie di confini e pascoli o per l'influenza di altri borghi sfociavano in vere e proprie guerre.
Queste rivolte erano anche alimentate da antichi odii.
Nel giugno 1477, ci fu una guerra tra Osimo e Ancona per il possesso del castello di Offagna, preteso da entrambe le città per il controllo dei territori.
La contesa nasce quando il papa Eugenio V, per gratificare il grande coraggio degli osimani, che sconfissero e cacciarono lo Sforza, il quale tentò di impossessarsi di alcuni territori della Marca, cioè territori di confine, confermò ad Osimo il possesso del castello di Offagna.
Nonostante ciò Ancona lo occupò ugualmente.
Osimo, per sconfiggere Ancona, decise di allearsi con Recanati e pagò un condottiero, Giovanni di Caipano, che organizzò gli uomini.
L'avversario si ritirò, dopo una lunga resistenza.
In realtà Osimo aveva incaricato il condottiero di distruggere l'intero abitato, ma ciò fortunatamente non avvenne.
Compromessa la pace tra Ancona ed Osimo, il Papa incaricò il cardinale Capranica di trovare una soluzione.
Il cardinale fece sottoscrivere tra Osimo e Ancona un documento nel quale si diceva che Offagna passava sotto il diretto dominio del Pontefice.
Dopo alcuni anni Ancona, con il pretesto di nuovi pericoli per il ritorno degli Sforza, ottenne il possesso di Offagna e Castelfidardo.
Sotto il papa Niccolò V, successore di Eugenio VI, il possesso di Offagna passò definitivamente ad Ancona che, non fidandosi del documento, mandò dei militari ad occupare Offagna.
Le tensioni tra Ancona ed Osimo continuarono per molto tempo, entrambi aspettavano il pretesto per esplodere.
Il confine d'Oriente del comune di Offagna era territorio osimano.
Il padre di Buccolino da Guzzone era proprietario del colle di Montegallo.
Un giorno Marco Schiavo, fattore di Boccolino, si accorse che alcuni maiali di proprietà di Giovanni Malacari stavano mangiando delle ghiande.
I maiali vennero presi e portati ad Osimo e sarebbero stati restituiti al proprietario dopo che questi avesse pagato il danno.
Gli offagnesi si vendicarono sequestrando 95 maiali il cui proprietario era Pietro di Giuliano ed il fattore venne ucciso, al suo uccisore fu dato il bando a vita e gli vennero confiscati di tutti i suoi beni.
Osimo ricorse all'aiuto del Papa Paolo II, che diede l'ordine di indagare sul caso e di fare un processo.
Ancona si fece dare i rinforzi da parte di Camerino e Ascoli.
Osimo, a sua volta, aveva organizzato 800 uomini che pose sotto il comando di Boccolino.
Gli Anconetani vennero colti di sorpresa, nel sonno.
Lo scontro avvenne nei pressi di S. Stefano: gli anconetani ebbero la peggio.
Il Papa Sisto V, venuto a conoscenza dello scontro, inviò una lettera ad entrambi i comuni minacciandoli di scomunicarli e la penalità di 10.000 ducati se non avessero deposto subito le armi.
Sotto il portone di casa di trovò Elena ad aspettarlo.
Era stretta nel lungo giubbotto nero con le mani schiacciate dentro le tasche per respingere il freddo.
Ivan si avvicinò e la guardò, aveva una lieve sbavatura della matita nera intorno agli occhi che lasciava pensare ad un pianto recente.
Per un momento pensò di ignorarla, non voleva dipendere così dall’umore di lei, non voleva più compromessi con altre persone.
Infilò la chiave nella toppa del portone, poi sospirò e abbassò la testa.
Senza guardarla disse: - è molto che aspetti?–
-Ci ho fatto l’abitudine ormai con te.–
-In un certo senso anch’io.–
Salì il primo gradino poi si affacciò di nuovo fuori e la guardò arreso: -Smettila di stare lì al freddo, vieni dai.–
Ivan le porse una birra e andò a sedersi accanto a lei sul divano, entrambi fissarono il vuoto al di là del televisore spento.
Presero brevi sorsate controvoglia e rimasero ancora in silenzio per alcuni minuti.
Non sapeva ancora se era giusto volere qualcosa da lei, se era giusto pretendere considerazione o spiegazioni per i lunghi periodi d’assenza.
Pensò che in fondo, tra loro, non c’era molto più che una sottospecie di amicizia, ma lei era così particolare e familiare che non riusciva a non considerarla parte di quei suoi giorni.
Ma in definitiva non aveva alcun diritto di essere in collera con lei, forse neppure sarebbe riuscito in quel periodo a portare avanti qualcosa di appena più impegnativo.
Lei continuava ad abbracciare il silenzio, non si era tolta neppure il giubbotto ancora.
Lui cominciò a raccontarle di quello che era accaduto nel pomeriggio, cercando di rendere il racconto più grottesco possibile, mimando le espressioni e solleticandola.
Lei finalmente si mise a ridere insieme a lui e si appoggiò alla sua spalla come quel giorno in macchina.
-Che cosa ti è successo.–
-Niente.–
-Davvero non ti va di raccontarmelo?–
Lei mentì –non ti riguarda.–
-Come vuoi.– la tranquillizzò Ivan, stringendola contro il suo petto.
Andò ad alzare un po’ il riscaldamento.
In effetti si gelava.
Le tolse con gesto inaspettatamente paterno il giaccone nero e lo ripose su una sedia.
Sotto aveva un pesante maglione verde militare, un paio di Jeans neri e i soliti anfibi.
Parlarono molto di come si fossero arenate le ricerche riguardanti la morte di suo fratello e poi parlarono di alcune piccole idee che avevano per i loro rispettivi futuri, di alcuni libri letti.
Ma era tutto un lunghissimo preliminare per far tardare ancora ciò che era ovvio.
Solo per rendere l’attesa ancora più elettrizzante, parlarsi uno sulla bocca dell’altro solo per avere un pretesto di avvicinarsi ancora.
Elena trascinata da quello scorrere di parole cominciò senza che nessuno dei due se ne accorgesse a baciare il collo di Ivan, gli tolse la maglietta e affondò le labbra sulla sua pelle bianca leccandogli il petto e sbottonando i pantaloni.
Era la prima volta che Ivan si trovava a tremare alle carezze di una ragazza.
Elena glielo prese in mano e cominciò a far scendere lentamente la pelle con delicatezza baciandolo piano e spingendo senza prepotenza la lingua dentro le labbra di lui a intrecciarsi con la sua.
Ivan tremava e sentiva le gambe informicolite, i brividi correvano appena sotto la pelle, tanto che bastò ancora qualche carezza e venne senza riuscire a controllarsi sulla mano di lei.
Di colpo si sentì disarmato e ridicolo, con quella eiaculazione lampo frapposta tra il desiderio ancora acceso di lei e il suo essere improvvisamente privo di qualsiasi malizia e irrimediabilmente innamorato.
Non tentò neppure di giustificarsi tanto si sentiva vulnerabile.
Lei continuò a muoversi nello stesso modo come se niente fosse successo, come se avesse dalla sua una comprensione che annienta qualsiasi barriera.
Per un momento Ivan rimase in balia delle sue attenzioni senza sapere cosa fare.
Poi capì che stava gettando attimi preziosi in stupide congetture.
Praticamente non aveva ancora sentito l’odore della sua pelle, praticamente non aveva ancora assaggiato il sapore di quel corpo che era lì come un dono fiammeggiante di desiderio.
Mentre sentiva la sua bocca aggirarsi dietro l’orecchio, mentre sentiva il fiato caldo del suo respiro, mentre capiva di essere l’uomo più stupido dell’universo a restare ancora immobile al suo cospetto, appoggiò la bocca sulla sua spalla e la morse tenendo la presa in bilico tra un leggero dolore e un piacere improvviso.
Elena liberò un lamento di piacevole stupore quasi impercettibile e Ivan la sollevò sulle sue ginocchia tenendole una mano premuta contro le cosce caldissime muovendola in modo che le dita le stuzzicassero un piacere crescente e prese lui adesso a baciarla con passione, senza più preoccuparsi per quel buio e ridicolo momento di debolezza, Tornò il desiderio a investirlo con la forza di un treno, e senza capire i passaggi intermedi si trovarono avvinghiati uno dentro l’altra sul lago delle lenzuola fino ad esplodere ancora, questa volta insieme e crollare, ancora stretti, in un sonno rigenerante.
Alessandro Pagni
(leggere dei "nostri" anni, con tristezza e un accenno di sorriso)
"In VECCHIE CARTE DA GIOCO Rosellina Balbi affronta la questione di cosa significhi essere di sinistra. E soprattutto quella che definisce "la tragedia dell'eguaglianza". Conclude l'articolo così, sotto il mio evidenziatore giallo ben calcato:"Personalmente, sono ancora e sempre del parere che la distinzione da fare sia quella tra l'eguaglianza e il diritto all'eguaglianza: la prima non esiste, (per fortuna):ciascuno di noi deve fare la sua corsa e arrivare dove potrà,saprà,vorrà. Altra cosa è la parità delle condizioni di partenza: è questo che la sinistra deve ottenere, così come deve continuare a battersi perché la innegabile diversità tra gli uomini non diventi pretesto per la discriminazione e il sopruso dei forti nei confronti dei deboli". ( pag.147, citando Rosellina Balbi, in LA REPUBBLICA, 29-11-1984)
Quando Stefano Roí compí i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di mare e padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo.
«Quando sarò grande» disse «voglio andar per mare come te. E comanderò delle navi ancora pi'u' belle e grandi della tua. »
« Che Dio ti benedica, figliolo » rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il suo bastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé.
Era una giornata splendida di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai stato sulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre delle vele. E chiedeva di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli davano tutte le spiegazioni.
Come fu giunto a poppa, il ragazzo si fermò, incuriosito, a osservare una cosa che spuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due-trecento metri, in corrispondenza della scia della nave. Benché il bastimento già volasse, portato da un magnifico vento al giardinetto, quella cosa manteneva sempre la distanza. E, sebbene egli non ne comprendesse la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente.
Il padre, non vedendo Stefano piú in giro, dopo averlo chiamato a gran voce invano, scese dalla plancia e andò a cercarlo.
« Stefano, che cosa fai lí impalato? » gli chiese scorgendolo infine a poppa, in piedi, che fissava le onde.
« Papà, vieni qui a vedere. »
Il padre venne e guardò anche lui, nella direzione indicata dal ragazzo, ma non riuscí a vedere niente.
« C'è una cosa scura che spunta ogni tanto dalla scia » disse « e che ci viene dietro. »
« Nonostante i miei quarant'anni » disse il padre « credo di avere ancora una vista buona. Ma non vedo assolutamente niente. »
Poiché il figlio insisteva, andò a prendere il cannocchiale e scrutò la superficie del mare, in corrispondenza della scia. Stefano lo vide impallidire.
« Cos'è? Perché fai quella faccia? »
« Oh, non ti avessi ascoltato » esclamò il capitano. « Io adesso temo per te. Quella cosa che tu vedi spuntare dalle acque e che ci segue, non è una cosa. Quello è un colombre. E’ il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. E’ uno squalo tremendo e misterioso, piú astuto dell'uomo. Per motivi che forse nessuno saprà mai, sceglie la sua vittima, e quando l'ha scelta la insegue per anni e anni, per una intera vita, finché è riuscito a divorarla. E lo strano è questo: che nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le persone del suo stesso sangue. »« Non è una
favola? »
«No. Io non l'avevo mai visto. Ma dalle descrizioni che ho sentito fare tante volte, l'ho subito riconosciuto. Quel muso da bisonte, quella bocca che continuamente si apre e chiude, quei denti terribili. Stefano, non c'è dubbio, purtroppo, il colombre ha scelto te e finché tu andrai per mare non ti darà pace. Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra, tu sbarcherai e non ti staccherai mai piú dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Me lo devi promettere. Il mestiere del mare non è per te, figliolo. Devi rassegnarti. Del resto, anche a terra potrai fare fortuna.» Ciò detto, fece immediatamente invertire la rotta, rientrò in porto e, coi pretesto di un improvviso malessere, sbarcò il figliolo. Quindi ripartí senza di lui.
Profondamente turbato, il ragazzo restò sulla riva finché l'ultimo picco dell'alberatura sprofondò dietro l'orizzonte. Di là dal molo che chiudeva il porto, il mare restò completamente deserto. Ma, aguzzando gli sguardi, Stefano riuscí a scorgere un puntino nero che affiorava a intermittenza dalle acque: il "suo" colombre, che incrociava lentamente su e giú, ostinato ad aspettarlo.
Da allora il ragazzo con ogni espediente fu distolto dal desiderio del mare. Il padre lo mandò a studiare in una città dell'interno, lontana centinaia di chilometri. E per qualche tempo, distratto dal nuovo ambiente, Stefano non pensò piú al mostro marino. Tuttavia, per le vacanze estive, tornò a casa e per prima cosa. appena ebbe un minuto libero, si affrettò a raggiungere l'estremità del molo, per una specie di controllo, benché in fondo lo ritenesse superfluo. Dopo tanto tempo, il colombre, ammesso anche che tutta la storia narratagli dal padre fosse vera, aveva certo rinunciato all'assedio.
Ma Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di due-trecento metri dal molo, nell'aperto mare, il sinistro pesce andava su e giú, lentamente, ogni tanto sollevando il muso dall'acqua e volgendolo a terra, quasi con ansia guardasse se Stefano Roi finalmente veniva.
Cosí, l'idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte divenne per Stefano una segreta ossessione. E anche nella lontana città gli capitava di svegliarsi in piena notte con inquietudine. Egli era al sicuro, sí, centinaia di chilometri lo separavano dal colombre. Eppure egli sapeva che, di là dalle montagne, di là dai boschi, di là dalle pianure, lo squalo era ad aspettarlo. E, si fosse egli trasferito pure nel piú remoto continente, ancora il colombre si sarebbe appostato nello specchio di mare piú vicino, con l'inesorabile ostinazione che hanno gli strumenti del fato. Stefano, ch'era un ragazzo serio e volonteroso, continuò con profitto gli studi e, appena fu uomo, trovò un impiego dignitoso e rimunerativo in un emporio di quella città. Intanto il padre venne a morire per malattia, il suo magnifico veliero fu dalla vedova venduto e il figlio si trovò ad essere erede di una discreta fortuna. Il lavoro, le amicizie, gli svaghi, i primi amori: Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante il pensiero del colombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando i giorni, anziché svanire, sembrava farsi piú insistente. Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora piú grande è l'attrazione dell'abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano, quando, salutati gli amici della città e licenziatosi dall'impiego, tornò alla città natale e comunicò alla mamma la ferma intenzione di seguire il mestiere paterno. La donna, a cui Stefano non
aveva mai fatto parola del misterioso squalo, accolse con gioia la sua decisione. L'avere il figlio abbandonato il mare per la città le era sempre sembrato, in cuor suo, un tradimento alle tradizioni di famiglia.
E Stefano cominciò a navigare, dando prova di qualità marinare, di resistenza alle fatiche, di animo intrepido. Navigava, navigava, e sulla scia del suo bastimento, di giorno e di notte, con la bonaccia e con la tempesta, arrancava il colombre. Egli sapeva che quella era la sua maledizione e la sua condanna, ma proprio per questo, forse, non trovava la forza di staccarsene. E nessuno a bordo scorgeva il mostro, tranne lui.
« Non vedete niente da quella parte? » chiedeva di quando in quando ai compagni, indicando la scia. « No, noi non vediamo proprio niente. Perché? » « Non so. Mi pareva... » « Non avrai mica visto per caso un colombre » facevano quelli, ridendo e toccando ferro. « Perché ridete? Perché toccate ferro? » « Perché il colombre è una bestia che non perdona. E se si mettesse a seguire questa nave, vorrebbe dire che uno di noi è perduto. »
Ma Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzi moltiplicare la sua volontà, la sua passione per il mare, il suo ardimento nelle ore di lotta e di pericolo.
Con la piccola sostanza lasciatagli dal padre, come egli si sentí padrone del mestiere, acquistò con un socio un piccolo piroscafo da carico, quindi ne divenne il solo proprietario e, grazie a una serie di fortunate spedizioni, poté in seguito acquistare un mercantile sul serio, avviandosi a traguardi sempre piú ambiziosi. Ma i successi, e i milioni, non servivano a togliergli dall'animo quel continuo assillo; né mai, d'altra parte, egli fu tentato di vendere la nave e di ritirarsi a terra per intraprendere diverse imprese. Navigare, navigare, era il suo unico pensiero. Non appena, dopo lunghi tragitti, metteva piede a terra in qualche porto, subito lo pungeva l'impazienza di ripartire. Sapeva che fuori c'era il colombre ad aspettarlo, e che il colombre era sinonimo di rovina. Niente. Un indomabile impulso lo traeva senza requie, da un oceano all'altro. Finché, all'improvviso, Stefano un giorno si accorse di essere diventato vecchio, vecchissimo; e nessuno intorno a lui sapeva spiegarsi perché, ricco com’era, non lasciasse finalmente la dannata vita del mare. Vecchio, e amaramente infelice, perché l’intera esistenza sua era stata spesa in quella specie di pazzesca fuga attraverso i mari, per sfuggire al nemico. Ma piú grande che le gioie di una vita agiata e tranquilla era stata per lui sempre la tentazione dell'abisso. E una sera, mentre la sua magnifica nave era ancorata al largo dei porto dove era nato, si sentì prossimo a morire. Allora chiamò il secondo ufficiale, di cui aveva grande
fiducia, e gli ingiunse di non opporsi a ciò che egli stava per fare. L'altro, sull'onore, promise.
Avuta questa assicurazione, Stefano, al secondo ufficiale che lo ascoltava sgomento, rivelò la storia del colombre, che aveva continuato a inseguirlo per quasi cinquant'anni, inutilmente. « Mi ha scortato da un capo all'altro del mondo » disse « con una fedeltà che neppure il piú nobile amico avrebbe potuto dimostrare. Adesso io sto per morire. Anche lui, ormai, sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso tradirlo. »
Ciò detto, prese commiato, fece calare in mare un barchino e vi sali, dopo essersi fatto dare un arpione. « Ora gli vado incontro » annunciò. « E’ giusto che non lo deluda. Ma lotterò, con le mie ultime forze. » A stanchi colpi di remi, si allontanò da bordo. Ufficiali e marinai lo videro scomparire laggiú, sul placido mare, avvolto dalle ombre della notte. C'era in cielo una falce di luna. Non dovette faticare molto. All'im'provviso il muso orribile del colombre emerse di fianco alla barca. « Eccomi a te, finalmente » disse Stefano. « Adesso, a noi due! » E, raccogliendo le superstiti energie, alzò l'arpione per colpire. « Uh » mugolò con voce supplichevole il colombre « che lunga strada per trovarti. Anch'io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi, fuggivi. E non hai mai capito niente. » « Perché? » fece Stefano, punto sul vivo. « Perché non ti ho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevo avuto soltanto l'incarico di consegnarti questo. » E lo squalo trasse fuori la lingua, porgendo al vecchio capitano una piccola sfera fosforescente. Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E lui riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore, e pace dell'animo. Ma era ormai troppo tardi. « Ahimè! » disse scuotendo tristemente il capo. «Come è tutto sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la tua.»
« Addio, pover'uomo » rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per sempre. Due mesi dopo, spinto dalla risacca, un barchino approdò a una dirupata scogliera. Fu avvistato da alcuni pescatori che, incuriositi, si avvicinarono. Sul barchino, ancora seduto, stava un bianco scheletro: e fra le ossicine delle dita stringeva un piccolo sasso rotondo. Il colombre è un pesce di grandi dimensioni, spaventoso a vedersi, estremamente raro.
A seconda dei mari, e delle genti che ne abitano le rive, viene anche chiamato kolomber, kahloubrha, kalonga, kalu-balu, chalung-gra. I naturalisti stranamente lo ignorano. Qualcuno perfino sostiene che non esiste.
("Il colombre" di Dino Buzzati)
9 JULY 14
In my quest to discover a new salmon dish, I happened to be watching one of my favorite daily vlogger's who made Salmon en croute for dinner. I thought it looked delicious, sounded delicious, and so I set about trying to make it. I haven't had a kitchen disaster in so long, that I think it really sort of floored me that everything all went wrong at once, but maybe I'm blowing it all out of proportion in retrospect.
