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"La piazza prospiciente il teatro San Carlo, nei pressi del Palazzo Reale, dello storico Caffè Gambrinus, dello sbocco verso sud della via Toledo, aveva un nome diverso nei tempi che furono: Piazza San Ferdinando, in onore del penultimo Re di Napoli.

Non parliamo di tempi tanto remoti.

Tempi in cui un Regno, che certo non brillava di luce propria, ma che almeno non era diventato la periferia di un paese che adesso ritiene tutto questo mondo soltanto un peso morto e decomposto.

Eppure quel passato Regno, invaso, deriso e imbrogliato, oltre che beffato ha dovuto subire persino la rimozione dei toponomi, come è avvenuto con questa piazza.

 

Scusate il pretesto per ricordare ancora una volta la storia dalla parte degli sconfitti, cosa che spesso non viene fatta, soprattutto in questo periodo..."

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Diego

Belgrade, 9 May 1999 - A woman feeds her baby in a bomb shelter with no electricity in central Belgrade after air raid sirens went of May 8. Thousands of people spend their nights in shelters since NATO air raids started over Yugoslavia 45 days ago. (YUGOSLAVIA OUT) im/Photo by Aleksa Stankovic REUTERS

 

La minaccia USA sul mondo - un articolo di Noam Chomsky pubblicato nel 1999 sulla rivista Koiné

   

Due questioni fondamentali: quali sono le "regole dell'ordine mondiale" accettate e applicabili? Come queste e altre considerazioni si applicano al caso del Kosovo? Esiste un sistema di diritto internazionale, che vincola tutti gli Stati, basato sulla Carta delle Nazioni Unite e relative sentenze della Corte internazionale. In poche parole, la minaccia o l'uso della forza sono vietati, a meno che non sia esplicitamente autorizzato dal Consiglio di Sicurezza, dopo che si è giunti alla conclusione che i mezzi pacifici hanno fallito, oppure per auto-difesa contro "attacchi armati" fino a quando il Consiglio di Sicurezza non agisce. Tuttavia, c'è come minimo un contrasto, se non una vera e propria contraddizione, tra le regole dell'ordine mondiale contenute nella Carta Onu ed i diritti articolati nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, un secondo pilastro dell'ordine mondiale istituito su iniziativa degli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale. La Carta vieta di violare con la forza la sovranità di uno Stato; la Dichiarazione Universale garantisce i diritti degli individui contro gli Stati oppressivi. La questione dell'"intervento umanitario" nasce da questo contrasto. Gli Usa-Nato si appellano al diritto di "intervento umanitario" per quanto riguarda il Kosovo, con il sotegno generale dei giornali e dei telegiornali (in quest'ultimo caso, anche attraverso un'attenta scelta della terminologia).

Il problema viene affrontato in un aticolo del New York Times (27 Marzo 1999) dal titolo: "Gli studiosi di diritto appoggiano l'uso della forza in Kosovo". Viene fatto un esempio: Allen Gerson, ex console presso la delegazione degli Stati Uniti alle Nazioni Unite. Viene citato Jack Goldsmith, ricercatore e specialista di diritto internazionale presso la Facoltà di Legge di Chicago. Questi sostiene che le critiche ai bombardamenti della Nato "hanno un buon fondamento giuridico", ma "molti pensano che esista un'eccezione per l'intervento umanitario, in termini di consuetudine e prassi". L'osservazione di Goldsmith è ragionevole, se consuetudine è prassi". L'osservazione di Goldsmith è ragionevole, se concordiamo sul fatto che i fatti siano rilevanti nella determinazione di "consuetudine e prassi". L'osservazione di Goldsmith è ragionevole, se concordiamo sul fatto che i fatti siano rilevanti nella determinazione di "consuetudine e prassi". Dovremmo anche tenere a mente un altro elemento; il diritto all'intervento umanitario, se esiste, si fonda sulla "buona fede" di coloro che intervengono, basata non sulla retorica, ma sul loro passato, in particolare sul loro rispetto dei principi di diritto internazionale, delle sentenze della Corte internazionale, e così via. Tutto cio è lapalissiano, per lo meno per quanto riguarda gli altri. Pensate, per esempio, se gli iraniani si fossero offerti di intervenire in Bosnia a farlo. La richiesta sarebbe stata liquidata come ridicola (e di fatto ignorata), sulla base del fatto che non si poteva sostenere la "buona fede" degli iraniani. Una persona razionale a questo punto farebbe delle domande ovvie: il passato di intervento e terrore dell'Iran è peggiore di quello degli Stati Uniti? Ed ancora: come si può sostenere la"buona fede" dell'unico paese che ha posto il vero sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza che richiedeva che tutti gli Stati obbedissero al diritto internazionale? E cosa dire del passato?