The dish itself isn't particularly complicated. I wish I could have found the true traditional version of this dish, but all the recipes I found seemed corrupted somehow, so I went with what sounded delicious to me. Into the pan went a bit of EVOO, finely diced red onion, and baby spinach. I cooked the spinach down until it was wilted tossing in some minced garlic, salt, and freshly cracked pepper and a squeeze of lemon juice. Into a bowl went some cream cheese and when the spinach mix had cooled, I mixed them together. It tasted delicious...just like a spinach artichoke dip but without the artichoke. Next I pat dried my four fillets, salt and peppered both sides. I used store bought puff pastry which I unfurled and rolled out fairly thin. Then, as above, cream mix, salmon on top, another tiny squeeze of lemon, egg wash on the inside, wrapped it up, flipped them over, scored them, or in the case of the ones on right, attempted to make a little decoration with the excess and then egg wash on the top.
Yes, it was going well so far. As a side dish, I decided to make some "baked" pommes frites, but geezus, did these not work out. I should have par boiled them or something because they were wonderfully soft on the inside but crackly as hell on the outside and some were soggy, it just wasn't a good look. After 30 minutes I went to check on the salmon and it looked beautiful. It really did. I should have scored the packet in the back a bit deeper, but that's just decoration right. I got the sense though from touching the bottoms that the puff pastry wasn't done, so back into the oven for another 15 minutes. I tested one of the flower designed ones and it was horribly soggy on the inside and it had burst a bit pooling the inner juices on the tray so I feared the worst for the rest of them. One of my guests, cut into the first of the scored ones, and said, it was delicious, absolutely delicious and HOT! with heat. But by this time, for me, everything in my mind was going wrong. The frites were a weird and rubbery potato, but with a nice flavor, and the soggy salmon I had put me in an off mood. I thought my guests were just humoring me telling me the fish was good, and I HATE that. I prefer people to be honest with me, but sitting at the dinner table, thanks be, their packets were fine, cooked well, beautiful as I had intended, but mine was a pile of dough so I had to pick around the thing while they enjoyed what took almost an hour and a half for me to make. I don't know why I'm so hard on myself. My guests were happy, I could see their packets were nice and flaky but I felt really embarrassed that the potatoes were weird and that I was digging for fish on my plate. I just take a lot of pride in my cooking and everything has been wonderful for so long, that this was like personal. Like how dare I mess up.
The cliff notes version of this, is I won't e preparing this for guests probably ever again. I know get back on the horse and blah, blah, blah, and usually I do. When I fail, the next day, and sometimes even the same night, I will re-make a dish to prove to myself, if no one else that I can do it, but my heart isn't in this one and it continues to remind me why I hate baking!!! I will never be a great baker, that's for sure. I cannot stand how you have to wait until the last minute to see if something works out in the baking process with no way to pretest unless its like cake where you can stick a toothpick in. Can't do that with salmon en croute, nope!
I guess, looking at the bright side, my guests left happy and full and at least their plates were good. Yup...yup, trying to look on the bright side.
In other news, I went shopping today. It is clear I was not meant for this season's clothes. It was all weird cuts of high low shirts and dresses, and see through things and floral this and that. It's so hipster, and that isn't my aesthetic. Wake me up when they swing back around to the 50's look again. I think other than the 30's, that was the era where women looked like real women, accentuating the curves in the right places. None of this man jeans, and boyfriend jackets. If I wanted to wear men's clothing, I'd walk over there and buy men's clothing! Grr!
Fotos del ensayo previo al concierto de Navidad, el día 16 Diciembre 2016, en la preciosa Iglesia del Espíritu Santo (Clerecía) en Salamanca. Un concierto de 16 villancicos populares que dejaron con ganas a nuestros espectadores que llenaban por completo la Iglesia.
Photos prétest le concert de Noël le 16 Décembre, 2016, dans la belle église du Saint-Esprit (clergé) à Salamanque. Un concert de 16 carols, qui ont laissé vouloir nos spectateurs qui ont rempli l'église complètement.
Photos of the rehearsal before the Christmas concert, on 16 December 2016, in the beautiful Church of the Holy Spirit (Clerecía) in Salamanca. A concert of 16 popular carols, which left our spectators eager to fill the Church completely.
"Il Ranieri fece erigere un monumento alla sorella in camposanto, e fin qui nulla di strano: ma si spinse, lui inveterato mangiapreti, a supplicare e brigare per ottenere che nella chiesa di Santa Chiara, ove son le tombe dei re di Napoli, sorgesse un grande monumento davanti al quale egli spesso si recava non a pregare ma a piangere (secondo l'atto notorio presentato dagli eredi); fece porre un medaglione marmoreo nella chiesa di Piedigrotta col pretesto che la defunta nel 1860 aveva amorevolmente curato i garibaldini feriti nella battaglia del Volturno. L'inventario dell'eredità mostrava poi che fotografie di Paolina, del monumento di Santa Chiara, del medaglione di Piedigrotta pendevano da tutte le pareti della sua casa in via Nuova Capodimnte e della sua casina di Portici, trasformate ambedue in musei nei quali non si poteva toccar nulla per non mutare la disposizione data dalla defunta. E il senatore, gloria partenopea, andava sovente nella casa di via Nuova Capodimonte (quando abitava a Portici) "imaginando di riveder la sorella ed aspettandola ritto a piè della scala, ma, trascorsa l'ora stabilita, rientrava nella vettura e tornava a Portici".
(Mario Picchi, "Storie di Casa Leopardi", Rizzoli)
La foto mostra il ritratto di Paolina Ranieri (Napoli 1817-Napoli 1878) nella chiesa di Piedigrotta a Napoli, che il destino ha voluto ad un centinaio di metri dalla tomba di Leopardi.
Battaglia di Mentana
La battaglia di Mentana fu uno scontro a fuoco avvenuto presso la cittadina di Mentana, nel Lazio, combattuta il 3 novembre 1867, quando le truppe franco-pontificie si scontrarono con i volontari di Giuseppe Garibaldi, diretti a Tivoli per sciogliere la Legione essendo fallita la presa di Roma per la mancata insurrezione dei romani.
Premesse
Quando Vittorio Emanuele II di Savoia divenne re d'Italia il 17 marzo 1861, il nuovo Regno ancora non controllava né Venezia, né Roma. La situazione delle terre irredente (come si sarebbe detto alcuni decenni più tardi) costituiva una fonte di tensione costante per la politica interna italiana e la principale priorità della sua politica estera.
A volte le tensioni assumevano particolare gravità, come accadde nel 1862 quando Garibaldi, in marcia dalla Sicilia verso Roma, venne fermato dall'esercito italiano alla giornata dell'Aspromonte: ferito, venne fatto prigioniero e messo agli arresti domiciliari a Caprera. La decisa azione italiana contro un eroe nazionale permise al governo di negoziare un favorevole accordo con la potenza protettrice del Papa, la Francia: con la convenzione di settembre del 15 settembre 1864, il Regno d'Italia si impegnava a rispettare l'indipendenza del residuo Patrimonio di San Pietro e di difenderla, anche con la forza, da ogni attacco dall'esterno (ma non dall'interno) e la Francia a ritirare le sue truppe entro due anni, in modo da lasciare all'esercito pontificio il tempo di organizzarsi in una credibile forza di combattimento.
L'obiettivo della annessione di Roma rimaneva comunque assai popolare, né il Regno rinunciò al proposito di fare della città la sua nuova capitale, come sancito, a suo tempo, dal Cavour in persona. Diverse furono, in effetti, gli scontri e le azioni dei garibaldini sui confini o nella stessa città eterna.
L'organizzazione della spedizione garibaldina
Il 12 agosto 1866, terminata la cosiddetta Terza guerra di indipendenza italiana (un segmento della Guerra Austro Prussiana) con l'Armistizio di Cormons, il Regno di Italia aveva guadagnato Mantova, Venezia ed un'adeguata sistemazione dei confini orientali. Rimaneva aperta la questione di Roma e del Lazio, nucleo dello Stato Pontificio. Era rinviata a tempi migliori la questione di Trento e Trieste.
A ciò si aggiunga che nel dicembre 1866, le ultime unità del corpo di spedizione francese si erano imbarcate a Civitavecchia per la Francia, in applicazione della convenzione del 1864.
Particolarmente impegnato sulla "questione romana", ormai da due decenni Garibaldi andava dichiarando come fosse venuto il tempo di «far crollare la baracca pontificia» e, il 9 settembre 1867 ad un Congresso della Pace ospitato dalla protestantissima città di Ginevra, definiva il Papato «negazione di Dio ... vergogna e piaga d'Italia».
Da tenere ben presente, in questo contesto, è la rinnovata popolarità che Garibaldi aveva conquistato alla guerra del 1866, quale unico generale italiano che avesse saputo battere gli Austriaci alla battaglia di Bezzecca (mentre l'esercito e la marina del re avevano dovuto subire le duplici sconfitte alla battaglia di Custoza ed alla battaglia di Lissa). Ciò gli lasciava un rinnovato margine di manovra e rendeva assai più difficile al governo regio (comunque impegnato al rispetto della convenzione del 1864) fermare l'agitazione o i preparativi delle camicie rosse.
Garibaldi riuscì così a organizzare un piccolo esercito di circa 10.000 volontari[6], predisponendo, al contempo, un piano per la sollevazione di Roma.
La notizia di questa mobilitazione, tuttavia, era decisamente pubblicata e ben nota, ciò permise all'Imperatore di Francia Napoleone III di programmare con congruo anticipo una spedizione di soccorso al pontefice, che sarebbe, infatti, giunta a Civitavecchia solo alcuni giorni dopo l'inizio dell'invasione del Lazio. Vennero inoltre messe in allarme le truppe a disposizione del Papa, costituite, per due terzi da italiani e poi da volontari europei, tra cui francesi (specie nella cosiddetta legione di Antibes, mentre gli Zuavi pontifici erano costituiti da volontari belgi, svizzeri, irlandesi e olandesi, oltre che francesi e perfino canadesi.
L'invasione del Lazio
L'invasione degli Stati Pontifici era imminente. Il 21 settembre 1867 il presidente del consiglio Rattazzi fece pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale un monito con cui si esortavano gli italiani a rispettare l'integrità territoriale pontificia e non violare la frontiera. Ogni tentativo di sconfinamento, sarebbe stato impedito. In visita ad Arezzo, Garibaldi reagì chiamando all'appello i volontari per la conquista di Roma. Due giorni dopo, il generale nizzardo programmò di lasciare Sinalunga e spostarsi verso il confine ma il prefetto di Perugia ne ordinò l'arresto. Il tenente Pizzuti, della luogotenenza di Orvieto, si presentò alle ore 6 del 23 settembre presso l'abitazione di Garibaldi. Il generale era ancora a letto, non oppose resistenza. Salì sul treno e fu scortato fino ad Alessandria. Alla notizia del'arresto, si verificarono tumulti in alcune città d'Italia. Garibaldi espresse il desiderio di essere trasferito a Caprera, il governo acconsentì. La detenzione del generale tuttavia non eliminava la minaccia dell'invasione dello Stato Pontificio, infatti il 5 ottobre alcuni volontari raggiunsero Bagnorea barricandosi nel convento di San Francesco. La settimana successiva ci furono ulteriori sconfinamenti a Viterbo e Montelibretti. Le truppe italiane non riuscivano ad arginare il fenomeno e Napoleone III annunciò l'imminente invio di un corpo di spedizione francese ma il governo italiano, nell'estremo tentativo di evitare ciò, promise di prodigarsi ulteriormente contro i volontari. La situazione precipitò il 16 ottobre quando Garibaldi evase da Caprera presentandosi qualche giorno dopo a Firenze, in piazza Santa Maria Novella arringando la folla. La situazione era sfuggita di mano alle autorità italiane[7].Il 22 ottobre a Roma avvenne un attentato alla caserma Serristori, causando la morte di venticinque zuavi pontifici che lì avevano quartiere, quasi tutti italiani e francesi[8] [9] e di due cittadini romani (Francesco Ferri e la figlia di sei anni, Rosa). L'attentato doveva dare il via ad una sollevazione che non ci fu, e portò, il 24 novembre 1868, alla decapitazione sottoscritta da Papa Pio IX dei patrioti Giuseppe Monti (muratore di Fermo) e del romano Gaetano Tognetti a Roma in largo dei Cerchi (vicino al Circo Massimo). Una ghigliottina in scala è esposta nel Museo.
Il 23 ottobre 1867, ebbe luogo lo scontro di villa Glori, quando un drappello di settantasei volontari guidati da Enrico e Giovanni Cairoli, giunti a prendere contatto con i rivoluzionari romani, non trovarono nessuno ad attenderli e vennero sopraffatti dai Carabinieri Esteri del Papa. Garibaldi paragonò il loro sacrificio a quello di Leonida alle Termopili in Grecia ed infatti l'architetto De Angelis che ha realizzato i disegni del Museo ne ha fatto un tempio greco-romano.[10] Numerosi sono i cimeli dei Cairoli nel Museo di Mentana.
Il 25 ottobre gli zuavi papalini assaltarono, non senza perdite, il lanificio Aiani, a Trastevere, centro clandestino del moto insurrezionale, dove erano raccolti patrioti e si preparavano armi e bombe per gli insorti, uccidendo nove dei patrioti presenti.
Il 26 ottobre Garibaldi, con il suo piccolo esercito di volontari circa 8'000 uomini, decise di occupare Monterotondo dove si fermò prima nella locanda Frosi e poi nel Castello Orsini ospite del principe, un garibaldino don Ignazio Boncompagni.[11]. Qui, tuttavia, Garibaldi decise di arrestare la marcia, nella inutile attesa della sperata insurrezione in Roma. Solo alcuni reparti vennero inviati avanti verso Roma. Lo stesso generale il 29 ottobre avanzò sino a villa Spada ed al Ponte Nomentano, nella speranza di suscitare, con la sua presenza, una ribellione in Roma. La quale, in effetti, si limitò ad alcuni scontri a fuoco: il 30 Garibaldi tornava sui propri passi a Monterotondo.
Lo stesso 26 ottobre un reparto isolato alla retroguardia, guidato dal maggiore siciliano Raffaele de Benedetto, venne agganciato da quattrocento papalini al Colle San Giovanni, rifiutò di cedere le armi e venne interamente massacrato.
Nel frattempo, giunse conferma che truppe regolari italiane avevano anch’esse traversato il confine, con la missione ufficiale di arrestare Garibaldi: si sperò, forse, in qualche complicazione fra queste e la guarnigione di Roma. Nulla di tutto questo accadde.
L'inazione del Garibaldi diede, al contrario, il tempo ad un nutrito corpo di spedizione francese, sotto il comando del Pierre Louis Charles de Failly, di prendere terra a Civitavecchia il 29 ottobre e di ricongiungersi a Roma con l'esercito del Papa al comando del generale Kanzler (granatieri, carabinieri esteri o svizzeri, zuavi pontifici, dragoni e cavalleria pontificia, legione di Antibes ed altri volontari cattolici provenienti da tutta Europa). Appariva ormai chiaro che l'invasione non si sarebbe tradotta in una marcia trionfale, e la vittoria italiana non fosse per nulla certa. A causa di ciò, parte degli effettivi meno motivati a disposizione del Garibaldi approfittando di un proclama del Re Vittorio Emanuele II, disertarono, grandemente facilitati dalla prossimità del confine italiano.
La battaglia
Il 3 novembre, alle 2:00 del mattino, al comando del generale Hermann Kanzler, l'esercito del Papa con anticipo e poi le truppe regolari francesi del generale de Polhes uscirono da Roma in ordine di marcia verso le posizioni garibaldine a Monterotondo.
Garibaldi disponeva di truppe ridotte dalle diserzioni, male equipaggiate e sostanzialmente prive di cavalleria ed artiglieria. Egli aveva deciso di raggiungere Tivoli dove avrebbe sciolto la legione garibaldina. Erano state costituite sei brigate, ognuna composta da tre o quattro battaglioni, guidate rispettivamente dal Salomone, dal colonnello Frigyesi, dal maggiore Valzania, dal colonnello Elia e dal maggiore Achille Cantoni, il patriota forlivese che, avendo salvato la vita al Generale presso Velletri ed essendo poi caduto a Mentana, Garibaldi erse a protagonista del romanzo storico Cantoni, il volontario.
Si aggiungeva uno squadrone di Guide a Cavallo, forte di circa 100 unità, guidato dal Ricciotti Garibaldi (l'ultimo figlio del generale con Anita Garibaldi defunta proprio mentre fuggiva da Roma e dai francesi nel 1849) ed una singola batteria con due cannoni. L'armamento era costituito, probabilmente, per due terzi da fucili ad avancarica e per un terzo, addirittura, da moschetti a pietra focaia. Circa metà degli effettivi erano veterani di altre campagne risorgimentali, mentre la restante metà erano volontari privi di esperienza bellica anche se supportati da ufficiali piemontesi.
I pontifici erano rappresentati da truppe anch’esse volontarie, ma veterane, molto motivate e di più prolungato inquadramento. L'Esercito pontificio era composto da circa 3000 uomini, oltre ai circa 2500 del corpo di spedizione francese, truppe regolari in parte mercenarie (il "soldo" era di 50 centesimi al giorno + minestra, pane e caffè). Quest’ultimo era equipaggiato con il nuovo fucile chassepot modello 1866 a retrocarica, munito di un otturatore e caricato a cartuccia di cartone: esso permetteva di caricare 12 colpi al minuto, un'enormità per l'epoca e che mostrò le sue qualità durante la Guerra Franco-Prussiana. La cavalleria era costituita da circa 150 dragoni e 50 cacciatori a cavallo; l'artiglieria di circa 10 pezzi.
Proseguendo lungo l'antica Via Nomentana in direzione Monterotondo, pontifici prima e francesi poi giunsero in prossimità della tappa intermedia di Mentana nel primo pomeriggio. Di fronte a loro il villaggio si presentava sull'alto di una collina a forma di promontorio, cinto da un muraglione con in fronte un antico castello medioevale, volto proprio verso la Nomentana.
Alcune miglia a sud tre compagnie di Zuavi pontifici vennero inviate lungo il Tevere verso Monterotondo ed il fianco destro del fronte garibaldino. La colonna principale, invece, con i dragoni all'avanguardia e i francesi in retroguardia proseguiva, sempre verso Monterotondo, lungo la Nomentana. Essi presero un primo, inaspettato, contatto con gli avamposti di Garibaldi già a sud di Mentana mentre era in corso il trasferimento dei Volontari in direzione di Tivoli. Li sospinsero verso la località Vigna Santucci, circa 1,5 km a sud-est del villaggio. Qui la posizione era difesa da tre battaglioni di camicie rosse, schierate a sinistra sul Monte Guarnieri ed a destra nell fattoria di Vigna Santucci.
Entro le due del pomeriggio gli assalitori sloggiarono entrambe le posizioni e piazzarono l'artiglieria sul Monte Guarneri, in vista del villaggio e del vicino altopiano.
Garibaldi schierò la modestissima artiglieria su un'altura a nord, il Monte San Lorenzo e la gran parte delle truppe (Frigyesi, Valzania, Cantoni ed Elia) all'interno ed intorno al villaggio murato ed al castello, in posizioni fortificate. Contro queste difese si infransero ripetuti assalti pontifici e francesi, con relativi contrattacchi, continuati sino all'inizio della notte. A questo punto venne programmato un contrattacco di aggiramento su entrambi i fianchi dello schieramento papalino, che non ebbe successo.
Nel frattempo le tre compagnie di Zuavi che avevano marciato lungo il Tevere occuparono la strada fra Mentana e Monterotondo, inducendo Garibaldi a recarsi personalmente sul luogo, lasciando l'esercito a difendere Mentana.
A questo punto il corpo francese attaccò le camicie rosse sul loro fronte sinistro, e sfondarono le linee. I difensori fuggirono verso Monterotondo o si rifugiarono asserragliandosi nel castello.
Esito
I difensori del castello si arresero ai papalini la mattina successiva. Garibaldi stesso ripiegò nel Regno d'Italia con 5.000 uomini, inseguito sino al confine dai Dragoni Pontifici. Al termine della giornata i franco-pontifici avevano registrato 32 morti e 140 feriti. I garibaldini 150 morti e 220 feriti più 1700 prigionieri.
Sin dall'indomani della battaglia il merito della vittoria venne attribuito ai regolari francesi ed ai loro fucili chassepot. Ad esempio, quando il 6 novembre i vincitori rientrarono in Roma per la sfilata trionfale, la folla li acclamava come i veri vincitori della giornata e gridava «viva la Francia». La analisi militare però già all'epoca generava controversie. Secondo lo storico cattolico Innocenti, il peso dato alle nuove armi, fu più una mossa di propaganda che una situazione reale.[12]Tra i sostenitori della teoria secondo la quale la vittoria dei Pontifici e dei Francesi non fu dovuta solo dal Fucile Chassepot si può annoverare il garibaldino Mombello, combattente nelle scontro e che in una suo libro di memorie sulla battaglia riportò di non aver sentito gli spari di quel fucile e anzi ne contestò il vantaggio tecnologico. A suo parere infatti, il fucile francese era meno preciso di quelli garibaldini e il campo di battaglia pieno di ripari e avvallamenti favoriva più la precisione che la frequenza di tiro.[13]
Gli esiti dello scontro vennero ampiamente discussi anche a livello medico sulla rivista The Lancet, dove furono pubblicate le osservazioni del dottor Gason che operò a Roma sui combattenti provenienti da Mentana e riportò la comparazione tra le ferite causate dai proiettili sparati dagli Chassepot e quelle causate dai proiettili a palla tonda Miniè che venivano impiegati in due calibri. Il medico notava come da Mentana giungessero soldati che presentavano ferite causate da proiettili che non generavano grandi perdite di sangue, ma erano in grado di fratturare le ossa lunghe. Questi proiettili quindi erano più letali nell'immediato, ma chi veniva colpito in modo non fatale aveva migliori probabilità di sopravvivere. Gason sottolineò però, che ciò era in contrasto con quanto invece riportato nei resoconti precedenti per le ferite da Chassepot. All'epoca i resoconti esistenti, successivi a una battaglia avvenuta a Lione, parlavano di effetti molto più gravi, con lacerazioni causate dai proiettili in uscita molto vaste.[14]
Tra i sostenitori della teoria secondo la quale la vittoria dei Pontifici e dei Francesi non fu dovuta solo dal Fucile Chassepot possiamo annoverare il garibaldino Mombello che nella sua testimonianza riportò:
« ...Il Diritto riportava pure senza commenti il dispaccio di De Failly a Parigi nel quale parlando di Mentana diceva: "Les Chassepots ont fait merveilles" - "Ah bugiardo!" - esclamammo ad una voce Bonanni ed io. "In tutto il tempo della battaglia non si udì un colpo di Chassepots. »
(Augusto Mombello[15])
Il Mombello non solo riporta la sua testimonianza ma spiega anche militarmente per quale motivo, a suo dire, gli Chassepots non furono l'unico motivo della vittoria dei pontifici:
« Nel mio racconto ho dimostrato che il fucile francese a Mentana non ha fatto meraviglia alcuna. Il pregio maggiore del Chassepot era la lunga portata, quasi doppia del fucile ad ago dei prussiani; ma in terreno frastagliato di piccoli poggi e di avvallamenti la lunga portata vale molto meno della giustezza del tiro. Ora, volendo fare molti colpi al minuto, come facevano i francesi, la giustezza del tiro non può ottenersi con nessuna arma. »
(Augusto Mombello[16])
Il 6 novembre le truppe franco-pontificie rientravano vittoriose a Roma. Alcuni prigionieri furono condotti a Roma, altri scortati al confine dai gendarmi francesi e presi in consegna dall'esercito italiano. Gli arrestati furono smistati fra Terni, Spoleto e Foligno e i feriti presi in consegna e ricoverati[17].
Conseguenze
Mentana assicurò allo Stato Pontificio tre ulteriori anni di vita, dei quali il sovrano pontefice profittò per tenere l'allora tanto discusso Concilio Vaticano I (giugno 1868 - luglio 1870). Lì Pio IX ottenne, fra l'altro, la sanzione dei princìpi già espressi nel Sillabo del 1864 e la costituzione apostolica Pastor Aeternus, che impone l'infallibilità del vescovo di Roma quando definisce solennemente un dogma.
Mentana sancì, inoltre, il definitivo allontanamento di Napoleone III dalle simpatie del movimento nazionale italiano, ad esito di un processo già iniziato con l'Armistizio di Villafranca. Era facile, in quei giorni, ricordarlo come l'uomo che mise fine alla Repubblica Romana (1849). La storiografia contemporanea tende, con maggiore gratitudine, a ricordarlo come colui che permise ai Piemontesi di cacciare gli Austriaci dalla Lombardia, il vero alleato del Camillo Benso Conte di Cavour.
Argomentando che il governo italiano non era stato in grado di garantire la sicurezza dello Stato Pontificio e dunque, secondo i francesi, aveva violato la Convenzione di Settembre (1864) Napoleone III inviò nuovamente a Roma le sue truppe. Con questo pretesto, il Secondo Impero aveva rimesso nuovamente piede nell'Urbe annullando l'efficacia di quanto sancito negli accordi del 1864[18].
Garibaldi, anche se ormai vecchio (era nato il 4 luglio 1807), regolò i propri personali conti con Napoleone III a seguito della sconfitta di quest’ultimo alla battaglia di Sedan, nel corso della guerra franco-prussiana: raggiunta la Francia nell'ottobre del 1870, ottenne uno dei rari successi francesi della campagna in difesa della neonata Repubblica Francese (battaglia di Digione) contro i prussiani.
Anche Vittorio Emanuele II di Savoia aveva saputo attendere: il 20 settembre 1870 (18 giorni dopo la resa dell'imperatore a Sedan e pochi giorni prima della partenza di Garibaldi per la Francia) il regio esercito italiano aprì una breccia nelle mura aureliane nei pressi di Porta Pia, segnando la fine dello Stato Pontificio.
Fotografi sul campo di battaglia di Mentana
Sul campo di battaglia di Mentana furono presenti e operarono alcuni fotografi, il più noto dei quali è senz'altro Antonio D'Alessandri (L'Aquila, 1818 - Roma, 1895), titolare insieme al fratello Francesco Paolo dello studio fotografico Fratelli D'Alessandri. Nella mostra della fotografia romana del 1953 furono esposte le seguenti foto: Veduta del paese, I pagliai, Il campo di battaglia verso Monterotondo, Morti sulla strada, Vigna Santucci, (foto del 3 novembre 1867); Trofei presi ai garibaldini di Mentana (fotografia con la scritta Porta inferi non prevalebunt);
Racconta Silvio Negro, storico della fotografia romana, che
« sono del D'Alessandri le rarissime fotografie del campo di battaglia di Mentana … Don Antonio [D'Alessandri], recandosi a Mentana, portò con sé anche un nipotino, Alessandro, il quale mentre lo zio faceva il compito suo, badò a raccogliere le pallottole del fucile, che gli venivano sottomano e ne portò a Roma una collezione. »
(Silvio Negro, Seconda Roma, p. 395)
Caduti di Mentana
Nell'elenco dei Caduti, in quella che una legge del 1899 riconobbe come "Campagna dell'Agro Romano per la liberazione di Roma", ci sono tutti i morti dai fratelli Cairoli alla Tavani Arquati nel 1867, caduti a Bagnoregio, Subiaco, Monte S. Giovanni Campano, ecc. L'Ara-Ossario inaugurata nel 1877 fu chiusa dalla Società Patrie Battaglie nel 1937 proprio per raccogliere tutti i caduti ovunque deceduti nel 1867.
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Raccolta Foto de Alvariis
Dagli storici Cassio Dione (155 - 235 d.C. ca) (1), Paolo Orosio (fine IV - inizio V sec. d.C.) (2) e dal geografo greco Strabone (64 a.C. - 21 d.C. ca) (3) abbiamo una serie di significative notizie sul giacimento della Bessa che brevemente riassumiamo (testi originali alle note 1/3). Nel 143 a.C. il console Romano Appio Claudio attaccò i Salassi prendendo a pretesto una contesa tra questi e le popolazioni insediate nella pianura (in cui i primi venivano accusati di privare i campi coltivati dell' acqua del fiume Duria, utilizzata per il lavaggio delle sabbie di un grande giacimento aurifero). Malgrado una disastrosa sconfitta iniziale, Appio Claudio si impadronì del territorio oggetto del contendere. Ritornato a Roma chiese al senato il "trionfo" ma gli fu rifiutato a causa dell'elevato numero di perdite. Appio Claudio se lo autoconcesse pagando di propria tasca le spese, ma la parata rischiò di finire in rissa e per evitare di essere assalito da alcuni tribuni il console fece salire sul proprio carro la sorella vestale per beneficiare della sua inviolabilità. Appio Claudio che apparteneva ad una dinastia che oltre a tramandarsi il nome si tramandava anche il consolato era suocero di Tiberio Gracco uno dei famosi “gioielli” di Cornelia, figlia di Scipione Africano vincitore della battaglia di Zama.
Il 140 a.C. è quindi il termine post quem i pubblicani romani poterono avere in appalto la miniera d'oro. Questa era di proprietà dello Stato ed un Procurator metallorum era posto a capo dell'amministrazione. Il testo di Strabone conferma anche che il metallo era già estratto dai Salassi (gli Ictimuli citati da Plinio erano probabilmente Salassi che avevano come centro di riferimento il villaggio omonimo), evidentemente su scala non semplicemente artigianale. Da Plinio (23 - 79 d.C.) abbiamo invece la prova della dimensione del cantiere poiché, a proposito della Bessa, cita una lex censoria (4) che, probabilmente per problemi di ordine pubblico, vietava l'utilizzo nelle aurifodinae di più di 5000 lavoratori, ciò significa che vi furono periodi in cui il loro numero dovette essere maggiore. E' probabile che questo numero non si riferisse ai soli addetti ai lavori minerari ma al totale dei lavoratori impiegati compresi quindi quelli coinvolti nelle attività che oggi sarebbero chiamate: "l'indotto".
L'apertura dei cantieri provocò certamente una imponente rilocazione di popolazioni di etnia salassa verso l'area della Bessa e una modifica alla loro struttura sociale ed economica (l'approvvigionamento in viveri e materiali doveva rappresentare un importante problema) dato che si ritiene che la mano d'opera fosse costituita da comunità di "dedicti" che, dopo la sconfitta, pagavano tributo a Roma con il lavoro. Inoltre in prossimità della miniera doveva essere necessaria la presenza dell'esercito dato che si trattava di zona di confine con popolazioni che furono totalmente sottomesse solo sotto Augusto.
da
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Hotel California - Eagles
Otto anni fa, durante il militare, io e un ragazzo, un caro amico, commilitone leccese, scendevamo lungo una strada che portava a casa, ascoltando questa canzone. C'era il buio terso di nero intorno, una strada ghiacciata, si allungava davanti i nostri occhi, illuminata di rado e unica guida i fari di una macchina vecchia, sgarrupata...
Quanti sogni da ventenni, pensieri, riflessioni, su come e cosa aveva dato quasi un anno di vita militare insieme, e di quello che avremmo voluto fare dopo...
Lui sognava di far ritornare a produrre il terreno e gli ulivi del padre, amati ulivi che solo quest'anno ho visto, nel mio viaggio in salento, e il mio pensiero è volato a lui, caro vecchio emanuele, amico caro, di quelli che porti dentro...
Io, rinunciavo, a una carriera militare da cadetto dell' Accademia di Modena, in fondo un pretesto per girare il mondo, ma dopo il Kosovo, sinceramente la voglia era passata, almeno a quelle condizioni...
E sognavo...
Di vivere di architettura che mi portasse sulla luna, estro e sregolatezza, in fondo dentro di me vivevano...
da qui i ruderi...
da qui la fotografia...
Ma un giorno un vecchio, parlò con me, voce segnata dalla sofferenza la sua, gelanti le sue parole...
"La luna vive di luce riflessa, si ciba di essenze non sue, dei sogni degli umani che la guardano e la agognano, li tiene lontani, da sè, perchè sa che è effimera la sua bellezza, e se, volontà terrene decidessero di salire li in alto, ad abbracciare il loro sogno, grande sarebbe la delusione per un idilliaco mondo racchiuso in un pozzanghera di lacrime...
di malinconia, solitudine e bruttezza..."
Ma io continuerò a sognarla, la mia piccola luna...
A portrait of me taken by her
PictionID:54255512 - Catalog:14_034413 - Title:GD/Astronautics Testing Details: OAO Jettison Test; Pretest at LERC Date: 08/04/1965 - Filename:14_034413.tif - - - Images from the Convair/General Dynamics Astronautics Atlas Negative Collection. The processing, cataloging and digitization of these images has been made possible by a generous National Historical Publications and Records grant from the National Archives and Records Administration---Please Tag these images so that the information can be permanently stored with the digital file.---Repository: San Diego Air and Space Museum
Itri
Itri è un comune italiano di 10 664 abitanti della provincia di Latina nel Lazio. Dista 56 km da Latina, 111 km da Roma e 78,8 km da Napoli.
Territorio
Posta a 170 m s.l.m., la cittadina sorge in una caratteristica vallata tra le falde occidentali dei monti Aurunci (passo di San Donato), a soli 8 km dalla costa. Si trova lungo il percorso della via Appia, tra Fondi (con la quale confina ad Ovest) e Formia (con la quale confina ad Est). Itri confina anche con la città di Esperia ad Est; a Nord con Campodimele; e a Sud rispettivamente con i comuni di Sperlonga e Gaeta
Punta Cetarola e la Spiaggia della Flacca Antica
A Sud il territorio si affaccia sul mare con una costa rocciosa e frastagliata denominata Punta Cetarola, dove vi è la spiaggia della Flacca antica,una caratteristica spiaggia di ciottoli, situata tra Gaeta e Sperlonga, un piccolo e bellissimo scorcio noto anche come spiaggia delle bambole. Gli amanti della barca definiscono questa di Punta Cetarola come la caletta più bella e suggestiva di tutto il litorale gaetano-sperlongano. Il suo valore ambientale è stato confermato dal Ministero dell'Ambiente che ha inserito la "Costa rocciosa compresa tra Sperlonga e Gaeta" nell'elenco dei siti di Natura 2000, la rete europea di aree destinate alla conservazione della diversità biologica.inoltre fa parte del comune di Itri L'arenile dello Scarpone, sito nella Piana di Sant'Agostino.
Immagine di Punta Cetarola,uno dei più bei posti di Itri, con accanto la spiaggia di Sant' Agostino
Montagna
I rilievi montuosi presenti nel suo territorio spesso superano i 1000 m di quota, come nel caso del monte Cervello alto 1.004 m s.l.m., monte Trina alto 1.062 m s.l.m. o monte Ruazzo alto 1.314 m s.l.m. Tra questi, che sono per lo più a carattere roccioso, si estendono numerose ed ampie radure. Tali zone, per la frequenza dei temporali primaverili-estivi che rinverdiscono la vegetazione, erano sede di alpeggio da maggio a ottobre inoltrato. Nelle giornate limpide, dalle alture, si osservano le isole dell'antistante arcipelago pontino.
Clima
La situazione orografica di Itri conferisce al territorio un clima non uniforme, poiché frequenti sono i fenomeni microclimatici che caratterizzano zone ristrette del territorio comunale. Si va dal temperato fresco al temperato caldo, da un clima marino ad uno montano. Il centro urbano, posto a 170 m s.l.m., gode di un clima che si mantiene equilibrato: in inverno è protetto dai venti freddi grazie ai monti che lo circondano; in estate, sono gli stessi monti che garantiscono una brezza fresca che rompe la calura del sole. Le precipitazioni sono piuttosto elevate durante tutta la stagione invernale, mentre i fenomeni nevosi sono frequenti nell'esteso territorio, ma più rari (l'ultimo episodio risale al 12 febbraio 2010) nel centro urbano.
Classificazione climatica: zona C, 1387 GR/G
Storia
Il sito ebbe una frequentazione in epoca preistorica: sono stati rinvenuti resti di epoca neolitica (strumenti in pietra e in ossidiana) e dell'età del bronzo (Valle Oliva, II millennio a.C.).
Fece parte del territorio degli Aurunci, conquistato quindi dai Romani, che vi realizzarono la via Appia nel 312 a.C. Il sito acquistò importanza come luogo strategico, tuttavia non si formò un nucleo abitato molto consistente, anche se è probabile la presenza di un piccolo centro, se non altro come stazione di posta. Le fonti, in realtà, non fanno diretto riferimento ad alcuna città tra Fondi e Formia. Il nome del paese deriva probabilmente dal termine latino iter ("via, cammino").
Un antico tracciato viario, di cui si sono ritrovati resti di basolato nella località Calvi, collegava il luogo all'attuale Sperlonga.
Itri negli anni 30
La presenza di un serpente sullo stemma cittadino ha dato origine alla leggenda, priva di riscontri archeologici, che la fondazione della città fosse derivata dagli abitanti della città di Amyclae, sulla costa (ricordata dalle fonti, ma non identificata), fuggiti nell'interno per un'invasione di serpenti. Secondo tale leggenda il nome della città deriverebbe dalla figura mitologica dell'Idra di Lerna.
Le prime notizie di Itri risalgono al 914 (in un atto di vendita è citato uno "Stefano, itrano"). Tra il IX e l'XI secolo sorse il Castello su un'altura che dominava il passaggio della via Appia.
Itri fece parte del ducato di Gaeta e passò quindi sotto i Dell'Aquila, signori di Fondi e quindi ai Caetani. Appartenne sempre alla diocesi di Gaeta.
L'abitato sorse prima intorno al castello (città alta) e si espanse solo in seguito lungo la via Appia (città bassa). I due nuclei sono separati dal torrente Pontone (o Rio Torto). Un altro nucleo abitato era sorto nella zona di Campello, abbandonato nella seconda metà del XV secolo.
Vi nacque nel 1771 Fra' Diavolo (Michele Pezza), che fu prima fuorilegge e quindi colonnello dell'esercito borbonico di Ferdinando IV, in lotta contro l'occupazione dei Francesi, che lo presero e impiccarono a Napoli nel 1806.
Dal XIII secolo e fino al 1861 fece parte del Regno di Napoli (poi Regno delle Due Sicilie) nell'ambito dell'antica Provincia di Terra di Lavoro, della quale continuo a fare parte anche dopo l'unità d'Italia, fino al 1927. Poi, durante il periodo fascista, stante il nuovo disegno organizzativo territoriale che comprendeva anche la istituzione delle Regioni, nel 1927 l'intera parte settentrionale della Provincia di Terra di Lavoro fu scorporata dalla neonata Provincia di Caserta e assegnata al Lazio (Province di Roma e Frosinone). In particolare quasi tutta la parte del Distretto di Gaeta fu assegnata alla Provincia di Roma. Infine nel 1934, Itri fu inclusa nel territorio della neocostituita Provincia di Latina (in quell'epoca fascista si chiamava Littoria).
Città bassa, panorama dal Castello
Nel 1911 erano presenti nel comune cinquecento dei circa mille emigranti sardi arrivati per lavorare al V lotto della Direttissima Roma-Napoli. Nel contesto nazionale erano già presenti elementi di razzismo contro i sardi, chiamati sardegnoli, che non scomparvero fino alle imprese della Brigata Sassari nella Prima guerra mondiale[3][4]. Gli emigranti ricevevano un salario inferiore rispetto agli altri lavoratori, ma si rifiutarono di pagare ogni tangente alla camorra, allora infiltratasi nell'appalto, e per tutelarsi cercarono di costituire una lega di autodifesa operaia. Il 12 e 13 luglio, a seguito di futili pretesti, avvengono due imboscate a cui partecipano gli stessi notabili del paese, nell'indifferenza delle forze dell'ordine. Si contarono, non senza difficoltà e intralci, 8 vittime e 60 feriti, tutti sardi,[5] mentre dalla Corte d'Assise di Napoli trentatré imputati furono assolti dai giurati popolari e nove condannati in contumacia.
Durante la seconda guerra mondiale, nel maggio del 1944, i bombardamenti distrussero il paese e i suoi monumenti al 75%.
Architetture civili
Il Castello
Il castello, possente fortezza medioevale, alta e maestosa, è collocato sulla parte più elevata della collina denominata Sant'Angelo. Esso si articola intorno ad una torre pentagonale con piccola cinta merlata (attribuita al duca di Gaeta Docibile I nell'882). Nel 950 il nipote di Docibile, Marino I, fece costruire una seconda torre quadrata più alta e maestosa della prima. In seguito, il castello fu oggetto di nuovi lavori, con la costruzione della parte abitativa, del torrione cilindrico e del cammino di ronda (1250) che li unisce.
La torre "del coccodrillo".
Il torrione cilindrico è anche detto "Torre del coccodrillo", in quanto secondo la leggenda in questa torre si trovava dell'acqua con uno di questi animali, al quale venivano dati in pasto i condannati a morte.
A questo complesso appartiene anche un fortilizio (la cavea) con tre piccole torrette cilindriche disposte ad un livello inferiore e visibili dall'entrata principale del Castello: questa parte era adibita a luogo di ristoro per cavalli, servitù e gendarmi. Dalla cavea si può vedere, grazie ad un cancelletto, il ghetto ebraico (Vico Giudea) dove si trovava anche una piccola sinagoga, ormai scomparsa.