In Kosovo si è verificata una catastrofe umanitaria durante tutto l'anno passato, attribuibile senz'altro alle forze militari jugoslave. Le vittime principali sono stati i kosovari di etnia albanese (quasi il 90 per cento della popolazione). In casi simili, le forze esterne hanno tre scelte: 1) tentare di esarcerbare la catastrofe; 2) non fare nulla; 3) tentare di mitigare la catastrofe. Per ognuna si possono fare degli esempi.

In Colombia, secondo stime del Dipartimento di Stato statunitense, gli omicidi politici commessi ogni anno dal governo e dai paramilitari che lo appoggiano sono circa allo stesso livello del Kosovo, ed il flusso di rifugiati determinato dalle loro atrocità supera abbondantemente il milione. Da quando, negli anni Novanta, la violenza è aumentata, la Colombia è diventata il maggior destinatario di armi e addestramento statunitensi nell'emisfero occidentale, e questa assistenza sta ora aumentando, con il pretesto di una "guerra alla droga", rifiutato da quasi tutti i più seri osservatori. L'amministrazione Clinton è stata particolarmente entusiasta nel suo appoggio al Presidente Gaviria, responsabile, secondo le organizzazioni di difesa dei diritti umani, dello "spaventoso livello di violenza", sorpassando persino i suoi predecessori. In questo caso, la risposta degli Usa è stata: esacerbare la catastrofe. Altrettanto è accaduto in Turchia. In base ad una stima decisamente prudente, la repressione turca nei confronti dei kurdi negli anni Novanta rientra pienamente nella categoria del Kosovo. Essa ha raggiunto il suo apice nei primi anni Novanta: un indicatore è la fuga di oltre un milione di kurdi dalla campagna devastata dall'esercito turco verso la capitale non ufficiale del Kurdistan, Diyarbakir, tra il 1990 ed il 1994. Il 1994 ha conosciuto due record: è stato l'anno della peggiore repressione nelle province kurde, e quello in cui la Turchia è divenuta il principale importatore di armi statunitensi e il più grande acquirente di armi del mondo. Come in Colombia, anche in Turchia gli Stati Uniti appoggiano le atrocità di governi che di difendersi dalla minaccia di guerriglie terroriste. Esattamente come il governo della Jugoslavia.

L'intero territorio del Laos fu disseminato di mine anti-uomo durante la guerra "segreta" della fine degli anni Sessanta. Queste mine provocano oggi dalle centinaia alle decine di migliaia di incidenti, di cui oltre la metà mortali. Gli Stati Uniti si rifiutano di dare qualsiasi appoggio ad un gruppo inglese di associazioni che si occupa della loro rimozione. Stesso atteggiamento fu adottato in Cambogia. In entrambi i casi, la reazione degli USA è stata: non fare nulla, con il silenzio complice dei media.

Queste ed altre atrocità recenti, come l'uccisione di mezzo milione di bambini iracheni tra il 1991 ed il 1996 a causa dell'embargo sui medicinali, valutata come un "prezzo che vale la pena di sopportare" da Madeleine Albright, dovrebbero essere tenute a mente quando leggiamo l'ampia retorica sul buon funzionamento della "bussola morale" dell'amministrazione Clinton, come dimostra l'esempio del Kosovo. Ma cosa dimostra questo esempio? La minaccia di bombardamenti da parte della Nato ha portato, prevedibilmente, ad un forte aumento delle atrocità da parte dell'esercito e di paramilitari serbi, ed alla partenza degli osservatori internazionali che, naturalmente, hanno avuto lo stesso effetto. Tutto questo rappresenta una conseguenza "totalmente prevedibile" della minaccia e poi dell'uso della forza, come ha dichiarato il comandante delle forze Nato, il generale Wesley Clark.

Il Kosovo è dunque un esempio del primo caso, tentare di esacerbare la violenza.