La parte del castello destinata ad abitazione si sviluppa su due piani, ciascuno diviso in tre sale. Entrando, immediatamente a sinistra si presentano tre sale e, dalla seconda, si può accedere, grazie ad una scalinata, al piano inferiore. Questo piano è costituito da tre vasti spazi destinati ad uso domestico, come lasciano supporre i resti del forno e della vasca utilizzata per conservare il cibo, ancora visibili nella stanza sulla sinistra. Si può anche osservare l'antica cisterna dove erano raccolte le acque piovane. Al secondo piano è possibile vedere i resti di quello che era un camino ed un affresco rappresentante Sant'Antonio abate e Madonna lattante con il Bambino. In questo punto, infatti, fu fatta costruire dalla famiglia Caetani una cappella privata che fa pensare che la sala antistante fosse una camera da letto. Secondo alcune leggende, sarebbe possibile sentire dei fantasmi lamentarsi nelle notti di temporale e, soprattutto, veder fluttuare dei mantelli lungo il cammino di ronda che collega il castello alla "Torre del Coccodrillo". Salendo l'ultima rampa di scale della torre quadrata si accede a un'ampia terrazza da cui è possibile godere un vasto panorama.
Il castello ospitò anche la bellissima Giulia Gonzaga, contessa di Fondi e donna famosa per aver accolto nella sua dimora artisti e letterati dell'epoca quali Vittoria Colonna, Marcantonio Flaminio, Vittore Soranzo, Francesco Maria Molza, Francesco Berni, il pittore Sebastiano del Piombo - che le fece il ritratto - Pier Paolo Vergerio, Pietro Carnesecchi, Juan de Valdés.
Danneggiato dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, è stato acquistato dalla provincia di Latina nel 1979 per un prezzo simbolico dal dottor comm. Francesco Saverio Ialongo e poi ceduto al Comune d'Itri. Una volta restaurato, il castello avrebbe dovuto ospitare il "Museo del brigantaggio". Durante i lavori di restauro, in seguito ad una richiesta di fondi dalla Comunità Europea, il sindaco e la giunta itrana hanno ritenuto opportuna la collocazione del suddetto museo in una diversa zona del paese, località Madonna delle Grazie.
L'inaugurazione della prima parte restaurata del castello è avvenuta il 4 giugno 2003, il 14 settembre 2007 è stato aperto l'intero complesso. Al suo interno oggi il castello di Itri ospita le mostre, i mercatini d'artigianato locale, i convegni, le cerimonie pubbliche, ma anche feste private. Nella cavea invece si organizzano durante l'estate le serate di cinema e diversi concerti.
Forte di Sant'Andrea e resti della Via Appia Antica - Il Tempio di Apollo[modifica | modifica wikitesto]
In direzione di Fondi, nella gola di Sant'Andrea, è stato rimesso in luce e valorizzato un tratto dell'antico percorso della Via Appia Antica. Qui, sui ruderi di una villa romana di età repubblicana (I secolo a.C.), sorgeva un forte che fu utilizzato da Fra' Diavolo nella difesa contro i Francesi nel 1798. Nella valle di S. Andrea si trova uno dei tratti più suggestivi e meglio conservati dell'Antica Appia lungo la Via Francigena del Sud. Lungo i 3 km di percorso, ai lati della strada romana era presente una sorta di marciapiedi, tuttora visibile in alcuni tratti. Il lato a valle dell'itinerario era terrazzato con imponenti mura costruite a opera poligonale e lungo la strada si possono ancora osservare ciò che rimane delle costruzioni di difesa dai briganti e dei posti di blocco borbonici. All'incirca a metà del percorso la via è dominata dal forte di S. Andrea, edificato sui resti di un antico Tempio dedicato ad Apollo e di cui sono a oggi visibili le cisterne a volta all'interno dei terrazzamenti. La costruzione dell'edificio rispose all'esigenza di fortificare il passo, situato in una posizione strategica e delicata, in coincidenza con l'ingresso nel Regno di Napoli. Nell'area si svolsero diverse battaglie, una fra più celebri riguardò lo scontro nel 1799, quando Fra Diavolo impedì la penetrazione delle truppe napoleoniche nel Napoletano. In età tardoantica sui ruderi del tempio fu edificata una cappella votata a S. Andrea Apostolo, da cui prende il nome il forte e la valle. L'eccellente stato di conservazione di questo tratto dell'antico percorso romano, rende quest'area un vero e proprio museo a cielo aperto della tecnica stradale romana.
Architetture religiose
Convento di San Francesco
Il convento di San Francesco (1324) (uno dei primi nati nella diocesi di Gaeta) con la bella chiesa di S. Francesco furono fondati dal conte di Fondi Onorato I Caetani. Collocato nella parte bassa della città si trovava nelle immediate vicinanze della chiesa della SS. Vergine Annunziata (datata 1363, ricostruita dopo i bombardamenti e oggi intitolata a Santa Maria Maggiore). Nell'edificio era presente un oratorio dedicato a San Giovanni Battista ed i confratelli vi avevano diritto di sepoltura. Sappiamo dallo statuto itrano, che risale al '400 che Onorato II, conte di Fondi, vi dimorò per un certo periodo a partire dell'anno 1487. Secondo una visita pastorale del 1722[8], la chiesa era dotata di tre altari: altare maggiore con l'immagine del santo; due altari laterali, del Crocifisso e della Natività di Gesù Cristo. Quello che è rimasto della chiesa e del convento è stato trasformato in abitazioni civili e oggi resta soltanto un affresco conservato in un edificio nella centrale Piazza Incoronazione. Inoltre, le due colonne dell'altare del Santuario della Madonna della Civita, così come il lavabo che si trova in sagrestia, provengono dal Convento di San Francesco.
Monastero di San Martino
In origine fuori dall'abitato (presso San Martino in Pagnano), il monastero era stato abbandonato in conseguenza delle leggi di soppressione delle corporazioni religiose nel regno d'Italia, essendo venuto meno il numero legale delle monache. In realtà l'edificio, occupato dalle Suore del Preziosissimo Sangue, era in uno stato di decadimento. Successivamente il monastero benedettino di San Martino, fu ricostruito all'interno delle mura. Distrutto anch'esso dai bombardamenti del 1944, è stato quindi ricostruito.
La chiesa di San Michele Arcangelo.
San Michele Arcangelo
La chiesa di San Michele Arcangelo, nella parte alta, risale all'XI secolo ed è l'edificio sacro più antico di Itri. A tre navate, l'edificio è in stile arabo-normanno ed ha la caratteristica di avere il campanile quadrato, ornato da piatti in maiolica colorati, addossato alla chiesa, in corrispondenza dell'entrata principale, anziché posto di lato. Si articola in quattro piani, dal portale di accesso alla chiesa, a due bifore e una trifora, con coronamento a cuspide. Al suo interno si può ammirare un affresco del XV secolo raffigurante la "Vergine con il Bambino" e la statua lignea di San Michele Arcangelo, posta in una nicchia dell'altare maggiore.
Santa Maria di Loreto
In origine su una collina fuori dal paese, ma ormai raggiunta dall'espansione dell'abitato, si trova la chiesa di Santa Maria di Loreto, con annesso convento dei Cappuccini (dal 1574), da cui deriva il nome "Cappuccini" attribuito alla zona. Quando nel marzo del 1574 i Padri Cappuccini iniziarono ad utilizzare l'edificio, dapprima in proprietà, poi in enfiteusi (in seguito alla confisca dei beni della Chiesa), quest'ultimo si trovava in una posizione isolata. Il convento fu abitato dai Cappuccini fino al 1897 e nel 1910/1911, a seguito dell'epidemia di colera che imperversò ad Itri, fu adibito a lazzaretto. L'avvento dei Padri Passionisti è datato 30 marzo 1943, giorno in cui fu redatto e firmato un atto nel quale il Comune d'Itri concedeva in donazione il Convento ai Passionisti. L'opera di ricostruzione voluta dal Senatore Pietro Fedele, sposato ad Itri con Donna Tecla De Fabritiis, iniziò nel novembre del 1941 e fu ultimata dopo il conflitto bellico. Nella chiesa di S. Maria di Loreto è conservato, tra le altre opere, un dipinto di San Paolo della Croce (fondatore dei Passionisti), attribuito al pittore Sebastiano Conca (1676-1764).
Santa Maria Maggiore
Alla chiesa di S. Maria Maggiore già della SS. Annunziata si accede da un semplice ed ampio portico, di stile gotico, con tre archi ogivali e tre portali (che sono stati ricostruiti dopo le distruzioni della Seconda guerra mondiale), dei quali quello di mezzo, più grande, è anch'esso ogivale e risale al XIV secolo.
il campanile della distrutta chiesa di Santa Maria Maggiore
La tradizione locale dice che il portale vi fosse stato trasportato da San Francesco.
Cappella del Crocefisso, all'interno dell'attuale chiesa di Santa Maria Maggiore.
Le prime notizie, inerenti alla chiesa, risalgono al 26 marzo 1363, quando essa è ricordata nel testamento del conte di Fondi, Onorato I Caetani, che fece un lascito di 20 once. Di stile romanico-laziale, è decorata esternamente con fasce di pietra bianca alternate a laterizio, con dei cornicioni posti al termine di ogni piano. Nel 1600 la chiesa era a tre navate: quella centrale era coperta a tettoia, con l'altare maggiore ed il coro coperto a volta. In essa vi erano: l'organo, il pulpito, la fonte battesimale ed il campanile con due campane. Agli inizi del XVIII secolo essa fu ampliata ed ebbe radicali restauri. La caratteristica principale del tempio era il soffitto a cassettoni, d'oro zecchino. Quest'ultimo fu successivamente rimosso per un crollo, avvenuto nel 1829, e la chiesa fu rifatta in muratura. Durante la Seconda guerra mondiale l'edificio fu distrutto dai bombardamenti del 1944, ad eccezione del campanile duecentesco (recentemente restaurato). Per evitarne la distruzione, vennero staccati alcuni affreschi ora conservati nella vicina chiesa di San Michele Arcangelo. A seguito della distruzione, la chiesa della SS. Annunziata (all'interno della quale si conserva un Busto argenteo della Madonna della Civita, proprietà del popolo di Itri che contribuì alla sua realizzazione con una questua) fu anche ridenominata chiesa di S. Maria Maggiore.
Ad oggi, dunque, l'edificio denominato S. Maria Maggiore si trova in Piazza Annunziata. L'interno della chiesa è a tre navate: nel lato destro vi è la cappella del Crocefisso con altare in marmo intarsiato, nel cui paliotto sono scolpite le Anime del Purgatorio, mentre sopra il Fastigio vi è raffigurata la Sacra Sindone. Quest'opera può riportarsi al XVIII secolo. Nella medesima cappella la volta è decorata a stucco, con alcuni angeli reggenti gli emblemi della Passione.
Alcuni sostengono che l'opera fu realizzata nel 1827, per volere del pontefice Leone XII, ma essa risale al secolo XVI o, al più tardi, al XVII secolo. Nell'altare della navata sinistra riposa il corpo di San Costanzo martire, i cui resti sono ricoperti da vesti ricamate. Una tela molto interessante, raffigurante la «Predica di San Tommaso d'Aquino davanti al Papa ed a un re» (forse Carlo I d'Angiò), era nella predella della cappella della navata sinistra.
Santuario della Madonna della Civita
Nel territorio di Itri si trova il santuario della Madonna della Civita in cui si venera un antichissimo quadro raffigurante una Madonna nera con Bambino denominata Madonna della Civita.
Aree naturali
Parco naturale dei Monti Aurunci
Monte Ruazzo
Le Rave Fosche, costituite da un rilievo ad est dell'abitato di Itri, raggiungibile a piedi dalla località Postacchio. La caratteristica geolitica di questo monte è la presenza di formazioni calcare imponenti di colore bianco-grigiastro (Rave Fosche) e rossicce per l'alto contenuto in ossido di ferro (Rave Rosse). Sono presenti anche caverne di particolare conformazione, tra cui la celebre Caverna di Fra Diavolo, il brigante Michele Pezza.
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Raccolta Foto de Alvariis
di Luigi Rossini
Raccolta Foto de Alvariis
martinArte di Paola Barbarossa
laboratorio d’arte - corsi - spazio espositivo
Presenta :
Luigi Coppo
“Over the Wall”
A cura di Fernando Montà
Inaugurazione
venerdì 14 marzo 2014 ore 18.30 / 22.00
La mostra proseguirà sino a venerdì 28 marzo 2014
Orari:
lun 15.30-19.30 mar-mer 10,00-12,30 15,30-21,30 giov-ven 10,00-12.30 15.30-19.30
Sabato 15 - 3 - 2014 ore 10.30-12.30 15.30 - 19.30
martinArte c.so Siracusa 24/a -10136 Torino - tel. 011.3433756
cell. 335360545 e.mail: paolabarbarossa@libero.it www.martinarte2010.it
ingresso libero
Over the Wall
Nato a Torino, sono sempre stato affascinato da tutto quello che concerne l' immagine; dopo essermi diplomato in costruzioni aeronautiche, ho approfondito, da puro autodidatta, lo studio della pittura, dall' impressionismo ai giorni nostri, cercando sempre di avventurarmi in nuove ricerche e sperimentazioni; la ricerca del segno, del colore fine a se stesso, la semplicità ed immediatezza della comunicazione sono sempre state le mie prerogative; a 6 anni mi fu regalata la prima fotocamera, con la quale iniziai a fare le prime fotografie...in seguito vennero le reflex e, in ultimo, dopo l' avvento del digitale e, sopratutto dopo la conoscenza di persone decisamente interessanti ed emotivamente coinvolgenti, mi orientai verso la ricerca fotografica non fine a se stessa, ma verso un modo personale di scattare,...sovente con lo scopo ultimo di avere basi per nuovi spunti pittorici; infine mi sono accostato alla fotografia come opera d' arte, per creare, indagare e conoscere. In questo momento l’orientamento dei miei scatti è rivolto a situazioni di territorio, di inquinamento, di ecologia, di degrado ambientale, legate a contesti socialmente difficili, di scatti della mia terra, delle mie radici. Ho partecipato, con curiosità, a vari concorsi fotografici cercando, innanzitutto, di anteporre il mio “pensiero fotografico”, il fare, alla mera commercializzazione delle immagini, mondo che non mi appartiene in alcun caso.
Luigi Coppo, 2013
A Luigi Coppo piace fotografare.
Racconta che fin da bambino era affascinato dalle immagini del mondo circostante - figure umane o paesaggi - e scattava le prime fotografie con grande impegno ed entusiasmo.
Da allora quell'impegno non si è mai affievolito ma è andato rafforzandosi e consolidandosi nel tempo, sino al punto da diventare un pretesto per indagare e sperimentare la pittura.
La fotografia è diventata la sua inseparabile "compagna di viaggio" nel conoscere e cogliere i tagli compositivi piu' interessanti, per poi trasformarsi in elemento capace di tradurre ed esprimere in modo estremamente efficace ed immediato i suoi pensieri (Coppo la chiama infatti "il mio pensiero fotografico").
Attualmente in "Over the Wall" vede "Oltre il Muro" e coglie concretamente ciò che molti distrattamente guardano ma "non osservano" e "non vedono": il silente degrado di luoghi abbandonati che potrebbero essere recuperati, angoli di natura popolati da esseri e piccole e grandi entità da preservare e conservare, che vengono invece dimenticati, snaturati, distrutti o sostituiti.
Coppo è legato alle origini ed alla sua terra, il Monferrato: da qui partono interpretazioni come quella molto efficace di "Good bye cruel world" o la rappresentazione contenuta in "Another brick", ove timidi papaveri crescono vicino ad un vecchio muro dimenticato.
Dico "concretamente" perché con molta schiettezza il lavoro di Luigi Coppo non ci parla di voli pindarici, di sogni o surrealistiche interpretazioni: il suo mondo è pienamente immerso e rivolto al presente, un presente che nutre tuttavia ancora la speranza di un futuro migliore e piu' consapevole, che avverte come necessità tangibile e "vitale".
Mariella Bogliacino 2013
Percorsi
2003 -----concorso fotografico " 12 scatti per Laigueglia" , comune di Laigueglia -----6 classificato premio critica , attestato ------titolo " il pescatore Piero"---la fotografia ha fatto parte del calendario di Laigueglia (SV) nel' anno successivo
2010----partecipazione concorso fotografico “ passione Italia” , indetto da Pagine Gialle, città di Torino,----segnalazione fotografia “ il carretto dei gelati” , per la provincia di Savona
2011----" tre scatti per la tre", città di Torino-----6 classificato , pubblicazione su libro circoscrizione 3 , attestato ----titolo fotografia " al 111"
2011----partecipazione concorso fotografico “ passione Italia” ,città di Torino ,indetto da Pagine Gialle
2011 ----" premio città di Busseto"comune di Busseto(Parma)-----partecipazione concorso fotografico
2011----" 1° concorso fotografico " riscatta regio parco", città di Torino-----partecipazione concorso, attestato
2011----partecipazione concorso fotografico “ uno scatto per lo sport” , città di Torino indetto da fondazione Sandretto
2012 --- 2° concorso fotografico comune di Moncestino " terre di collina",comune di Moncestino ( Alessandria )-----1° classificato tema classico ----titolo fotografia " simmetrie" , pubblicazione articolo su " la grande famiglia"
2012----” premio città di Busseto” comune di Busseto ( Parma)---partecipazione , su invito a concorso fotografico
2013-----partecipazione concorso fotografico “ diwan cafè”, città di Torino
2013 ----3°concorso fotografico comune di Moncestino “ i colori del paese”, comune di Moncestino(Alessandria) ----segnalazione fotografia “curve monferrine”in sito internet
2013 ----partecipazione a concorso fotografico Ernesto Guerini “ obiettivo vespa”, comune di Sale Marasino (Brescia)
2013----partecipazione a concorso fotografico " uno scatto per lo sport", città di Torino
2013----partecipazione a concorso fotografico Ripor “porte e portoni" , comune di thiene (Vicenza)
2012\2013 frequentazione de" i salotti fotografici " di Michele Vacchiano, villa Amoretti , Torino
2013 ----partecipazione a concorso fotografico “ premio città di Varese” (Varese) con la fotografia “ parco dora”
2013---partecipazione a concorso fotografico “ 450 scatti per 450 anni” indetto da fondazione S.Paolo, città di Torino ----le due fotografie partecipanti “ parco dora “ e “ polo Einaudi” sono state esposte dal 11 -10 al 12-11 2013 nel' atrio della stazione di Porta Susa ( Torino)
2013---partecipazione a concorso fotografico “ centenario Alenia Aermacchi”,città di Torino
2013---partecipazione a “# guerrieri”, concorso online indetto da Enel con diversi scritti
2013----partecipazione a concorso “ melt-a-plot” , concorso di sceneggiatura online, con diversi scritti,
2013---.partecipazione a concorso fotografico online “ terre di vino”, indetto da Res-tipica
th---partecipazione a concorso “ riviera dei fiori”,comune di Taggia (Imperia)----la fotografia “ sunrise” è stata scelta come immagine di copertina del sito
Presente in flickr, www.flickr.com con lo pseudonimo fabiano marconi prevalentemente nel gruppo “fotografando\solo contest”
Presente in internet come luigi coppo, copber, marconi fabiano
Sito web www.photografers.it/free/luigicoppo/
Sito web Luigi Coppo web site – Altervista luigicoppo.altervista.org/
Un’intera linea per pensare al profumo dei nostri abiti da quando li laviamo a quando li riponiamo nei nostri armadi. Gesti che ci fanno ripensare ai lavori di casa come ad un momento di cura e piacere e non ad un semplice dovere. Tre momenti: un profumo per la lavatrice, concentrato ma delicato su ogni tipo di tessuto, si aggiunge nella vaschetta al posto dell’ammorbidente. Momento due: lo spray da vaporizzare dopo aver stirato i capi, il tocco di profumo che li fa tornare nostri. Momento tre: le card profumate da mettere nei cassetti e negli armadi per rendere costante il nostro segno olfattivo e che ci fa sorridere al mattino quando scegliamo cosa metterci. La linea si chiama Cuore di Casa ed è stata ideata dall’azienda HP, per la sua sezione Nasoterapia (vi ricordate la lampada ad ultrasuoni Sakura? Proprio loro).
Da Melissa abbiamo la linea completa di tutte e quattro le profumazioni:
Armonia "vaniglia e sale" (nuova!)
Soffio “gelsomino e cashmere (la preferita di Valeria),
Nuvola “talco e rosa” (la preferita di Giulia,
Risveglio “tuberosa e gardenia”
Rugiada “bergamotto e cedro”
Gli spray hanno il loro sacchetto in tessuto utile anche in valigia per riporre biancheria profumata. Abbiamo pensato che questa linea potesse rappresentare un’ottima idea regalo per chi ha una casa nuova, per chi ha bisogno di un pretesto per “prendersi cura”, per chi ama in generale quello che abita che sia una stanza o un vestito. vi aspettiamo da Melissa per scegliere il vostro Spray 13,90€, Concentrato profumato 10,90€, card profumate 11,90€
Ci sono giorni in cui io non interagisco
e appeso al silenzio, come un ragno al soffitto,
sorveglio il mio spazio aereo, minacciando tutto ciò che gira.
Girando a vuoto un termitaio di pensieri,
che, masticando, si nutre del tempo che passa,
affilo la mia attesa, guardo e guardo che mi vedi.
Ho giorni grigi in cui io non mi riconosco,
volando un po' pesante, prendo dentro tutti i vetri,
m'incazzo, ronzando, come un amplificatore in paranoia
e con un pungiglione, intriso di veleni,
cercando un pretesto, cercando una scusa,
affondo i miei colpi e soffoco la rabbia che grida.
Dentro frenetici momenti di noia...
Ho giorni grigi in cui io non mi riconosco
volando un po' pesante prendo dentro tutti i vetri,
m' incazzo, ronzando, come un amplificatore in paranoia
e con un pungiglione, intriso di veleni,
cercando un pretesto, cercando una scusa,
affondo i miei colpi e soffoco la rabbia che grida.
Dentro frenetici momenti di noia...
Ci sono giorni in cui io non interagisco
e appeso al silenzio, come un ragno al soffitto,
sorveglio il mio spazio aereo, minacciando tutto ciò che gira.
Dentro frenetici momenti di noia...
Dentro frenetici momenti di noia...
From Wikipedia:
en.wikipedia.org/wiki/Ford_Mustang
The Ford Mustang is a series of American automobiles manufactured by Ford. In continuous production since 1964, the Mustang is currently the longest-produced Ford car nameplate. Currently in its sixth generation, it is the fifth-best selling Ford car nameplate. The namesake of the "pony car" automobile segment, the Mustang was developed as a highly styled line of sporty coupes and convertibles derived from existing model lines, initially distinguished by "long hood, short deck" proportions.
Originally predicted to sell 100,000 vehicles yearly, the 1965 Mustang became the most successful vehicle launch since the 1927 Model A. Introduced on April 17, 1964 (16 days after the Plymouth Barracuda), over 400,000 units in its first year; the one-millionth Mustang was sold within two years of its launch.[5] In August 2018, Ford produced the 10-millionth Mustang; matching the first 1965 Mustang, the vehicle was a 2019 Wimbledon White convertible with a V8 engine.
The success of the Mustang launch would lead to multiple competitors from other American manufacturers, including the Chevrolet Camaro and Pontiac Firebird (1967), AMC Javelin (1968), and Dodge Challenger(1970). The Mustang would also have an effect on designs of coupés worldwide, leading to the marketing of the Toyota Celica and Ford Capri in the United States (the latter, by Lincoln-Mercury). The Mercury Cougar was launched in 1967 as a higher-trim version of the Mustang; during the 1970s, it was repackaged as a personal luxury car.
Lee Iacocca's assistant general manager and chief engineer, Donald N. Frey was the head engineer for the T-5 project—supervising the overall development of the car in a record 18 months—while Iacocca himself championed the project as Ford Division general manager. The T-5 prototype was a two-seat, mid-mounted engine roadster. This vehicle employed the German Ford Taunus V4 engine.
The original 1962 Ford Mustang I two-seater concept car had evolved into the 1963 Mustang II four-seater concept car which Ford used to pretest how the public would take interest in the first production Mustang. The 1963 Mustang II concept car was designed with a variation of the production model's front and rear ends with a roof that was 2.7 in (69 mm) lower. It was originally based on the platform of the second-generation North American Ford Falcon, a compact car.
Eldorado, Kansas Car Show, Sep 2014
Photo by Eric Friedebach
Colleallodole- Bevagna (nei pressi della azienda Milziade Antano)
Umbria- Bacco Minore
Fino a qualche anno fa l’Umbria aveva il sapore di un grappolo d’uva appena colto dalla pianta. I suoi vini svelavano il mistero delle profondità della terra e la presenza discreta della mano tradizionale dell’uomo. La vite cresceva alla rinfusa, abbracciata all’acero o alla bianchella, in promiscuità con il grano e con le altre coltivazioni foraggere. Ma erano piuttosto gli ulivi a caratterizzare il paesaggio agrario della regione. Ancora sul finire degli anni Settanta quella umbra poteva definirsi un’enologia arcaica, quasi ancestrale; tanto è vero che Mario Soldati, nel suo <> (1968 – 1975) la salta a piedi pari. Eppure già tra le due guerre, e fino all’inizio del boom economico, in Italia la parola “Orvieto” racchiudeva in sé la definizione inequivocabile di “vino bianco”. Poteva capitare in quegli anni, che l’oste chiedesse ai suoi clienti: <>. Sulle qualità organolettiche di quel vino di allora non saprei aggiungere altro, perché ne ho un vago ricordo che si perde nel tempo, fatto di calori appassionati, contrasti olfattivi, visioni adolescenziali, fiaschi impagliati e primi sorsi furtivi di libertà. So solo che al palato avvertivo le sue sfumature amarognole, alcune volte amabili e in certe bottiglie dei sentori dolci, ma sempre fini e delicati. Nemmeno sul suo colore si poteva scommettere: a volte giallo paglierino quasi intenso, altre più trasparente, ma mai torbido. Ci sarebbe da chiedersi perché quella denominazione, tra le più rappresentative del Paese, abbia perso la sua fama. Forse tutto è dipeso dal fatto che già negli anni Cinquanta nelle osterie italiane ne girava di più di quanto le ridenti colline dell’orvietano potessero produrne. La cosa dovrebbe farci riflettere. Ma il vino, si sa, non è soltanto quello che - talvolta con fastidiosa gestualità - volteggia all’interno del bicchiere. Il vino è soprattutto tante storie che vi ruotano intorno, è benessere e prosperità del distretto che lo produce, quadratura di bilanci locali, movimento di turisti e risorsa occupazionale.
Sfoglio alcuni libri ormai rarissimi: “I vini d’Italia” di Luigi Veronelli (1961); “Il libro d’oro dei vini d’Italia” di Cyril Ray (1966); “Vini rossi” e “Vini bianchi e rosati” di Stefano e Alberto Zaccone (1971); “Saper bere - dal Barbera al Whisky”, di Luigi Marinatto e Francesco Zingales (1974); l’”Atlante dei vini d’Italia” (1978), di Burton Anderson. I testi sacri mi confermano che nella storia dei territori consacrati all’enologia, le tre DOC allora riconosciute (Orvieto, Torgiano e Colli del Trasimeno) non meritavano che una fugace menzione. Per assistere al decollo dell’enologia umbra, per lunghi anni connessa a una situazione di abbandono, bisognerà attendere gli anni Ottanta, contrassegnati nella prima metà dalla figura pionieristica di Giorgio Lungarotti e nella seconda dall’exploit del Sagrantino. E’ questa una regione che, per uno scherzo della sorte, si connota d’incomparabili armonie e sfuggenti identità, secondo i fenomeni che più o meno consapevolmente l’attraversano. Il Sagrantino è uno di questi fenomeni, che oggi rappresenta l’Umbria, e la definisce, più di quanto non faccia l’Orvieto. Non è facile stabilire se questo risveglio sia solo merito dei Caprai, o anche dei produttori che hanno seguito il suo esempio. La disputa è aperta. Sta di fatto che Arnaldo, imprenditore tessile prestato all’enologia, ha creduto e investito nella ricerca e nella promozione, dando la prima coraggiosa spallata al mercato, puntando sul figlio Marco, vero elemento trainante per tutta la denominazione e, lasciatemelo dire, per l’economia legata al territorio. In verità non fu solo Caprai a comprendere le potenzialità di questo vino. Per Montefalco fu quello un periodo di grande complicità imprenditoriale, che spinse Arnaldo Caprai a unirsi alle altre aziende storiche: Antonini Angeli Mongalli, Domenico Benincasa, Ruozzi Berretta, Consorzio Agrario di Foligno, Bruno Metelli, Rio Pardi, Antonelli, Adelio Tardioli, Domenico Adanti; tutti produttori che giocarono la scommessa di trasformare in “secco” quello che la tradizione voleva fosse trasformato in “passito”. La caparbietà di questi produttori superò le resistenze di chi non aveva compreso le potenzialità dell’imponete corredo polifenolico di quest’uva a bacca rossa. Fu così che Montefalco, con il suo vitigno autoctono, lanciò la sfida al Barolo, all’Amarone e al Brunello, guadagnandosi un posto di assoluto rilievo nella storia del comparto enologico nazionale. Il Sagrantino è passato dai 100 ettari coltivati nel 2000 ai 600 di oggi e conta su 45 produttori facenti capo ad un consorzio di tutela. Ma soprattutto è entrato con prepotenza nelle grazie di quei consumatori che ricercano nel vino gli elementi misterici capaci di evocare storie e suscitare suggestioni. Oggi, contendendosi gli ultimi fazzoletti di terreno rimasti all’interno dei Comuni di Montefalco, di Giano, di Gualdo Cattaneo e di Bevagna è giunto il Gotha dell’enologia italiana, rappresentato dalla Sai Agricola, dai Lunelli, dai Livon, dai Cecchi e dagli stessi Lungarotti.
Il cuore pulsante di questa straordinaria denominazione si concentra lungo la direttiva che sale da Bevagna a Montefalco. E’ quello di Arquata, Fonte Fulgeri, Campo Letame e Colle Allodole, lo scenario francescano affrescato nel 1451 da Benozzo Gozzoli nella predica agli uccelli, che si può ammirare nella chiesa museo di San Francesco a Montefalco. All’interno di questa conca incontaminata prosperano le vigne delle aziende Adanti, Milziade Antano e Ciro Trabalza. Sul versante che volge a est, si affaccia Collepiano, con il suo secolare querceto circondato dai vigneti di Caprai. Risalendo verso Montepennino, si distendono a tappeto i nuovi impianti di Tiburzi, Goretti e Lunelli, produttori che hanno abbracciato la filosofia di questo lembo di territorio, dove il prezzo della terra, fino a un paio di anni fa, aveva raggiunto cifre esagerate. Proprio all’inizio di questa strada, in agro bevanate, incontro Ciro Trabalza, collega in codici e pandette, custode infallibile delle tradizioni rurali e venatorie della sua terra. La sua azienda di Arquata (ereditata da quel Ciro Trabalza, etnologo di fama mondiale) confina con quella degli Adanti. I tratti vagamente gattopardeschi, uniti al puntiglioso studio delle tecniche agronomiche - non meno di quanto il Principe di Salina studiava il moto perenne degli astri – fanno di Ciro uno di quei vignaioli che sarebbero piaciuti a Mario Soldati. Dalla sua cantina, a conduzione familiare, escono poche bottiglie, da cui Ciro si distacca con dispiacere. Più in là trovo Alvaro Palini, cantiniere, enologo e sarto dai trascorsi parigini, la cui esistenza è legata a quella della famiglia Adanti. Fu Angelo Valentini, enologo dei Lungarotti, che agli inizi degli anni Ottanta presentò Burt Anderson ad Alvaro, con il pretesto di fargli assaggiare il miglior Grechetto della zona. Burton in quegli anni era un critico di vini così importante come oggi lo sono diventati Hugh Johnson e Robert Parker, la cui influenza fu tale da incidere sul mercato vinicolo mondiale. Altro che Grechetto! Anderson fu colpito dal Sagrantino e dal Rosso d'Arquata. Fu così che tra Alvaro e Burton nacque una grande amicizia, suggellata dalla continua presenza di Anderson a Bevagna, Montefalco e al tavolo loro riservato nel ristorante degli amici Sandra e Angelo Scolastra. Oggi Burton ha lasciato lo scettro ad altri colleghi e ad altra filosofia. Sta costruendo il suo “buen retiro” in Maremma e di tanto in tanto viene a trovare Alvaro per assaggiare i suoi vini. Credo di non allontanarmi dalla verità nell’affermare l’influenza che ha avuto Burton Anderson sulla fama acquisita dal Sagrantino, che ebbe modo di far conoscere al mondo, prima che cominciassero a muoversi i soloni del nostro giornalismo enologico. Il resto l’ha fatto Caprai in anni più recenti, mandando a tilt la sua carta Alitalia delle Millemiglia per far conoscere il Sagrantino dalla Germania agli Stati Uniti, dal Giappone alla Cina. Oggi le cose stanno cambiando. Liù Pambuffetti, figlia di Amilcare e futura reginetta di Scacciadiavoli, studia all’Università di Enologia di Bordeaux. Non so quanti illustri rampolli di famiglie legate storicamente al vino facciano altrettanto. Giampiero Bea si fa ritrarre insieme a J. Nossiter, enologo di New York e regista di “Mondovino”, proponendo la sua faccia ai milioni di persone che hanno visto e vedranno i contenuti extra del film che denuncia la globalizzazione dell’industria vinicola. Il messaggio di Bea è lampante e si avvicina alla filosofia neoliberista di Nossiter: il vino è il frutto di un sapere che si trasmette tra padri e figli e la sua cura non va affidata alle decisioni dei soliti consulenti. Ma sono molte le aziende tradizionali che si sforzano di uscire dall’isolamento. Come quella di Luciano Cesarini, ingegnere ed ex capatazze dell’Enel che produce il “Rosso Bastardo” o quella di Filippo Antonelli, erede della nota azienda di San Marco o dello stesso Sindaco di Montefalco, Valentini Valentino (Bocale), che presiede l’Associazione Nazionale delle “Città del Vino” a dimostrazione della notorietà raggiunta nel panorama enologico nazionale dal Comune che egli amministra. Ma le sorprese più incoraggianti vengono da Tabarrini (Colle Grimaldsco) e da Antano (Colle Allodole), piccoli ma preparati imprenditori del settore, in sintonia con il mercato, ma senza far torto alla tradizione. Li ho visti aggirarsi per i padiglioni di Vinataly con padronanza e sicurezza del loro ruolo, corteggiatissimi dalla stampa e dai wine expert a caccia di novità enologiche.
Ad Amelia la fa da padrone il Cigliegiolo. La cantina dei Colli Amerini, con i suoi 700 ettari di vigneti di proprietà dei soci, produce anche La Torretta (Malvasia), il Vignolo (Grechetto), L’Olmeto (Merlot) e vini di grande struttura e longevità come il Carbio (un riuscito uvaggio di Merlot, Sangiovese, Ciliegiolo e Montepulciano) e il Torraccio (un I.G.T. monovitigno di Sangiovese Prugnolo). Sulla strada di Castelluccio Amerino incontriamo il Castello delle Regine, dove si produce un Sangiovese in purezza (Podernovo, Umbria I.G.T.).
L’Umbria è il vostro bicchiere, il cui contenuto liquido va manovrato con cura e attenzione. Solo così i contrasti apparenti e le piccole spigolosità dei suoi vini potranno farsi nel vostro palato note armoniche e lievi. Ma perché riveli il suo sapore eterno bisogna dedicarle tempo e attenzioni. Solo così potrete riconoscere nei suoi vini il vero e proprio ricostituente dell’anima che andavate cercando.
Giovanni Picuti
abcabc@cline.it
Cagliari, Torre dell'Elefante, collezione privata.
Aurelio Galleppini (28 agosto 1917 – 10 marzo 1994), in arte Galep, è il primo e il più famoso disegnatore di Tex Willer.
Nel 2017 ricorre il centenario della sua nascita.
Il quadro (pastello su cartone, cm 36x26) raffigura la Torre dell'Elefante di Cagliari. Galleppini l'ha regalato a mio padre per la recensione di alcuni suoi quadri su "Sardegna Democratica", e "Radio Sardegna" nel 1945, tre anni prima che "nascesse" Tex!
Ecco la descrizione del quadro fatta da mio padre:
"Il motivo del portico immerso nell’oscurità è pretesto ad un’orgia di sole che erompe dall’alto e invade ogni angolo per creare una sensazione di luminosità costante. Non un particolare è indurito nel segno preciso, ma ogni cosa è accarezzata dal tocco sensibile e delicato e costruita col colore. E’ un pulviscolo d’oro vibrante, che la tecnica divisionista salva dalla monotonia e dalla insipienza".
Per approfondire: www.comunecagliarinews.it/news.php?pagina=2120&sottop...
I bianchi credevano che, qualunque fosse la loro educazione, sotto ogni pelle scura si nascondesse una giungla. Acque vorticose non navigabili, babbuini che si dondolavano gridando, serpenti addormentati, gengive rosse pronte a succhiare il loro sangue dolce di bianchi. In un certo senso, pensò, avevano ragione. Più la gente di colore si sforzava di convincerli di quanto fossero gentili, intelligenti e affettuosi, umani, più si usavano a pretesto per persuadere i bianchi di qualcosa che i negri credevano fosse fuori discussione, e più la giungla dentro si faceva fitta e intricata. Ma non era la giungla che i negri avevano portato con sé in quel posto dall'altro posto (vivibile). Era la giungla che i bianchi avevano piantato loro dentro. E cresceva. E si allargava, si allargava prima, durante e dopo la vita, fino a coinvolgere i bianchi stessi che l'avevano creata. Li rendeva crudeli, stupidi, più di quanto non volessero esserlo, tanto erano spaventati da quella giungla di loro creazione. I babbuini urlanti vivevano sotto la loro pelle bianca, le gengive rosse erano le loro.
(Toni Morrison)
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D'accordo, il 17 marzo si festeggiano i 150 anni dell'Unità d'Italia ma non solo. Per smarcarci dal pericolosissimo rischio tricolore deviamo un pochino il fuoco e focalizziamoci su un 2011 tutto all'italiana che non si ferma al 1861. Capsule collection o meno che siano, molti dei brand nostrani festeggiano centenari, anniversari che preannunciano un (gran) bel futuro e rilanci di classici in versione 3.0. E allora, che siano: 10 oggetti must che interpretano (a loro modo) luoghi comuni da amare e buoni propositi da inseguire.
Fare l'inventario. Di nome e di fatto, perché, Inventario, il magazine promosso e sostenuto da Foscarini edito da Corraini, è molto più dell'ennesima rivista di design. È un inventario, appunto, di tutto quello che è l'oggetto: da vivere, conoscere, percepire, studiare. E smontare. Arte-architettura-interior tutto sviluppato in un magazine da collezionare. Il numero 2 parte già con una copertina-dichiarazione: una cover story all'italiana con oggetti che hanno "fatto" il tricolore.
Rimettersi in gioco. Quando i cervelli in fuga si fermano e ci regalano nuovi pretesti per giocare. Per RossoCiliegia i "ragazzi" del Politecnico di Milano hanno rivisitato i giochi da tavolo del passato (dalla dama agli scacchi) e li hanno ricreati con materiale riciclabile (una sottile lamina di acciaio) come il tris di Alessandro Arienti e Alessandro Boni che in versione 3d permette che ci sia sempre un vincitore (da 89 euro).
Nuovo Movimento Italiano. Rafforzarsi e rendersi dinamici: Giovine Italia anche in acqua con il kit da piscina, essenziale nel suo verde/bianco/rosso. In pura filosofia Arena, less is more, le prestazioni aumentano con l'indispensabile: slip in tessuto waternity, occhialini con rivestimento anti-fog e cuffia in silicone senza pvc.
Speak English. Inglese e informatica fin da piccini, così un brand italianissimo come K Way è diventato internazionale con ultima virata nell'hi-tech (boutique multinsensoriale inclusa vedi l'opening a Torino). E se l'impermeabile a marsupio per tutti significa “gita in corso”, ora la versione del giubbino in cui si mixa la classica forma a nuovi materiali, come la pelle ultra leggera e waterproof al nylon Plus, centra in pieno il concetto di urban-couture.
Gran Turismo. Da Nord a Sud passando per le colline più suggestive del mondo. Campanilismo a parte il viaggio in Italia è ancora una volta senza tempo. Anche quando la maison Gucci (che tra poco di anni ne compie 90) customizza con il suo made in Italy un'auto icona come la Fiat 500. E quando crea in perfetto stile Dolce Vita una linea di borsoni e trolley da tradizione del brand ma con accorgimenti-pratici per chi è pronto a riscoprire l'Italia in auto.
Signore si nasce. Anche a 150 anni. Motivo per cui l'investimento in borsa non passa mai di moda, come la Bagonghi, lo storico bauletto stile doctor bag creato da Roberta di Camerino negli anni '50. Per l'occasione la classica lavorazione tromp l'oeil in lino e velluto di seta con cinghie disegnate opta per il tricolore. Perché l'Italia è una madame con voglia di ironia. E colore.
Nuove visioni. Proiettarsi nel dopo 150 anni, guardare al futuro tutto italiano specie se in mano alla nuova generazione di creativi, designer, imprenditori. Trussardi, maison che si è presa tutto il 2011 per festeggiare il suo Centenario, e che nonostante gli anni punta su un team giovane ha lanciato una nuova linea di occhiali, Tru Trussardi Eyewear, rieditando i grandi cult come l'aviator JFK (da 149 euro), ora in versione light.