Esempi di questo tipo di reazione sono facilmente rintracciabili nella storia, almeno se ci attiene alla retorica ufficiale. L'attacco giapponese in Manciuria, l'invasione fascista dell"Etiopia, l'occupazione della Cecoslovacchia da parte della Germania nazista, furono tutte giustificate come "interventi umanitari". Un esempio più recente è l'invasione della Cambogia da parte del Vietnam, fondata sulla necessità di arrestare le atrocità commesse dai kmer rossi. In quel caso la stampa e gli Stati Uniti condannarono i "prussiani" assiatici per la loro oltraggiosa violazione del diritto internazionale, sostennero l'invasione cinese del Vietnam, imposero un durissimo regime di sanzioni, supportarono la guerriglia Khmer, riconoscendola come governo ufficiale della Cambogia. Un esempio che spiega bene la pratica che soggiace "il diritto emergente di interventi umanitari". A dispetto dei disperati sforzi degli ideologi di dimostrare che i cerchi sono quadrati, non c'è alcun serio dubbio che i bombardamenti della Nato destabilizzano ulteriormente ciò che rimane della fragile struttura del diritto internazionale. Gli Usa lo hanno pienamente chiarito nella discussione che ha portato alla decisione della Nato. A parte la Gran Bretagna (allo stato, un attore indipendente quanto lo fu l'Ucraina nell'epoca pre-Gorbaciov), i paesi Nato erano scettici sulla politica Usa. Oggi, più uno si accosta alla regione del conflitto, più è contrario alla insistenza di Washington sulla forza, anche all'interno della Nato (la Grecia e l'Italia). La Francia ha chiesto una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu che autorizzasse il dispiegamento di forze di pace Nato. Gli Usa hanno rifiutato decisamente, insistendo sulla propria posizione: che la Nato deve essere in grado di agire indipendentemente dalle Nazioni Unite, come ha spiegato ufficialmente il Dipartimento di Stato. Gli Usa hanno rifiutato di permettere che la parola nevralgica "autorizzato" apparisse in calce alla decisione Nato, non desiderando concedere alcuna autorità alla Carta dell'Onu e al diritto internazionale; solo la parola "conferma" era consentita. Analogamente il bombardamento sull'Iraq è stato una sfrontata espressione di disprezzo verso l'Onu, e così è stato compreso. E lo stesso si può dire della distruzione di meta della produzione farmaceutica di un piccolo stato africano alcuni mesi prima.

Si potrebbe sostenere, in modo piuttosto plausibile, che l'ulteriore demolizione delle regole dell'ordine mondiale è irrilevante, dal momento che esse hanno preso il loro significato dalla fine degli anni Trenta. La violazione della cornice giuridica dell'ordine mondiale da parte della prima potenza del mondo è diventata così estrema che non c'è più nulla da discutere. Una rassegna dei documenti interni mostra che la questione risale ai primissimi giorni della costituzione delle Nazioni Unite nel 1947. Durante gli anni di Kennedy, questa posizione ha cominciato ad essere espressa apertamente. La principale novita degli anni Reagan-Clinton è che la violazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite è divenuta totalmente palese. È stata anche supportata da interessanti spiegazioni: le più alte autorità hanno spiegato con brutale chiarezza che la Corte Internazionale di Giustizia, le Nazioni Unite ed altre agenzie sono divenute irrilevanti, dal momento che non eseguono più gli ordini degli Stati Uniti, come avevano fatto nei primi anni del secondo dopoguerra.

Se l'amministrazione Reagan ha esplorato nuovi campi, con quella di Clinton la violazione dell'ordine mondiale è divenuta così totale da preoccupare persino gli analisti politici più reazionari. In un recente numero del principale periodico dell'establishmente, Foreign Affairs, Samuel Huntington avverte che Washington sta percorrendo una strada pericolosa. Agli occhi di gran parte del mondo - probabilmente, della maggior parte di esso, suggerisce - gli Stati Uniti stanno "diventando la super-potenza furfante", considerata come "la più grande minaccia esterna alla società". La "teoria realista delle relazioni internazionali" - spiega l'analista - prevede che possano nascere delle coalizioni per controbilanciare la super-potenza furfante. La posizione andrebbe dunque rivista, per motivi pragmatici. Quegli americani che vogliono un'immagine diversa della loro società potrebbero chiedere una riconsiderazione di questa posizione su basi diverse.

Ma che influenza hanno queste considerazioni sul "che fare" in Kosovo? La questione resta irrisolta. Gli Stati Uniti hanno scelto una strada che, come riconoscono esplicitamente, determina un'escalation delle atrocità e della violenza, "prevedibilemente"; una strada che infligge un altro colpo al sistema giuridico internazionale, che pure potrebbe offrire ai deboli perlomeno una limitata protezione rispetto agli stati predatori. Le conseguenze sono del tutto imprevedibili nel lungo periodo. Un'osservazione plausibile è che "ogni bomba sganciata sulla Serbia ed ogni omicidio etnico in Kosovo rende estremamente difficile che i serbi e gli albanesi possano vivere insieme in un qualche modo pacifico" (Financial Times, 27 marzo 1999).