Riprendersi il tempo libero. Vecchie glorie del tennis italiano anni Sessanta (e anche più) e un classico in cotone piquet che ha introdotto elementi sartoriali anche sul terreno di gioco, in occasione dell'anniversario d'Italia Sergio Tacchini rilancia la sua polo bianca con dettagli tricolore e packaging rétro per un puro omaggio al passato da indossare ancora.
Buon vino non mente. Intenso, vellutato, corposo, appassionato forse uno dei pochissimi vini che da sempre riesce a riassumere tutti questi "complimenti" e che è quasi impossibile da esportare viste le sue radici fortissime nel veronese è l'Amarone. Ancora più vino d'Italia con l'edizione limitata di sole 150 bottiglie da collezione realizzata dall'azienda vinicola Pasqua Vigneti e Cantine (da 89 euro). In alto i calici.
Ieri, oggi, domani. Due generazioni a confronto: una cresciuta con Pasolini che l'Italia l'ha fatta (ritratta-scritta-condannata) e una con chi si è inventato una non-identità per disegnare e cantare il Belpaese, Davide Toffolo cantante dei Tre Allegri Ragazzi Morti e fumettista che firma Pasolini-L'incontro, l'ultima graphic edita da Coconino Press e che a partire dal 17 marzo (al Flog di Firenze) verrà presentata in reading-musicali.
In the Kennedy Space Center’s Press Site auditorium, agency and industry leaders speak to media at a pretest news conference prior to the SpaceX pad abort test of the Crew Dragon spacecraft. From left are: Hans Koenigsmann, SpaceX vice president of Mission Assurance, and Jon Cowart, partner manager for NASA’s Commercial Crew Program. SpaceX will perform the test under its Commercial Crew Integrated Capability (CCiCap) agreement with NASA, and will use the data gathered during the development flight as it continues on the path to certification.
Photo credit: NASA/Kim Shiflett
Chi è Wayne? Il santone, quello che se ti abbraccia, ti fa dimenticare il dolore.
(se non hai visto Leftovers mi stai prendendo per pazza).
Improvvisa voglia di fotografie dopo il pranzo del sabato.
Così, per avere un pretesto in più per farmi abbracciare.
"Il Ranieri fece erigere un monumento alla sorella in camposanto, e fin qui nulla di strano: ma si spinse, lui inveterato mangiapreti, a supplicare e brigare per ottenere che nella chiesa di Santa Chiara, ove son le tombe dei re di Napoli, sorgesse un grande monumento davanti al quale egli spesso si recava non a pregare ma a piangere (secondo l'atto notorio presentato dagli eredi); fece porre un medaglione marmoreo nella chiesa di Piedigrotta col pretesto che la defunta nel 1860 aveva amorevolmente curato i garibaldini feriti nella battaglia del Volturno. L'inventario dell'eredità mostrava poi che fotografie di Paolina, del monumento di Santa Chiara, del medaglione di Piedigrotta pendevano da tutte le pareti della sua casa in via Nuova Capodimnte e della sua casina di Portici, trasformate ambedue in musei nei quali non si poteva toccar nulla per non mutare la disposizione data dalla defunta. E il senatore, gloria partenopea, andava sovente nella casa di via Nuova Capodimonte (quando abitava a Portici) "imaginando di riveder la sorella ed aspettandola ritto a piè della scala, ma, trascorsa l'ora stabilita, rientrava nella vettura e tornava a Portici".
(Mario Picchi, "Storie di Casa Leopardi", Rizzoli)
La foto mostra la memoria con ritratto di Paolina Ranieri (Napoli 1817-Napoli 1878) nella chiesa di Piedigrotta a Napoli, che il destino ha voluto ad un centinaio di metri dalla tomba di Leopardi.
KURSUS ACLS 2018
(Advanced Cardiac Life Support)
TS Yang Terhormat,
Kami mengundang TS untuk mengikuti pelatihan ACLS Perki tahun 2018. Berikut kami informasikan jadwal pelatihan ACLS PERKI tahun 2018,yaitu :
Waktu*:
Periode 1 05-07 Januari 2018
Periode 2 12- 14 Januari 2018
Periode 3 19-21 Januari 2018
Periode 4 26-28 Januari 2018
Periode 5 02-04 Februari 2018
Periode 6 09-11 Februari 2018
Periode 7 16-18 Februari 2018
Periode 8 23-25 Februari 2018
Periode 9 02-04 Maret 2018
Periode 10 09-11 Maret 2018
Periode 11 23-25 Maret 2018
Periode 12 24 - 26 Maret 201
Periode 13 31 - 02 Mar – April 2018
Periode 14 07 - 09 April 2018
Periode 15 21 - 23 April 2018
Periode 16 28 - 30 April 2018
Periode 17 05 - 07 Mei 2018
Periode 18 12 - 14 Mei 2018
Periode 19 19 - 21 Mei 2018
Periode 20 07 - 09 Juli 2018
Periode 21 14 - 16 Juli 2018
Periode 22 21 - 23 Juli 2018
Periode 23 28 - 30 Juli 2018
Periode 24 04 - 06 Agustus 2018
Periode 25 11 - 13 Agustus 2018
Periode 26 18 - 20 Agustus 2018
Periode 27 25 - 27 Agustus 2018
Periode 28 08 - 10 September 2018
Periode 29 15 - 17 September 2018
Periode 30 22 - 24 September 2018
Periode 31 29 - 01 Sep – Okt 2018
Periode 32 06 - 08 Oktober 2018
Periode 33 13 - 15 Oktober 2018
Periode 34 20 - 22 Oktober 2018
Periode 35 27 - 29 Oktober 2018
Periode 36 03 - 05 November 2018
Periode 37 10 - 12 November 2018
Periode 38 17 - 19 November 2018
Periode 39 24 - 26 November 2018
Periode 40 08 - 10 Desember 2018
Periode 41 15 - 17 Desember 2018
Periode 42 22 - 23 Desember 2018
Tempat Pelatihan* :
PERKI HOUSE Jl. Danau Toba No.139 A-C, Bendungan Hilir, Jakarta Pusat
Biaya Pelatihan* :
Rp. 2.750.000 / Peserta
Fasilitas, yaitu :
● Pelatihan ACLS PERKI selama 3 hari (Hari Jumat sampai Minggu)
● Buku Panduan ACLS PERKI (2 Buah) versi bahasa Indonesia (Edisi Terbaru)
● Sertifikat ACLS PERKI (Akreditasi 14 SKP)
● Masa Berlaku Sertifikat 3 tahun
● Konsumsi (1x Lunch + 2x Coffee Break)/hari.
Persyaratan
Yang harus dibawa saat hari H , yaitu :
1. Fotokopi ijazah 1 lembar
2. Foto berwarna ukuran 4x6 sebanyak 4 lembar
3. Bukti transfer biaya pelatihan
4. Soal Pre Test yang sudah dikerjakan (Soal Pre Test ada di dalam paket buku ACLS)
Pembayaran:
Pembayaran dapat dilakukan dengan Transfer via Teller Bank / ATM / Mobile Banking/ Internet Banking ke rekening
MANDIRI KCP Jakarta RS Harapan Kita
No Rek : 117-000654139-5
a/n. YAYASAN PERKI – D
(Sebelum maupun Setelah melakukan transfer pembayaran pelatihan, mohon melakukan konfirmasi pembayaran ke kami agar data dapat diproses)
Materi
Materi yang akan diberikan saat pelatihan meliputi sebagai berikut :
Filosofi BLS , ACLS + Film; BHD Dewasa , AED , RJP Anak dan Bayi , Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Praktek dan Ujian BHD Dewasa, AED, RJP Anak dan Bayi, Choking Dewasa, Anak dan Bayi; Post Test BCLS; Pre Test ACLS; Defribilasi; Perawatan Pasca Henti Jantung; Tata Laksana Jalan Nafas; Skill Station : Teori / Praktek EKG, Teori / Praktek Defribilasi, Teori / Praktek Airway Management; Hipotensi , Shock dan Edema Paru Akut; Sindrom Koroner Akut; Farmakologi dan Therapi; Skill Station :Teori / Praktek VT / VF – PEA – Asistole, Teori / PraktekTakikardi, Teori / Praktek Bradikardi; Skill Station : Kasus Komprehensif (MEGACODE); Ujian Postest; Ujian Praktek RJP berkelompok sebanyak 6 kelompok.
Pendaftaran via SMS/TELP/LINE/Whatsapps 08788-9699-789 Ketik:
ACLS # Tgl Pelatihan # Nama Lengkap # No.Handphone, Kirim ke 08788-9699#7-9
Contoh : ACLS # 6-8 Januari 2017 # Syifa Alia # 08788-9699-789
Permintaan Kelas Kolektif di Jakarta maupun di luar Jakarta dapat menghubungi : (Telp/SMS/WA) 08788-9699-789
Ket (*) : Jadwal & Biaya dapat berubah sewaktu-waktu ,untuk informasi lebih lanjut hubungi : 0878-8969-9789
Karena antusiasme tenaga kesehatan (dalam hal ini dokter) yang tinggi terhadap Kursus ACLS PERKI ini, maka kami secara rutin kami menyelenggarakannya. Untuk beberapa wilayah, kami rutin mengadakannya di setiap bulannya, bahkan ada wilayah yang kami selenggarakan setiap minggunya. Ada pula wilayah yang kami selenggarakan kursus ini setiap 2 bulan sekali. Ini semua tidak terlepas dari tingginya animo dan antusiasme para dokter dan tenaga medis lainnya yang membutuhkan kursus ini.
Untuk Informasi lebih lanjut mengenai Jadwal dan Ketersediaan tempat yang available, silahkan langsung menghubungi 0878-8969-9789 (WA/TELP/SMS).
Kursus ACLS PERKI ini sudah pernah dilaksanakan di hampir semua propinsi, yaitu diadakan di ibukota propinsi. Selain di ibukota propinsi, Kursus ACLS PERKI ini juga dilaksanakan di kota besar lainnya, dan juga di kotamadya/kabupaten lainnya. Hal ini tergantung dari permintaan para dokter, tenaga medis lainnya, atau bisa juga permintaan Rumah Sakit, Klinik, Puskesmas, Dinas Kesehatan, dan juga Instansi dari TNI/POLRI.
Oleh Karena permintaan para dokter dan instansi yang terkait, maka Kami pun menyelenggarakan Kursus ACLS inhouse training (kolektif). Untuk ACLS inhouse training (kolektif), kami mengadakannya di daerah/di lokasi yang lebih mudah dijangkau oleh para peserta.
Berikut adalah daerah-daerah yang pernah diadakan Kursus ACLS PERKI ini. Diantaranya adalah
Aceh,Medan,Padang,Riau,Pekanbaru,Jambi,Palembang,Bengkulu,Lampung,BangkaBelitung,Pangkal Pinang,TanjungPinang,Jakarta,Bekasi,Bogor,Depok,Tangerang,Tangerang Selatan,Cilegon,Yogyakarta,Bandung,Semarang,Cilacap,Purwokerto,Purbalingga,Banjarnegara,Kebumen,Purworejo,Wonosobo,Mungkid,Boyolali,Klaten,Sukoharjo,Wonogiri,Karanganyar,Sragen,Purwodadi,Blora,Rembang,Pati,Kudus,Solo,Yogyakarta,Surabaya,Madiun,Malang,Magelang,Tegal,Cilacap,Banten,Serang,Bali,Denpasar, Nusa Tenggara Timur, Kupang, Nusa Tenggara Barat, Mataram, Pontianak, Palangka Raya,Banjarmasin,Samarinda,Tanjung Selor,Manado,Palu,Makassar,Kendari,Mamuju,Gorontalo,Maluku,Maluku Utara,Sofifi,Papua,Jayapura,Papua Barat,Manokwari,Pandeglang, Lebak, Cilegon, Tangerang Selatan,Bandung, Bekasi, Cikarang, Bogor, Cibinong, Ciamis, Cianjur, Cirebon, Garut, Indramayu, Karawang, Kuningan, Majalengka, Pangandaran, Purwakarta, Subang, Sukabumi, Sumedang, Tasikmalaya, Banjar, Cimahi, Cirebon, Depok,Banjarnegara, Banyumas, Purwokerto, Batang, Blora, Boyolali, Brebes, Cilacap, Demak, Grobogan, Purwodadi, Jepara, Karanganyar, Kebumen, Kendal, Klaten, Kudus, Magelang, Pati, Pekalongan, Pemalang, Purbalingga, Purworejo, Rembang, Semarang, Sragen, Sukoharjo, Tegal, Temanggung, Wonogiri, Wonosobo, Salatiga, Surakarta,Bantul, Kulon Progo, Wates, Sleman, Yogyakarta,Bangkalan, Banyuwangi, Blitar, Bojonegoro, Bondowoso, Gresik, Jember, Jombang, Kediri, Lamongan, Lumajang, Madiun, Magetan, Malang, Mojokerto, Nganjuk, Ngawi, Pacitan, Pamekasan, Pasuruan, Ponorogo, Probolinggo, Sampang, Sidoarjo, Situbondo, Sumenep, Trenggalek, Tuban, Tulungagung Kota Batu, Blitar, Surabaya
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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.
Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.
Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.
Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.
Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.
I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.
Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.
Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.
Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.
La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.
Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.
Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.
Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.
Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.
Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.
A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.
La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.
Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.
In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.
Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.
La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.
Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.
Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.
Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.
L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.
Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.
Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.
Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.
La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.
E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.
Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.
Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.
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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.
Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.
Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.
Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.
Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.
I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.
Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.
Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.
Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.
La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.
Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.
Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.
Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.
Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.
Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.
A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.
La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.
Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.
In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.
Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.
La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.
Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.
Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.
Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.
L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.
Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.
Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.
Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.
La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.
E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.
Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.
Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.
Copyright © Ruggero Poggianella Photostream.
All rights reserved. Please, do not use my photos/videos without my written permission.
Please note that the fact that "This photo is public" doesn't mean it's public domain or a free stock image. Unauthorized use is strictly prohibited. If you wish to use any of my images for any reason/purpose please contact me for written permission. Tous droits reservés. Défense d'utilisation de cette image sans ma permission. Todos derechos reservados. No usar sin mi consentimiento.
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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.
Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.
Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.
Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.
Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.
I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.
Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.
Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.
Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.
La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.
Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.
Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.
Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.
Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.
Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.
A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.
La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.
Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.
In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.
Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.
La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.
Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.
Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.
Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.
L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.
Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.
Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.
Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.
La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.
E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.
Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.
Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.
Non ho bisogno di tempo
Per sapere come sei:
Conoscersi è luce improvvisa.
Chi ti potrà conoscere là dove taci
O nelle ore in cui tu taci?
Chi ti cerchi nella vita
che stai vivendo, non sa
Di te che allusioni,
Pretesti in.cui ti nascondi. Io no.
Ti ho conosciuto nella tempesta.
Ti ho conosciuta, improvvisa,
Nello squarcio brutale
Di tenebra e di luce
Dove si rivela il fondo
Che sfugge al giorno e alla notte.
Ti ho visto, mi hai visto ed ora
Sei così anticamente mia
Da tanto tempo di conosco
Che nel tuo amore chiudo gli occhi
E procedo senza errare
Alla cieca, senza chiedere nulla
A quella luce lenta e oscura.
P. Salinas, La voce a te dovuta
From Wikipedia:
en.wikipedia.org/wiki/Ford_Mustang
The Ford Mustang is a series of American automobiles manufactured by Ford. In continuous production since 1964, the Mustang is currently the longest-produced Ford car nameplate. Currently in its sixth generation, it is the fifth-best selling Ford car nameplate. The namesake of the "pony car" automobile segment, the Mustang was developed as a highly styled line of sporty coupes and convertibles derived from existing model lines, initially distinguished by "long hood, short deck" proportions.
Originally predicted to sell 100,000 vehicles yearly, the 1965 Mustang became the most successful vehicle launch since the 1927 Model A. Introduced on April 17, 1964 (16 days after the Plymouth Barracuda), over 400,000 units in its first year; the one-millionth Mustang was sold within two years of its launch.[5] In August 2018, Ford produced the 10-millionth Mustang; matching the first 1965 Mustang, the vehicle was a 2019 Wimbledon White convertible with a V8 engine.
The success of the Mustang launch would lead to multiple competitors from other American manufacturers, including the Chevrolet Camaro and Pontiac Firebird (1967), AMC Javelin (1968), and Dodge Challenger(1970). The Mustang would also have an effect on designs of coupés worldwide, leading to the marketing of the Toyota Celica and Ford Capri in the United States (the latter, by Lincoln-Mercury). The Mercury Cougar was launched in 1967 as a higher-trim version of the Mustang; during the 1970s, it was repackaged as a personal luxury car.
Lee Iacocca's assistant general manager and chief engineer, Donald N. Frey was the head engineer for the T-5 project—supervising the overall development of the car in a record 18 months—while Iacocca himself championed the project as Ford Division general manager. The T-5 prototype was a two-seat, mid-mounted engine roadster. This vehicle employed the German Ford Taunus V4 engine.
The original 1962 Ford Mustang I two-seater concept car had evolved into the 1963 Mustang II four-seater concept car which Ford used to pretest how the public would take interest in the first production Mustang. The 1963 Mustang II concept car was designed with a variation of the production model's front and rear ends with a roof that was 2.7 in (69 mm) lower. It was originally based on the platform of the second-generation North American Ford Falcon, a compact car.
Eldorado, Kansas Car Show, Sep 2014
Photo by Eric Friedebach
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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.
Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.
Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.
Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.
Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.
I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.
Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.
Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.
Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.
La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.
Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.
Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.
Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.
Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.
Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.
A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.
La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.
Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.
In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.
Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.
La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.
Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.
Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.
Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.
L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.
Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.
Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.
Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.
La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.
E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.
Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.
Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.
A woman shells maize cobs during pretesting for the survey “Adoption of Improved Maize Varieties and the Impact of Community Based Seed Production in the Hills of Nepal” in Kavre district, Nepal. The family belongs to Nepal’s Janajati indigenous community.
Subash S.P./CIMMYT
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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.
Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.
Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.
Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.
Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.
I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.
Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.
Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.
Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.
La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.
Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.
Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.
Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.
Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.
Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.
A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.
La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.
Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.
In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.
Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.
La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.
Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.
Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.
Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.
L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.
Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.
Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.
Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.
La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.
E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.
Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.
Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.
ROMA ARCHEOLOGIA e RESTAURO ARCHITECTURA: M. Ceccaioni | P. Giannone, "Progetti all'italiana - Roma, Metro Linea C, working progress fino a piazza Venezia?" di ROMA (18|09|2013) & M. Lilli, Il Fatto Quotidiano (16|08|2014).
-- M. Ceccaioni | P. Giannone, "Progetti all'italiana - Roma, Metro Linea C, working progress fino a piazza Venezia?" di ROMA (18|09|2013).
Roma, Metro Linea C - Si arricchisce di nuove puntate la telenovela della terza metropolitana di Roma, a 25 anni dalla progettazione, è in costruzione da 7 anni e costata per ora quasi 3 miliardi di euro. Ridiscusso il vecchio tracciato, scompare la tratta T2 fino a Vigna Clara, ma rispunta la stazione Venezia, con i timori per il Colosseo
di Maurizio Ceccaioni
«Puntata 11.500 della telenovela sulla Metro C: riassunto delle puntate precedenti… ». Così potrebbe cominciare la serata in un ordinario salotto di una surreale città. Ma qui siamo a Roma, la capitale d’Italia, il centro del potere politico e quello della Metro C è solo uno dei tanti problemi sottostimati di questa città, piena di contraddizioni, di apparenti “non sensi”. Come il “Sottopasso di Castel Sant’Angelo”, il Piano regolatore Generale, i cambi di destinazione d’uso di milioni di metri cubi di costruzioni appena realizzate, uso sconsiderato del territorio. Ma pure per i repentini cambi di percorso della B1 e per quella linea D rimasta nei cassetti di Roma Metropolitane a vantaggio della Metro C. Già, quella nuova linea della metropolitana di Roma «destinata ad aggiudicarsi il record dell'opera pubblica più costosa e più lenta d'Europa», come ne aveva abbondantemente scritto sul Corriere della Sera, Sergio Rizzo. Pronto a capire i retroscena di questa opera nata già vecchia, in un suo articolo profeticamente chiosava: «Se mai si completerà», specie alla luce dell’adeguamento del contratto del 12 ottobre 2006, in seguito alla Delibera Cipe n° 127 dell’11 dicembre 2012.
Appunto, se mai si completerà; perché nonostante i continui colpi di scena (o di “sceneggiata”), pare riprendere vigore quel problematico tracciato sotterraneo tra i reperti della Roma Imperiale e i fiumi sotterranei, di cui si preoccupava Angelo Bottini, per 5 anni a capo della Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma, che nel dicembre 2007 aveva evidenziato a Roma Metropolitane, la delicatezza del cantiere di piazza Venezia, al centro della città storica, per il quale si dovevano adottare «tutte le tecniche disponibili per garantire la tutela del patrimonio archeologico, indipendentemente dai loro costi e dai tempi».
Metro C piazza VeneziaUna telenovela, dicevamo, dove l’ex sindaco Alemanno, a febbraio 2012 si dichiarava convinto dell’arrivo fino al Colosseo, ma con dubbi sul resto del percorso fino a Vigna Clara, non per la staticità degli edifici storici sul percorso Venezia-Ottaviano, ma per mancanza di copertura finanziaria da parte del Cipe. Soldi che qualcuno, come Federico Bortoli, amministratore delegato di Roma Metropolitane, pensò di poter trovare in un project financing, con eventuale contropartita, pure le dismesse caserme del Flaminio, che i cittadini vogliono trasformare in servizi al territorio.
C’è una Roma scomparsa che però nemmeno Roesler Franz, con i suoi acquarelli, ci potrà ridare. È quella dello sbancamento della collina “Velia” (o Veliae), tra Colle Oppio, Esquilino e Palatino, per fare via dei Fori Imperiali, tra piazza Venezia e Colosseo, su cui si affacciano i resti del tempio di Venere e della Basilica di Massenzio. Qui si è pensato di realizzare la stazione omonima della linea C, per la quale «saranno scavati circa 150.000 metri cubi di terra», com’è scritto sul cartello che delimita il cantiere.
Da parte di associazioni, urbanisti, geologi e archeologi, si teme per i monumenti, come il Colosseo, dopo la decisione di arrivare fino a piazza Venezia. Secondo il nuovo cronoprogramma, il 20 settembre 2013 Roma Metropolitane deve emettere le linee guida per la progettazione definitiva della tratta Fori Imperiali/Colosseo-Venezia (circa 700 m). Nei successivi tre mesi Metro C Spa deve fare la progettazione definitiva con le indagini ed entro il 17 aprile deve essere approvato da Roma Metropolitane il progetto definitivo e inviato al Ministero per indire la successiva Conferenza dei servizi.
Sarà invece “congelata” la tratta T2 fino a Vigna Clara. Ma se dopo la ripresa dei lavori per il sindaco Ignazio Marino questa è «una buona notizia per i romani», dovrebbe essere il colpo di grazia a quella variante verso il Circo Massimo, sostenuta da molti docenti e urbanisti, certamente non rassegnati. Come Paola Giannone, laurea in Architettura a Valle Giulia e una specializzazione in “Studio e Restauro dei Monumenti” nella sede di Roma dell'International Centre for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property, dell’Unesco.
Linea C Crepe al Colosseo foto Giannone, Impegnata da tempo contro la realizzazione della tratta T3/T2 della linea C, quello della Giannone non è un «no alla modernità», ma con lo scavo di quel tunnel ferroviario in un sottosuolo stratificato nei secoli e pieno di fiumi sotterranei, il suo pensiero va alla salute del Colosseo e delle aree archeologiche limitrofe. «Molti frammenti architettonici che adornano l’Anfiteatro Flavio stanno per cadere per le pessime condizioni in cui è stato lasciato il monumento negli anni e sono ben visibili anche dal basso, le profonde crepe verticali e orizzontali, probabilmente causate da un eccesso di carico nell'ultimo livello del Colosseo» (foto di Paola Giannone). Affermazioni documentate con una serie di foto, inviate con Cd e “nota di deposito” al procuratore regionale della Corte dei Conti del Lazio, Angelo Raffaele De Dominicis e al presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino.
Da quanto presentato, si evince che con lo scavo si dovrebbe asportare in particolare un banco argilloso sottostante i 13 metri di galleria, che farebbero da impermeabilizzazione all’area, col rischio di cedimenti strutturali. Cedimenti che si aggiungerebbero alla situazione pregressa, come testimoniano i pezzi di cornice di marmo già caduti. «Ma le crepe sono visibili un po’ ovunque - dice l’architetto - dai mattoni in cotto ai rivestimenti in marmo, alla struttura portante dei conci degli archi».
Per questo, con alcune petizioni si è rivolta alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica. Ma pure alla comunità internazionale, per chiedere al “Comitato del Patrimonio mondiale dell'Unesco”, di prendere posizione contro la costruzione della Metro C sotto il sito archeologico del "Foro romano". Aree dichiarate «Patrimonio mondiale dell’umanità», messe a rischio per questi lavori, già autorizzati dal 15 aprile 2013. L’Unesco, tutelerà questi beni?
FONTE | SOURCE:
-- M. Ceccaioni | P. Giannone, "Progetti all'italiana - Roma, Metro Linea C, working progress fino a piazza Venezia?" di ROMA (18|09|2013).
www.di-roma.com/index.php/costume-a-societa/item/622-prog...
FONTE | FOTO SOURCE:
-- M. Ceccaioni | P. Giannone, "Progetti all'italiana - Roma, Metro Linea C, working progress fino a piazza Venezia?" di ROMA (18|09|2013).
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-- M. Ceccaioni, Opere pubbliche e Metro C: stop all'essere presi in giro, di ROMA (2013[?]).
Roma, Metro C, costi esorbitanti, lavori senza fine, il potere di alcune lobby che hanno in mano la politica nostrana, così la nuova linea della ferrovia sotterranea capitolina ha la stessa storia di tante opere italiane dai costi stratosferici e dai tempi biblici necessari al completamento, con fine degli interventi che, in molti casi, è ancora molto lontana e sempre rimandata. Intanto, questo abnorme spreco lo paghiamo tutti
di Maurizio Ceccaioni
Ci risiamo: nel paese dell’incertezza su tutto, l’unica certezza che pare rimanere incontaminata è quella delle lobby. Mancano i soldi per la Sanità, ma si comprano costosissimi super aerei da combattimento che pare (ma solo pare) siano una bufala. Non ci sono nelle banche i soldi per rilanciare l’economia spicciola o per la piccola e media impresa, ma si fanno prestiti plurimilionari e, come ci ha dimostrato poi la realtà, inesigibili, agli “amici degli amici”, che stanno portando avanti progetti speculativi o facendo cordate modello “Capitani coraggiosi”, magari con la scusa di salvare una compagnia aerea “di bandiera” o per fare qualche lotto di metropolitana, sempre con la certezza di poter poi realizzare ricche super cubature per box auto, negozi e centri commerciali in situ.
In campo informatico, ci spiegavano i professori, si ragiona in termini binari: un modo apparentemente semplice ma esatto che, con una sequenza di zero e uno, permette di formare parole, numeri, figure, lanciare nello spazio satelliti e fare calcoli difficilissimi in poco tempo. La logica umana è invece più complessa e variegata, razionale ma con una forte componente creativa. Una forma di creatività che potremmo definire “strutturata”, che in molti uomini e donne “di potere”, è più di un grimaldello nelle mani di un ladro. Perché per questi esseri “fortunati”, quel potere, associato alla loro inesauribile creatività, diventa una sorta di “segreto del Pozzo di San Patrizio”, tanto che permette loro di fare sempre più e diversificati ragionamenti, per così dire, redditivi: tanto redditivi.
Metro C a Piazza VeneziaSe il codice Binario, con i suoi zero e uno, ragiona come se ci fossero solo il bianco e il nero, senza sfumature di grigi, nella logica umana invece le sfumature ci sono tutte. Perché si è detto, è una logica “creativa”, che permette a molti personaggi della casareccia élite dei nostrani imprenditori, di ottenere potere e soldi pubblici grazie alle amicizie giuste. Perché il nostro è il paese dei “Capitani coraggiosi”, quegli imprenditori nostrani che grazie a una certa politica, si sono costruiti un impero economico coi soldi pubblici, rischiando ben poco del loro. Gente che ha - per così dire - accompagnato la mano di chi doveva scrivere gli articoli dei Piani regolatori degli ultimi 100 anni, che grazie agli appoggi giusti si è impossessata di milioni di ettari di terreni (anche in parchi e riserve naturali) e metri cubi di edifici spesso ex pubblici. Territori e manufatti lasciati in eredità dai nostri avi, le nostre riserve di aria, di acqua, i nostri paesaggi e in tal senso hanno anche in mano le sorti della nostra vita e il futuro delle generazioni che verranno. Mettendo a caro prezzo queste aree sul piatto della bilancia nelle trattative coi governi locali, ottengono di fare sempre nuovi insediamenti abitativi con case tutte uguali, in quartieri satellite “fotocopia”, dove il centro commerciale ne sarà la moderna agorà e dove - a spese della collettività - un domani arriveranno i servizi e i mezzi pubblici, tanto, anche se le case rimarranno invendute, si porteranno a bilancio come “attivi”.
Metro C Torre medievale Ardeatina 2Con questo gioco al massacro Roma "Caput Mundi" è assediata da colate di cemento, dentro e fuori del Grande Raccordo Anulare, passando sopra e sotto resti archeologici e monumenti storici.
Scompaiono così i paesaggi della campagna romana con le torri medioevali (come tra Laurentina e Ardeatina) e la vista sugli acquedotti rimasti, forse, solo nei poetici acquerelli di Ettore Roesler Franz.
Metro C Cantieri Nuovi quartieri di quella città metropolitana che ha ormai reso Roma e i Castelli romani un tutt’uno. Ma se per un verso questi sono degli investimenti finanziari e speculativi, per migliaia di giovani coppie e neo pensionati, possono rappresentare la casa della vita: costi quel che costi. Perché i prezzi sono minori allontanandosi dall’Urbe e poi c’è una frase magica che catalizza l’attenzione sulle pubblicità: «…Accanto alla fermata della metro…».
Un esempio è la zona sud, tra Casilina e Prenestina, dove si attende da anni l’attivazione della Metro C. Ma sebbene i nuovi quartieri siano stati fatti e il valore delle case e dei terreni lievitato proprio in funzione dello scambio su ferro, la terza metropolitana di Roma Capitale sta vivendo la stessa esperienza della Tav, della “Variante di valico”, delle piscine dei mondiali di nuoto a Roma del 2009, dei Mondiali di calcio del 1990, del G8 a La Maddalena, del Ponte sullo Stretto di Messina, del Sottopasso di Castel Sant'Angelo, della Salerno-Reggio Calabria, delle carceri costruite e mai aperte per mancanza di personale, degli ospedali realizzati, attrezzati e lasciati in abbandono nelle mani dei vandali e tante altre ancora. Tutte queste opere hanno un fattore comune: sono in cantiere da decenni e sono costate (e costeranno) centinaia di miliardi presi dalle casse pubbliche, cioè a noi cittadini.
Ma se non si trovano i soldi per la Sanità pubblica, per la benzina delle auto di Polizia e Carabinieri, per monitorare e intervenire su un territorio che sta franando a ogni temporale, né per rifare l’asfalto alle disastrate strade cittadine o per svuotare i tombini stradali o pulire i fossi per impedire le ordinarie alluvioni di intere zone, per altri scopi questi denari escono ugualmente e tanti.
Metro C Marino-CaudoPer esempio, se il potere dei signori dalla “cazzuola d’oro” interviene e fa sentire il suo peso, in risposta la politica - di ogni colore e in ogni stagione della nostra vita - esegue. Allora escono fuori varianti in corso d’opera e revisioni progettuali perché, magari, ci si è accorti - parlando della Metro C - che sotto Roma c’è un’altra Roma: quella dei nostri avi. Così, con una spesa doppia rispetto al preventivo, di un progetto che nelle intenzioni originarie avrebbe dovuto servire per i pellegrini dell’Anno Santo del 2000, a oggi ne è stato realizzato solo meno della metà. Vai a spiegare alla gente che ha comprato casa sulla Casilina fuori Gra perché pubblicizzavano l’imminente apertura della Metro C, che di acqua sotto i ponti, come il fiume di soldi pubblici ancora da spendere, ne deve passare ancora molta. Intanto il Governo, con il decreto «Sblocca Italia», ha deciso il finanziamento della tratta della metro C da San Giovanni a piazza Venezia, nonostante le serie problematiche evidenziate, anche a livello mondiale, sulle sorti del Colosseo e del Foro romano, facendo felice il nostro sindaco “bonaccione”, Ignazio Marino e l’assessore all’Urbanistica, Giovanni Caudo.
FONTE | SOURCE:
-- M. Ceccaioni, Opere pubbliche e Metro C: stop all'essere presi in giro, di ROMA (2013[?]).
www.di-roma.com/index.php/2011-07-25-15-57-21/943-opere-p...
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-- Manlio Lilli, "Archeologia e metro C: il paradosso renziano degli scavi blocca-cantieri," Il Fatto Quotidiano (16|08|2014).
IL colmo è che si bloccano i lavori perché si trovano dei reperti archeologici. Questo è un paradosso. In tutto il mondo le risultanze degli scavi archeologici permettono ai passeggeri delle metropolitane di godere di cose delle quale altrimenti non avrebbero potuto vedere. Torino, Roma con l’operazione della linea C, e Palermo sono realtà che accederanno al finanziamento delle linee metropolitane”. Renzi lo ha dichiarato a Napoli nel bel mezzo del suo tour al Sud. L’ormai famoso Decreto sblocca-Italia passa anche da questo. E’ ormai chiaro. Le Soprintendenze dovranno dare l’autorizzazione paesaggistica in tempi certi o scatteranno procedure sostitutive. Non solo. Per la conferenza di servizi si sta mettendo a punto una norma che superi il dissenso e la definizione in termini di validità per la raccolta degli atti. Con questo capitolo l’Italia delle opere ferme al palo scatterà in avanti. Si sistemerà quanto già iniziato. Soprattutto, si creeranno le condizioni perché i tempi previsti per i cantieri non siano solo un auspicio destinato ad essere deluso.
Il programma di Renzi non ammette intoppi. Le lungaggini vanno superate con un decisionismo improntato al “tutto e subito”. Vanno spezzate catene che hanno impedito per troppo tempo di avanzare nel cambiamento. Di produrre futuro. Troppi cantieri dal Veneto alla Sicilia hanno subito le politiche imposte dalle Soprintendenze. Con il risultato che indagini archeologiche, nelle intenzioni preliminari, hanno finito per diventare scavi interminabili. Che hanno comportato non solo la sospensione dell’opera di turno da realizzare, ma anche una lievitazione senza misura dei costi. Renzi ritiene che queste siano le procedure che in tanti casi hanno decretato il “non finito” che si vede in ogni angolo d’Italia. Questo il dato certo. A differenza di quel che riguarda gli elementi che debbono avergli suggerito questa posizione, per così dire, critica.
Perché è vero che si possono richiamare esempi di situazioni nelle quali le Soprintendenze, a partire da quelle archeologiche, hanno assunto un atteggiamento oltremodo intransigente. Verrebbe da dire, zelante oltre misura. Ma è pur vero che quei casi estremi costituiscono un numero ben esiguo rispetto a quelli nei quali si è solamente tentato di non far cancellare, impunemente, testimonianze di estremo rilievo. Senza contare le circostanze, tutt’altro che episodiche, nelle quali l’archeologia, a dispetto di quanto identificato, è stata trattata senza alcun riguardo. Necropoli e singole tombe, strade basolate e semplici tracciati “battuti”, edifici termali e impianti produttivi, villae e luoghi di culto, vaste opere di bonifica idraulica e più modesti sistemi di smaltimento e/o irregimentazione delle acque. Non esiste città italiana o parte di territorio che non abbia sacrificato frammenti della sua Storia alla costruzione di nuovi quartieri e infrastrutture viarie.
A Roma, la realizzazione di Tor Bella Monaca ha cancellato quasi completamente il popolamento antico del centro di Collatia, noto attraverso le ricerche di Lorenzo Quilici e più recentemente la stessa sorte è toccata a la Bufalotta, costruita su una parte di territorio dell’antica Fidenae. Che dire poi dei Colli Albani, zona residenziale a breve distanza da Roma, nella quale il fenomeno soprattutto delle seconde case, ha fatto quasi tabula rasa del sistema di insediamenti sviluppatosi in età romana? Per decenni i ritrovamenti occasionali, hanno costituito un trascurabile “spauracchio”.
Poi con l’archeologia preventiva le cose sono un po’ cambiate. Ma il suo potere, generalmente, ha continuato ad essere oltremodo marginale. Come detto, a parte pochi, circoscritti, casi. Semmai è vero che in non poche occasioni l’archeologia è diventata una sorta di pretesto. Il parafulmine sul quale scaricare ogni colpa. Il sistema italiano ha prodotto l’infinità di cantieri avviati e mai terminati. Non certo il potere dell’archeologia. Se non fosse così la lista di strade e ponti, palazzetti dello sport, teatri, parcheggi e ospedali e molto altro sarebbe risultata meno lunga. Se non fosse così nel capitolo “Territorio e reti” del Rapporto 2013 del Censis, una parte importante non sarebbe stata dedicata “ai ritardi ed alle incompiutezze ed al lungo travaglio dei grandi progetti urbani all’epoca della crisi”.
Il rapporto descrive ventidue casi esemplari, dimenticandone altri importanti come quello romano di Acilia, in cui i lavori non sono mai partiti o si sono interrotti o i progetti sono rimasti sulla carta. In quei casi nessun ritrovamento archeologico è intervenuto a sovvertire cronoprogrammi o a mandare fuori controllo le risorse stanziate. Così appare fuorviante ritenere che la linea C della metro romana viaggi tra ritardi ed incertezze a causa delle indagini archeologiche. Che, a parte il caso di piazza Venezia dove si sono scoperti i resti del cosiddetto auditorium di Adriano, non risulta abbiano costretto a sostanziali modifiche del progetto iniziale. Nonostante in alcune circostanze i rinvenimenti siano stati tutt’altro che trascurabili. Come accaduto per esempio nel cantiere di via La Spezia.
Renzi ha ragione a sostenere che solo grazie agli scavi per la Metro quei documenti del passato sono riapparsi. Ma non si può negare che ogni scavo è a tutti gli effetti un’operazione distruttiva. Proprio per questo motivo sembra improprio voler intervenire sulle modalità e i tempi delle indagini. Senza contare che tutto questo sembra essere in contraddizione con una delle norme che dovrebbero entrare nello sblocca-Italia. La disciplina per agevolare la valorizzazione dei beni archeologici che vengono ritrovati durante gli scavi o i lavori di opere pubbliche. Il timore che la valorizzazione non preveda che una tutela parziale di quanto ritrovato, è forte. Una tutela peraltro nella quale il discrimine tra bene da conservare e quello da consegnare alle ruspe appare indefinito. La sensazione è che, aldilà delle nuove regole, a difettare sia la cultura del Paese. La capacità di decidere con uniforme serietà.
Alcuni giorni fa, in un’intervista al Financial Times, l’ex sindaco di Firenze, ha dichiarato, “Il Paese non l’ho distrutto io, non faccio parte del sistema”. In questi decenni nei quali il Paese si è arricchito di ponti sospesi nel nulla, di ospedali completati ma mai entrati in funzione, di dighe interrotte a metà, della Salerno-Reggio Calabria un cantiere mai finito, il “sistema”, secondo la definizione del segretario del Pd, si è quasi uniformemente schierato contro l’archeologia. Additando nelle ricerche scaturite dai rinvenimenti, il motivo di ritardi e interruzioni. Per essere davvero “un uomo solo”, come si definisce Renzi, il suo un atteggiamento, almeno in questo settore, appare abbastanza allineato.
FONTE | SOURCE:
-- Manlio Lilli, "Archeologia e metro C: il paradosso renziano degli scavi blocca-cantieri," Il Fatto Quotidiano (16|08|2014).
www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/16/archeologia-e-metro-c...
"[...] Solo della compagnia, Des Esseintes aveva incoraggiato quel matrimonio, non appena aveva sentito che la fidanzata di D'Aigurande desiderava abitare una casa d'angolo sui nuovi grandi passeggi; uno di quegli appartamenti a rotonda venuti allora di moda,[...] vedendo in quella unione una fonte infinita di ridicoli guai.
I fatti gli avevano dato ragione. D'Aigurande acquistò mobili adatti al nuovo ambiente: mensole curve, montanti per tendine ad arco, tappeti foggiati a mezza luna; tutto insomma un arredamento eseguito su commissione.
Spese il doppio che per ammobigliare un appartamento normale; e quando la moglie, a corto di danaro per rifornirsi il guardaroba, si stufò di abitare quella rotonda e volle una casa meno cara e come tutte le altre, si vide che nessun mobile stava in piedi né si inquadrava col nuovo ambiente.
Poco alla volta, l'ingombrante mobilio divenne una fonte inesauribile di contrarietà; l'affiatamento tra i coniugi, già pregiudicato dalla vita in comune, s'andò di settimana in settimana sbriciolando. Seguirono scenate: l'uno buttava in faccia all'altro che era impossibile restare in un salotto dove mensole e divani non appoggiavano alla parete, per cui bastava scontrarle perchè, nonostante le zeppe, traballassero. Per fare delle riparazioni, del resto pressochè impossibili, mancava danaro. Tutto divenne pretesto a acrimonie, a battibecchi; tutto, dai tiretti che nei mobili male a piombo non chiudevano più, ai ladrocinii della donna che profittava delle dispute tra i padroni per allegerire, non vista, la cassa.