Il diritto di "intervento umanitario" sarà sempre più invocato nei prossimi anni - a volte in modo giustificato, a volte no - ora che i pretesti legati alla guerra fredda hanno perso efficacia. In un'epoca simile, potrebbe valere la pena prestare attenzione all'opinione di commentatori molto rispettati, per non parlare della Corte Internazionale di Giustizia che ha emesso una sentenza specifica su questa specifica questione, sentenza rifiutata dagli Stati Uniti senza che ci fosse alcuna notizia dei media. Hedley Bull, uno studioso di affari e diritto internazionali, avvertiva già 15 anni fa che "Stati particolari o gruppi di Stati che si pongono come giudici autorevoli del bene comune mondiale, ignorando le opinioni degli altri, costituiscono di fatto una minaccia per l'ordine internazionale e, quindi, per ogni azione effettiva in questo senso". Un altro studioso, Louis Henkin, in un testo di base sull'ordine mondiale, scrive che "le pressioni per l'erosione del divieto dell'uso della forza sono deplorevoli, e gli argomenti per legittimare l'uso della forza in determinate circostanze sono poco persuasivi e molto pericolosi. Le violazioni dei diritti umani sono fin troppo numerose e se fosse permesso di porvi remedio attraverso l'uso di forze esterne, non ci sarebbe alcuna legge in grado di evitare l'uso della forza di quasi ogni stato contro quasi ogni altro. Credo che i diritti umani dovrebbero esere ristabiliti con altri, pacifici mezzi e non aprendo la porta all'aggressione e distruggendo il principio del diritto internazionale che mette fuori legge la guerra e proibisce l'uso della forza".

Principi riconosciuti di diritto internazionale e dell'ordine mondiale, solenni obblighi dei trattati, decisioni della Corte Internazionale, opinioni dei più rispettati commentatori, non risolvono automaticamente problemi particolari. Ogni questione va considerata nel merito. Coloro che non si riconoscono negli standard di Saddam Hussein, hanno il pesante onere di dimostrare che non utilizzano la minaccia o usano la forza in violazione dei principi dell'ordine internazionale. Forse la prova può essere fornita, ma allora deve essere mostrata, non meramente proclamata con appassionata retorica. Le conseguenze di questo tipo di violazioni devono essere attentamente valutate - in particolare, quelle che riteniamo "prevedibili". E nel caso in cui tali conseguenze siano minimamente serie, devono essere valutate anche le ragioni per agire.

Desidero chiedere perdono a molte persone.

 

Ad alcuni amici che, grazie alla loro arguzia e alla loro indiscussa bontà d'animo, si accorsero delle mie folli bugie su cose inerenti la mia vita: scusate amici, non mi resi conto della vostra sanità mentale e, parimenti, neanche realizzai di essere bi-ippo-lare (a tratti anche tripolare) ma voi - grazie all'esperienza pregressa - mi forniste una diagnosi efficace, reale e soprattutto gratuita; quindi grazie due volte, anche per il risparmio offertomi.

Ad averne di amici come voi... vi amo.

 

Devo domandare perdono alle case farmaceutiche tutte: a causa della mia patologia mentale divenni un gomblottista (mi fu diagnosticata una sindrome da gomblotto avanzata, allo stadio 3, quasi mortale nella maggior parte dei casi) e, erroneamente, ebbi il sospetto che voi tutte non foste davvero interessate alla mia sanità psico-fisica, ma che fosse solo un pretesto per vendere più farmaci, più vaccini, per tenermi in salute ma non del tutto sano, in modo da obbligarmi ad acquistare periodicamente un qualche farmaco.

Scusate, davvero, con il cuore: ora sono consapevole che la vostra priorità è la mia salute, non il vostro fatturato.

Quanto fui stupido...

 

Desidero domandare perdono anche a tutti i professoroni da tv, che insistettero sull'obbligatorietà vaccinale e profferirono disdicevoli (almeno a un primo ascolto) giudizi razzisti e discriminatori verso le persone che non intendevano vaccinarsi.

 

Scusa Roberto Burioni, avevi ragione, necessitavo bisogno di restare "agli arresti domiciliari" e di "fare una vita da sorcio", per rendermi conto di essere un "pagliaccio".

Ti voglio bene Roby.

Salutami i ragazzi, non vedo l'ora di guardare di nuovo Netflix con loro!

 

Scusa Andrea Scanzi, se non sono ancora morto come una mosca e non ti ho divertito mentre mangiavi pop corn, ma ora comprendo perché ti saresti divertito tanto a vedermi morire in questo modo; avevi senz'altro ragione.

La mia stessa vita è un insulto alla tua intelligenza e, anche di questo, mi scuso Andre.

 

Perdonami Alessandro Gassman se, in un momento di dignità intellettuale (probabilmente ero ubriaco...), pensai di aver diritto ad accedere liberamente in negozi o ristoranti; ovviamente non era così, anche in questo caso io avevo torto, tu avevi ragione. Domando scusa anche se pensai che l'importanza professionale di tuo padre abbia contribuito alla tua realizzazione economica e lavorativa: ora so che sei un grandissimo attore, che Vittorio - con tutto il rispetto - levate proprio; d'altronde si sa, "tale padre tale figlio".

Bravo Ale, sei il mio orgoglio.

 

Scusami, dal più profondo del cuore, Matteo Bassetti: non mi resi conto di far parte di "un'organizzazione criminale" e di essere un "terrorista"; avevi ragione, avrei dovuto essere punito severamente.

Confido nella tua benevolenza e nel tuo perdono, umilmente mi scuso a capo chino e, non appena potrai, sarò lieto di trascorrere una delle nostre esaltanti serate anticonvenzionali.

 

Scusa Selvaggia Lucarelli, effettivamente sì, avrei dovuto "ridurmi a poltiglia verde" ma, nonostante la mia ben nota passione per l'esplorazione speleologica delle narici, non è accaduto e, anche di questo, ti chiedo perdono.

Ti assicuro, o suprema dea, che se solo sapessi come ridurmi in codesto stato, sarebbe mia premura farlo il prima possibile, con l'intenzione e la gioia di soddisfarti.

Ho ancora il tuo poster appiccicato sul soffitto della mia cameretta e, ogni sera, ti rivolgo la preghierina della buna notte, con una mano sul Rosario e una nelle mutande.

 

Perdono David Parenzo, sono stato ben felice di mangiare cibo pieno di condimento alla saliva dei rider che, una volta saputo del mio non esser vaccinato, mi offrirono gratuitamente: adoro una dose extra di enzimi sul cibo... è, e sempre sarà, la mia passione più segreta.

 

Domando scusa anche ai Maneskin tutti: avevate ragione, ero un Terrapiattista senza saperlo ma ora, che sono vaccinato, mi sono reso conto di quanto folli, assurde e prive di un qualsiasi rilievo fossero le mie piatte convinzioni.

Grazie anche a voi, così giovani e così saggi ma - soprattutto - così geniali e fenomenali musicalmente (che tutta la storia del rock levate proprio).

Vi amo, siete forse la mia unica ragione di vita dopo la vostra musica.

 

Scusa Angelo Giovannini, se l'avere un cartello al collo con su scritto che non sono vaccinato, mi ricordò qualcosa a forma di stella della recente storia passata.

Domando perdono in ginocchio sulle siringhe usate, per la mia ignoranza storica: non compresi che la tua delicata e sottile affermazione non avesse assolutamente nulla a che fare con le discriminazioni del passato e con le leggi razziali.

Come ormai già sai io, a differenza tua, non sono in possesso di una laurea in storia e di una in filosofia, quindi certe finezze intellettuali non sono davvero in grado di comprenderle e non dovrei parlare di cose che non conosco e non afferro.

 

Scusa Greta Thunberg, mi sembrò eccessivo vaccinare i bambini appena nati in sala parto ma, ovviamente, anche in questo caso tu avevi ragione e io avevo torto.

D'altronde chi sono io per contestare la bella persona che è riuscita a invertire la tendenza al riscaldamento globale del pianeta?

Figuriamoci...

Io capisco che sta piovendo solo se sono sotto la doccia, davvero non posso competere; hai, e sempre avrai - nei secoli dei secoli - il mio più profondo rispetto.

Grande Greta, ti sono grato. Amen.

 

Chiedo umilmente perdono a te Ilaria Capua, espertissima e riconosciuta a livello mondiale, per non aver pagato 2000 euro al giorno per il mio ricovero ospedaliero perché non vaccinato; nella mia imbarazzante ignoranza credetti che le tasse, pagate per tutti e per tutta la vita, fossero sufficienti per garantirmi il diritto alla cura e alla sanità (credevo che, quest'ultima, fosse pubblica in Italia).

Ma, anche in questo caso, avevo torto; sarò lieto di versare il dovuto direttamente sul tuo iban, ti prego di accettare il mio bonifico in segno di scuse.

Ti ho anche mandato un mazzo di rose rosse, un panino e un sigaro via posta.

Mi manchi.

Salutami tuo marito.

Mi manca anche lui.

 

Scusa Don Pasquale Giordano, perdono se venni in chiesa da non vaccinato: avevi ragione tu, non ero degno di ricevere la parola di Dio senza vaccino.

Mi affido alla Madonna e a tutti gli angeli in colonna per ottenere il perdono.

Sono atterrito e imbarazzato dall'ignoranza che dimostrai all'epoca, la prego di perdonarmi padre, perché non sapevo ciò che facevo.

 

Hai ragione Giovanni Toti, mancai di rispetto a chi perse la vita non vaccinandomi immediatamente.

Onore e gloria alla tua ligure saggezza (domando scusa anche per il mio passato militante nella sinistra, ora che sono vaccinato mi sembra ormai evidente che la destra sia per la libertà, la tolleranza, la democrazia e qualsiasi cosa bella esista su questo pianeta).