In breve: tra i due la vita divenne intollerabile. Lui cercò distrazioni fuori di casa; lei, nelle risorse dell'adulterio, l'oblio di una esistenza grigia e piatta.
Di comune accordo, disdissero la locazione e chiesero divorzio.
"Non m'ero ingannato nel mio piano" si disse Des Esseintes con la soddisfazione dello stratega che vede riuscire la sua manovra..."
J.K. Huysmans, "A Rebours", 1884
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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.
Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.
Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.
Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.
Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.
I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.
Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.
Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.
Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.
La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.
Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.
Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.
Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.
Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.
Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.
A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.
La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.
Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.
In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.
Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.
La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.
Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.
Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.
Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.
L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.
Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.
Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.
Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.
La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.
E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.
Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.
Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.
Copyright © Ruggero Poggianella Photostream.
All rights reserved. Please, do not use my photos/videos without my written permission.
Please note that the fact that "This photo is public" doesn't mean it's public domain or a free stock image. Unauthorized use is strictly prohibited. If you wish to use any of my images for any reason/purpose please contact me for written permission. Tous droits reservés. Défense d'utilisation de cette image sans ma permission. Todos derechos reservados. No usar sin mi consentimiento.
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All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.
Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.
Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.
Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.
Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.
I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.
Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.
Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.
Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.
La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.
Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.
Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.
Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.
Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.
Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.
A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.
La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.
Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.
In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.
Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.
La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.
Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.
Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.
Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.
L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.
Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.
Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.
Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.
La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.
E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.
Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.
Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.
Copyright © Ruggero Poggianella Photostream.
All rights reserved. Please, do not use my photos/videos without my written permission.
Please note that the fact that "This photo is public" doesn't mean it's public domain or a free stock image. Unauthorized use is strictly prohibited. If you wish to use any of my images for any reason/purpose please contact me for written permission. Tous droits reservés. Défense d'utilisation de cette image sans ma permission. Todos derechos reservados. No usar sin mi consentimiento.
© Copyright: Você não pode usar !
© Copyright: Sie dürfen es nicht kopieren !
© حقوق النشر محفوظة. لا يمكنك استخدام الصورة
All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore nel suo antico ventre, si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall'omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.
Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un'antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant' Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.
Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l'antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.
Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile. Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare. Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.
Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.
I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo. I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.
Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.
Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali. All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.
Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.
La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime. Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.
Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.
Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.
Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.
Particolare e ammicante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.
Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.
A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.
La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.
Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori. L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.
In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.
Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione. La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta. La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.
La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce. Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile. Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.
Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.
Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.
Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili. Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.
L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.
Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.
Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.
Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno. La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”. La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.
La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.
E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”. “Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.
Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.
Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmati e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina. Ogni giorno questo mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.
Tirare
Vocabolario on line
tirare v. tr. e intr. [lat. *tirare, di etimo incerto]. –
1. tr.
a. Applicare una forza a un oggetto per metterlo in movimento o per spostarlo, per modificarne la forma, ecc.: t. su, giù (v. anche oltre, al n. 3 b); t. la tenda, con movimento laterale in modo da coprire il vano della finestra; t. la corda della campana, la catena dello sciacquone, la maniglia della porta; t. una barca a terra, in secco; t. la fune; t. la cinghia dei pantaloni (e assol., in senso fig., t. la cinghia, soffrire la fame: v. cinghia); t. la barba, la giacca a uno; t. uno per la giacca, per la barba, per i piedi; t. uno da una parte; t. il collo a un pollo, per ucciderlo; t. le reti, raccoglierle dopo averle gettate, per catturare la preda; t. i remi in barca, anche in senso fig. (v. remo, alla fine della voce); assol., tira e molla (v. tiremmolla). Il movimento s’intende per lo più rivolto verso la persona che esercita la forza quando essa si consideri ferma (un movimento in senso contrario s’indicherebbe col verbo spingere; e in questo senso vanno intesi i due verbi tirare, spingere che sono talora segnati sui due lati di alcune porte d’ingresso); più esplicitamente, t. a sé (la porta, il cancello, l’imposta, ecc., o anche qualcuno). Se la persona che fa forza si considera in movimento, s’intende che l’oggetto su cui esercita la trazione venga dietro (anche qui contrapp. a spingere): t. il carretto, quando questo segue (spingere il carretto, quando il carretto sta innanzi); e di bestie attaccate a veicoli: i buoi tirano l’aratro; la carrozza era tirata da quattro cavalli; anche in questo caso la direzione può essere messa in particolare rilievo con l’avv. dietro e la particella pron.: tirarsi dietro un carretto; uscì in gran fretta tirandosi dietro la porta (per altri usi dell’espressione tirarsi dietro, v. oltre, al n. 3 i). Col sign. più generico di spostare, mutare di posto: qui il tavolo impiccia, bisognerebbe tirarlo più in là, più in avanti, un poco più a destra (in casi simili s’intende per lo più che lo spostamento avvenga trascinando il mobile, senza sollevarlo da terra); tira via quel piede; tirarsi da parte, tirare qualcuno da parte, ecc.
b. Con riferimento a oggetti deformabili (spec. metalli), ridurli in forma allungata, mediante trazione: t. l’oro in fili; per fregiar più nobili armature, Tirar lame d’acciar, fila d’argento (Caro). Con sign. più ampio, nell’uso fam., t. la pasta, t. la sfoglia, distendere l’impasto per ottenere la sfoglia.
c. Riferito a oggetti filiformi, o comunque estesi in lunghezza, tenderli: t. un filo, tra un palo di sostegno e l’altro; t. le corde di uno strumento, di un meccanismo; fig., t. la corda, t. troppo la corda, eccedere in sforzi soprattutto a danno della propria salute, o anche, con altro senso, insistere troppo in una richiesta, rischiando così di non ottenere nulla (soprattutto in frasi negative: non tirare troppo la corda!).
d. Tracciare, disegnare, nelle espressioni (dell’uso com., ma non tecniche) t. una linea (cfr. tiralinee), t. una perpendicolare a una retta data, e sim.; per estens., t. un muro, costruirlo, quando abbia sviluppo lineare.
e. Trarre a sé, immettere aria o altri aeriformi, soprattutto nei polmoni, inspirando o aspirando, oppure liquidi, ingerendoli succhiando o assorbendoli: t. una boccata di fumo, dalla sigaretta o dal sigaro, dalla pipa; t. una striscia di cocaina, aspirarla con le narici; t. il fiato, inspirare o, più genericam., respirare (e in usi estens. e fig., prendersi una breve pausa di riposo, di pace, un po’ di tempo in più: lasciami t. il fiato); t. il respiro, respirare profondamente (anche in usi fig.: t. un respiro di sollievo, liberarsi da un pensiero, da una preoccupazione assillante); il bambino s’è attaccato al petto e sentissi come tira il latte! (più spesso, assol., come tira).
f. Lanciare, scagliare, gettare con forza lontano, in una determinata direzione, sia con le mani e le braccia o con i piedi, sia con strumenti e mezzi varî: t. un sasso (o estens. una sassata), t. pietre; t. frecce con l’arco, dardi con la balestra, proiettili con la fionda, e t. frecciate (anche in senso fig., v. frecciata); t. un coltello, un’accetta; t. pugni, schiaffi, calci; t. la palla, il pallone, lanciarli (e assol., nel calcio, t. in porta, in rete o a rete, effettuare un tiro contro la porta avversaria); t. un rinterzo, un rinquarto, e con uso intr. t. di rinterzo, di rinquarto, nel gioco del biliardo; t. i dadi; t. una carta, in una partita di carte, metterla in tavola; t. fiori, confetti, e in usi estens. e fig.: t. baci, far vista di lanciarli con la punta delle dita; t. peti; t. moccoli, bestemmie. In partic., riferito ad armi bianche o da fuoco, vibrare o fare esplodere un colpo: t. un colpo di coltello al ventre, un colpo di sciabola al fianco, e t. una coltellata, una sciabolata, un fendente; t. un colpo di fucile, di rivoltella, di cannone, e t. una fucilata, una revolverata, una cannonata; t. una bomba a mano. Con uso assol., quasi intr., riferito ad armi bianche: t. di scherma, t. di sciabola o di fioretto, come attività sportiva; riferito invece ad armi da fuoco, sparare: t. alla selvaggina, e t. a fermo, a volo, al frullo; t. col fucile, con la carabina, con la pistola; t. a segno, colpire giusto o praticare il tirassegno; t. bene, male; con il soggetto dell’arma: una carabina che tira con grande precisione; un cannone che può t. a venti chilometri. Analogam., t. di boxe, fare del pugilato.
2. tr., fig.
a. Nel ciclismo, t. il gruppo, t. un compagno di squadra, e assol. tirare, mettersi alla testa, immediatamente avanti, con la ruota posteriore quasi a contatto di quella anteriore di chi segue, in modo da agevolarlo fendendo l’aria e diminuendo lo sforzo che deve fare per vincerne la resistenza; t. la volata al caposquadra, precederlo a ruota nella volata finale, fino a cento o duecento metri dal traguardo.
b. Attirare, portare con sé o a seguito di sé: una parola tira l’altra, di discussioni che si fanno sempre più accese e degenerano in litigi; una ciliegia tira l’altra, espressione prov. riferita a fatti e atti che avvengono o si compiono ripetutamente, di seguito: i baci (o le disgrazie, ecc.) sono come le ciliegie, una tira l’altra.
c. Indurre, spingere a comportarsi e agire in un determinato modo: Che i più tirano i meno è verità (Giusti); Signor mio caro, ogni pensier mi tira Devoto a veder voi (Petrarca); nell’uso ant., attirare, attrarre: come la calamita tira il ferro (Sacchetti); verso Dio Tutti tirati sono e tutti tirano (Dante).
d. Ricavare, trarre qualcosa da un’altra cosa: t. il sugo, da carni cotte a fuoco lento; t. (ma più com. trarre) vantaggio, profitto da una situazione; t. le somme, fare l’addizione, e, in senso metaforico, concludere; t. le conseguenze, dedurle; nell’uso ant. e fam., avere, riscuotere proventi e retribuzioni: t. la pensione, la paga; Né io sono per anche un manzoniano Che tiri quattro paghe per il lesso (Carducci). In tipografia, in fotografia e nella tecnica di riproduzione multipla, ricavare copie da una matrice, da un negativo o da un esemplare, stampare, riprodurre: t. un volume in 10.000 copie o t. 10.000 copie di un volume; t. sei esemplari di una foto, 100 esemplari numerati di un’incisione (v. tiratura).
e. Portare, condurre a uno stato o a una condizione determinati per mezzo di lavorazioni particolari: t. a lucido o a lustro un mobile, un marmo, un pavimento; t. a pulimento un pezzo metallico. In senso non materiale, dare un valore, in senso forzato, non obiettivo: è uno di quelli che tirano tutto al peggio.
f. In combinazione con espressioni di tempo nelle locuz.: t. giorno (o mattina), andare a dormire all’alba; t. sera, passare una giornata senza saper che fare, sperando che finisca presto; t. tardi, stare svegli fino a notte tarda.
g. Nell’uso fam., è com. l’espressione tirarsela, darsi arie, assumere atteggiamenti di superiorità: come se la tira, da quando è stata nominata direttrice!
3. tr. Con avverbî e locuzioni avv. o con compl. particolari:
a. T. avanti, fare avanzare, assicurare lo svolgimento e la continuità: t. avanti un lavoro; t. avanti la famiglia, la casa; t. avanti la vita, e più spesso assol. t. avanti, continuare a vivere: è gravissimo, potrà t. avanti solo qualche giorno (anche con sign. più ampio, provvedere alle necessità economiche di vita: con quel prestito, potrà almeno t. avanti un mese o due).
b. T. su, portare in alto, sollevare, alzare: t. su il secchio dal pozzo, e t. su l’acqua; t. su l’ancora, la saracinesca, la tenda; t. su (o tirarsi su) i pantaloni, la gonna, le calze; tirarsi su le maniche, rimboccarsele, anche in senso fig. (v. manica, n. 1 b); t. su una casa, costruirla; t. su i capelli, raccoglierli e fermarli in alto, sulla testa; t. su le carte, prenderle dal mazzo o dal tavolo; t. su i numeri (della tombola, del lotto, ecc.), prenderli dal sacchetto o da un altro contenitore; con uso assol., t. su (col naso), aspirare con forza e rumorosamente dal naso l’aria e il muco, spec. quando si è raffreddati o si piange: smettila di t. su continuamente! In partic., t. su (da terra) qualcuno o qualcosa, rialzarli: era caduto, e a tirarlo su da solo non ce l’ho fatta, perché è un omone pesante; il cavallo è scivolato, bisogna tirarlo su; tiriamo su quel palo; tira su quel pezzo di carta, raccàttalo. In senso fig., t. su uno, allevarlo, provvedere al suo sostentamento e alla sua educazione: i genitori sono morti che aveva pochi mesi, e l’hanno tirato su gli zii; è lei che s’è sbandata, i suoi l’avevano tirata su bene; gli dava non solo da vivere ma di che mantenere e tirare su una numerosa famiglia (Manzoni). Nel rifl., tirarsi su, migliorare le proprie condizioni economiche o sociali: comprerò un mulo e potrò tirarmi su a fare il carrettiere davvero (Verga); riprendersi, riaversi da una malattia, da uno stato di debilitazione fisica e psichica: è proprio mal ridotto, e non riesce a tirarsi su; non ti devi abbattere: ora cerca di distrarti e di tirarti su.
c. T. giù, abbassare, calare: t. giù la saracinesca, il sipario; t. giù colpi, botte, legnate, pugni, darli con violenza e in grande quantità; t. giù versi, poesie, articoli, quadri, farne molti di seguito e per lo più troppo in fretta.
d. T. fuori, estrarre, mettere fuori: basta tirarsene fuori e anche la villeggiatura diventa qualcosa di veramente stupido, quasi indecente (Sandro Veronesi); t. fuori una pistola, il coltello; t. fuori il portafoglio, l’orologio; t. fuori quattrini, denaro (tremila euro, un biglietto da cento), darli, spenderli; t. fuori la lingua, le unghie o gli artigli; t. fuori dalle macerie un ferito, t. fuori dall’acqua il cadavere di un annegato; fig., t. fuori un amico da un pasticcio, da una situazione imbrogliata (frequente anche il rifl: tirarsi fuori da un pasticcio, da un imbroglio). In senso non materiale: t. fuori una vecchia questione, riesumarla; t. fuori scuse, pretesti, cavilli, argomenti capziosi, addurli; ma guarda che cosa va a t. fuori!, di chi richiama fatti lontani, vecchi e dimenticati.
e. T. via, portare via, levare con forza; strappare: farsi t. via un dente; tira via quelle mani!; t. via il dito dal naso. Più spesso, in senso fig., fare, eseguire qualcosa in fretta e malamente, senza la cura e l’impegno che richiederebbe: un lavoro, un articolo tirato via; con uso assol., fare in fretta: su, tira via, è tardi; lasciare correre, passare sopra a qualcosa, non curarsene: beh, tiriamo via, ormai è accaduto ed è inutile recriminare; su, tira via, l’ha detto in un momento di rabbia.
f. T. in lungo, prolungare nel tempo, mandare troppo alle lunghe, soprattutto per non concludere subito: t. in lungo una trattativa, la discussione; usato assol.: sta tirando in lungo per guadagnare tempo.
g. T. a sorte, sorteggiare, scegliere o decidere per sorteggio: t. a sorte i numeri di una lotteria, i nomi dei concorrenti per stabilire l’ordine di precedenza; usato assol. o in espressioni ellittiche: se nessuno si sente di farlo, tiriamo a sorte (o a chi tocca).
h. T. in ballo, chiamare in causa, coinvolgere in una situazione persone o cose che hanno poca o nessuna pertinenza, che non è opportuno richiamare e implicare: non t. in ballo sua moglie, che non c’entra affatto; è inutile t. in ballo queste vecchie questioni.
i. Con la particella pron. di valore rifl.: tirarsi addosso, farsi cadere addosso qualcosa, e, in senso fig., fare ricadere su di sé, procurarsi fatti spiacevoli: si è tirato addosso l’armadio; agendo così, ti tirerai addosso le critiche, le maledizioni di tutti; tirarsi dietro, portare, spingere, trascinare dietro di sé: se lo inviti, è capace di tirarsi dietro tutti i parenti; tirati dietro il portone, o il cancello, quando esci; in senso non materiale, comportare come conseguenza: è una malattia che può tirarsi dietro complicazioni anche gravi; tirarsi indietro, ritirarsi, in senso proprio e fig.: tìrati indietro, sta arrivando il treno; è un pagliaccio! si è tirato indietro all’ultimo momento (cioè, è venuto meno alla parola, agli impegni che aveva assunto); tirarsi in là, farsi da parte, scostarsi: tìrati in là, che non ci passo.
l. In espressioni fig. partic., con compl. varî: t. gli orecchi a qualcuno, rimproverarlo; t. coi denti, fare qualcosa in modo forzato: un’interpretazione, un’argomentazione tirata coi denti; con lo stesso sign. t. per i capelli, riferito a cose: questa conclusione mi sembra tirata per i capelli; ma riferito a persone, costringere a fare qualcosa a forza, controvoglia: mi hanno tirato per i capelli ad assumermi questo incarico; t. la carretta, avere su di sé tutto il carico del lavoro (v. carretta); t. le cuoia, morire; t. l’acqua al proprio mulino (v. mulino2); t. sassi in colombaia o in piccionaia (v. colombaia).
4. intr. (aus. avere)
a. Soffiare, riferito al vento (è d’uso più com. e fam. rispetto a soffiare e a spirare, e indica per lo più un movimento d’aria forte): senti che ventaccio tira oggi; tirava una tramontana gelida che mozzava il respiro; in usi fig.: che vento, o che aria, tira?, come vanno le cose?, com’è la situazione?; con il vento che tira, è bene non commettere il minimo errore, con la situazione sfavorevole, avversa e pericolosa, che si è determinata, ecc.
b. Far passare agevolmente l’aria, il fumo, ecc., avere un buon tiraggio: la cappa del camino, la stufa o questo sigaro, la pipa, tira benissimo, poco, male, o non tira. In senso fig., procedere bene, avere influenza positiva sullo sviluppo economico: il mercato dell’auto ancora tira; l’industria edilizia continua a tirare.
c. Stare troppo teso o stretto, esercitare una pressione eccessiva sulla parte del corpo che è a contatto, riferito a oggetti di abbigliamento e di vestiario: le bretelle tirano troppo, vanno allentate; la cintura mi tira; è ingrassato e la giacca gli tira sulle spalle; questi pantaloni mi tirano al cavallo.
d. Tendere, mirare a qualcosa, o esserci portato per natura e per indole: t. ai soldi, al guadagno; t. a sfruttare il lavoro degli altri, a ingannare il prossimo. Nell’uso fam., t. a indovinare, azzardare una risposta nella speranza che sia giusta; t. a campare (frequente spec. nell’uso centro-merid.), pensare a vivere, provvedere ai proprî interessi essenziali, senza farsi troppi problemi e cercando di evitare impegni, noie e preoccupazioni: da’ retta a me, tira a campare!; tiriamo a campare, non ci avveleniamo l’esistenza; con uso impersonale, t. a piovere, del tempo, tendere alla pioggia.
e. T. sul prezzo (raro, con uso trans., t. il prezzo), e assol. tirare, contrattare, insistere per ottenere una riduzione di spesa: non mi piace t. sul prezzo, e perciò preferisco i negozî a prezzo fisso; quelli che bevono il vino senza criticarlo, che pagano il conto senza tirare (Manzoni); t. sulle spese, essere parsimonioso, cercare di economizzare il più possibile: con la vita che si fa più cara giorno per giorno, bisogna t. anche sul mangiare.
f. fam. T. dal padre, dalla madre, o dalla famiglia paterna, materna, averne ripreso i caratteri fisici o psichici, essere somiglianti: il ragazzo tira più dalla madre, e la bambina dal padre.
g. Seguito da avverbî o da locuzioni avv.: t. a destra, a sinistra, tendere: la vettura tira un po’ a destra; t. dritto o diritto, proseguire, procedere per la via dritta, senza voltare o fermarsi: l’ho chiamato, ma lui ha tirato diritto; in senso fig., tendere risolutamente allo scopo prefissato: tu tira diritto, non badare alle critiche (con uso e sign. analogo, t. via e t. innanzi); t. di lungo, passare da un luogo, davanti a qualcuno o a qualcosa, senza fermarsi: hanno visto, traversando la piazza, che c’era una rissa, ma per evitare grane hanno tirato di lungo. ◆ Part. pres. tirante, anche come agg. in botanica, nell’espressione radice tirante, che si contrae e tira in giù il rizoma, il bulbo o il tubero cui è attaccata. Per gli usi e i sign. partic. che ha come s. m., v. tirante. ◆ Part. pass. tirato, anche come agg. nei varî sign. del verbo e con accezioni proprie (v. tirato).