Grande Vanni, continua così, ti amo - ma proprio fisicamente, sei anche un bell'uomo.

 

Ho volutamente lasciato per ultimo l'amico fraterno Mario Draghi, non perché meno importante (anzi...), piuttosto perché a te devo domandare più volte perdono.

 

1 - Perdono se pensai che fossi un "vile banchiere" - come disse Cossiga - senz'anima, interessato solo a difendere le multinazionali, i potenti e, ovviamente, gli interessi degli istituti bancari; ovviamente non era così, ora me ne rendo conto, adesso so che hai a cuore il mio benessere economico e la mia realizzazione personale, sia pubblica che privata.

 

2 - Scusa anche se, ieri sera a cena a casa tua, risposi male a tua moglie asserendo che la pastina era scotta e troppo salata; scusa Mario, fui maleducato e impertinente: tua moglie è, in realtà, una bravissima cuoca oltre che una splendida donna (mi fa rimpiangere di non avere trent'anni in più...).

 

3 - Scusa Mario se, con i miei passati dubbi sul vaccino, ho causato la morte di alcune persone; è un peso assai gravoso da portare con me, ma è ciò che merito.

 

4 - Scusa Mario se, quella volta all'oratorio di Don San Paolo, me la presi quando mi rubasti le caramelle e non accettai il giuramento massonico; ero giovane e inesperto delle cose davvero importanti nella vita.

 

Amici tutti, figliuoli e fedeli, prendete esempio da me: non c'è motivo di credere che questa pesante campagna vaccinale sia mirata al profitto economico, nemmeno che il green pass sia uno strumento discrimiantorio (anzi, è una "Patente di libertà" - Cit.); ancor meno non dovreste credere alle baggianate che diffondono i gomblottisti sui possibili - e improbabili ovviamente - effetti avversi.

Io, per esempio, sono rimasto lo stesso di prima, nulla è cambiato, tranne che ogni tanto mi piace indossare autoreggenti nere, truccarmi con stile, vestirmi di seta e andare a vendere il mio corpo sano per strada, prendere i soldi e poi rimborsare i miei clienti, perché non lo faccio mica per i soldi.

Io sono una persona seria, ho i miei prìncipi ma anche i miei princìpi.

 

Per il resto tutto normale.

Sono un cittadino onesto che ha a cuore la sua salute e quella di tutti i suoi compaesani, vado a votare e amo mia moglie e i suoi figli (anche se non ho ancora capito con chi li abbia fatti).

in questo caso, la foto sopra è solo un pretesto per quello che c'è nel commento sottostante:

Fotos del ensayo previo al concierto de Navidad, el día 16 Diciembre 2016, en la preciosa Iglesia del Espíritu Santo (Clerecía) en Salamanca. Un concierto de 16 villancicos populares que dejaron con ganas a nuestros espectadores que llenaban por completo la Iglesia.

 

Photos prétest le concert de Noël le 16 Décembre, 2016, dans la belle église du Saint-Esprit (clergé) à Salamanque. Un concert de 16 carols, qui ont laissé vouloir nos spectateurs qui ont rempli l'église complètement.

 

Photos of the rehearsal before the Christmas concert, on 16 December 2016, in the beautiful Church of the Holy Spirit (Clerecía) in Salamanca. A concert of 16 popular carols, which left our spectators eager to fill the Church completely.

Un’intera linea per pensare al profumo dei nostri abiti da quando li laviamo a quando li riponiamo nei nostri armadi. Gesti che ci fanno ripensare ai lavori di casa come ad un momento di cura e piacere e non ad un semplice dovere.

 

Tre momenti: un profumo per la lavatrice, concentrato ma delicato su ogni tipo di tessuto, si aggiunge nella vaschetta al posto dell’ammorbidente.

 

Momento due: lo spray da vaporizzare dopo aver stirato i capi, il tocco di profumo che li fa tornare nostri.

 

Momento tre: le card profumate da mettere nei cassetti e negli armadi per rendere costante il nostro segno olfattivo e che ci fa sorridere al mattino quando scegliamo cosa metterci.

 

La linea si chiama Cuore di Casa ed è stata ideata dall’azienda HP, per la sua sezione Nasoterapia (vi ricordate la lampada ad ultrasuoni Sakura? Proprio loro). Da Melissa abbiamo la linea completa di tutte e quattro le profumazioni: soffio “gelsomino e cashmere (la preferita di Valeria), Nuvola “talco e rosa”

 

Gli spray hanno il loro sacchetto in tessuto utile anche in valigia per riporre biancheria profumata. Abbiamo pensato che questa linea potesse rappresentare un’ottima idea regalo per chi ha una casa nuova, per chi ha bisogno di un pretesto per “prendersi cura”, per chi ama in generale quello che abita che sia una stanza o un vestito. vi aspettiamo da Melissa per scegliere il vostro Spray 13,90€, Concentrato profumato 10,90€, card profumate singole 3,50€

 

SOFFIO: Gelsomino e Cashmere

NUVOLA: Talco e Rosa

BREZZA: tè verde e fiori d’arancio

Un pretesto per tornare bisogna sempre seminarselo dietro, quando si parte.

Il Muro Occidentale (ebraico: הכותל המערבי HaKotel HaMa'aravi), è un muro di cinta risalente all'epoca del primo Tempio di Gerusalemme. È anche indicato come il Muro del Pianto o come il Muro al-Buraq. Il Tempio era l'edificio più sacro all'Ebraismo. Erode il Grande costruì imponenti mura di contenimento intorno al Monte Moriah, allargando la piccola piana spianata sulla quale furono eretti il Primo e Secondo Tempio posto in cima alla odierna Montagna del Tempio. Il Tempio di Salomone o Primo Tempio fu costruito, secondo la Bibbia, dal Re Salomone nel X secolo a.C. Fu completamente distrutto da Nabucodonosor II nel 586 a.C. Il Secondo Tempio fu costruito al ritorno dall'esilio babilonese a partire dal 536 a.C. Fu terminato il 12 marzo del 515 a.C. Venne restaurato il 21 novembre del 164 a.C. da Giuda Maccabeo. Il Tempio di Erode fu un ampliamento importante del Secondo Tempio, ivi compreso una risistemazione del Monte del Tempio. Fu iniziato da Erode il Grande verso il 19 a.C. e terminato in tutte le sue parti solo nel 64 d.C. Come raccontato dal Talmud nel trattato di Ghittin, il Secondo Tempio fu distrutto dall'imperatore Tito nel 70 d.C. Oggi ne resta solamente il muro occidentale di contenimento, detto comunemente Muro del Pianto. Secondo la leggenda, quando le legioni di Tito distrussero il Tempio, il muro di cinta occidentale del cortile esterno rimase in piedi, parzialmente visibile e protetto dalle macerie per la maggior parte della propria estensione verticale. La leggenda vuole che Tito lo abbia lasciato come triste ricordo per gli ebrei da parte di Roma che aveva sconfitto la Giudea. Gli ebrei, comunque, attribuirono la cosa ad una promessa fatta da Dio, che avrebbe lasciato in piedi alcune parti del sacro tempio, come segno del suo immutato legame con il popolo ebraico, nonostante la catastrofe che lo aveva colpito. Gli Ebrei pregano là da duemila anni, ritenendo che quel punto sia il più sacro disponibile sulla faccia della Terra e che Dio sia lì vicino a sentire le loro preghiere. Anche la tradizione di infilare piccoli fogli di carta recanti preghiere nelle fessure del muro è antica di centinaia di anni. Nelle preghiere ripetute per tre volte ogni giorno sono incluse le ferventi richieste a Dio per il ritorno di tutti gli ebrei esiliati nella terra di Israele e la ricostruzione del Tempio (il terzo) per arrivare all'era messianica con l'arrivo del messia degli ebrei.

Il sito è importante anche per i musulmani che ritengono Salomone un loro profeta. I musulmani credono che Maometto abbia fatto un viaggio spirituale a Gerusalemme cavalcando un cavallo alato, al-Buraq, nel 620 d.C. Una volta arrivato, Maometto avrebbe legato il cavallo vicino ad un muro che alcuni musulmani ritengono essere proprio il muro occidentale. Difatti il nome arabo del sito è muro di al-Buraq. Alcuni vedono questa come una ragione della riverenza dei musulmani nei confronti del muro, mentre altri la considerano un'azione di propaganda contro le rivendicazioni ebraiche sul muro. A causa della sacralità del luogo all'interno dell'Islam nel 687 vennero costruite la Cupola della Roccia, e la moschea al-Aqsa sul monte del Tempio che sono circondate dal muro. L'accesso è sempre stato controverso, anche quando la Turchia (o meglio, l'Impero Ottomano) governò sull'area per circa 400 anni (1515-1917), seguito dal Mandato Britannico (1917-1948). Nel 1929 vennero istigate sollevazioni Arabe con pretesti vari, come la supposta costruzione di una sinagoga o la conquista dell'area. Nel 1931 il governo Britannico assegnò la proprietà ai Musulmani, ponendo restrizioni alle preghiere ebraiche.

Secondo molti rabbini, agli Ebrei è vietato accedere a certe parti del Tempio. La definizione di queste parti differisce a seconda dell'autorità rabbinica, ma tutti concordano sul divieto di accesso alla zona della Moschea di Omar. Quest'area, infatti, era quella del Tempio, che era un Luogo Santo. La roccia sotto la Moschea, secondo alcuni midrashim, è la base da cui Dio creò l'universo. Secondo alcuni studi rabbinici, è la roccia cui Abramo legò Isacco in occasione del sacrificio. Questa è anche l'area in cui, si dice, dormì Giacobbe, sognando la scala che saliva al cielo (Genesi). Questo punto è identificato come il Sancta sanctorum.

Anticamente, solo certe persone erano ammesse al Tempio. Il complesso del Tempio era formato da varie sezioni, ciascuna con il proprio valore di santità. Nell'area più santa, appunto il Sancta Sanctorum (Kodesh Hakodashim), che costituiva la parte centrale del Tempio, aveva accesso durante lo Yom Kippur solo il Sommo Sacerdote (Cohen Gadol). Altre aree erano accessibili solo alla casta sacerdotale, i Cohanim. Altre ancora, più distanti dal Sancta Sanctorum, erano accessibili ai Leviti (anche i Cohanim erano parte della Tribù di Levi). Oltre queste, l'accesso era libero a tutti gli Ebrei.

Dal 1517 l'Impero Ottomano islamico sotto Selim I prese la terra che anticamente apparteneva all'antico Israele e Giudea dai Mamelucchi egiziani (1250-1517). La Turchia ebbe un atteggiamento benevolo nei confronti degli Ebrei, accogliendo migliaia di profughi ebrei che erano stati recentemente espulsi dalla Spagna da Ferdinando II di Aragona e Isabella di Castiglia nel 1492. Il sultano Turco, Solimano il Magnifico, era così interessato e colpito da Gerusalemme e dalle sue sventure che ordinò che un magnifico muro-fortezza venisse costruito intorno all'intera città (che non era molto estesa a quei tempi.). Durante quel periodo la parte occidentale del muro fu sempre un luogo venerato dagli ebrei; molti di loro attraversarono letteralmente il mondo per trascorrere gli ultimi anni della loro vita vicino al muro di Gerusalemme, per poter pregare di fronte al muro occidentale. Le persone non ebree osservano gli ebrei piangere vicino al muro (piangendo la distruzione del Tempio di Gerusalemme) dando al luogo il nome famoso, ma errato, di Muro del pianto. C'è anche un'altra ipotesi sull'origine del nome, è legata al modo di pregare degli ebrei. Gli ebrei si recano al muro per pregare e non piangono, la loro preghiera presuppone continui movimenti della parte superiore del corpo. Ad un osservatore posto ad una certa distanza dal muro può sembrare che la persona muovendosi in questo modo si stia lamentando, stia piangendo.

Quando il Regno Unito assunse il controllo dell'area nel 1917 con il Generale Edmund Allenby, gli Ebrei erano ancora autorizzati a recarsi al Muro per pregare. Nel corso della prima guerra Arabo-Israeliana l'area attorno al Muro fu conquistata dalla Legione Araba dell'esercito Giordano. Agli Ebrei venne negato l'accesso al Muro, in violazione degli accordi armistiziali, e furono costruiti edifici a pochi metri dal Muro. Nel corso della Guerra dei sei giorni, Israele, dopo 2000 anni, riportò il Muro in possesso Israeliano. Gli Israeliani demolirono il medievale Quartiere Marocchino e costruirono una grande piazza nello spazio di fronte al muro, utilizzato da migliaia di ebrei durante le ricorrenze ebraiche; il Muro è l'attrazione preferita dai turisti che viaggiano per il mondo e molti capi di stato stranieri, in visita in Israele, visitano il Muro come forma di rispetto per il significato che esso ha per Israele e per tutto il mondo ebraico. il Muro Occidentale continua ad esercitare un grande potere sugli ebrei di tutto il mondo. Da decenni, milioni di persone, in veste di turisti o pellegrini, si recano al muro per poterlo toccare con le loro mani. (wikipedia)

 

Fotos del ensayo previo al concierto de Navidad, el día 16 Diciembre 2016, en la preciosa Iglesia del Espíritu Santo (Clerecía) en Salamanca. Un concierto de 16 villancicos populares que dejaron con ganas a nuestros espectadores que llenaban por completo la Iglesia.

 

Photos prétest le concert de Noël le 16 Décembre, 2016, dans la belle église du Saint-Esprit (clergé) à Salamanque. Un concert de 16 carols, qui ont laissé vouloir nos spectateurs qui ont rempli l'église complètement.

 

Photos of the rehearsal before the Christmas concert, on 16 December 2016, in the beautiful Church of the Holy Spirit (Clerecía) in Salamanca. A concert of 16 popular carols, which left our spectators eager to fill the Church completely.

FotoArte, la fotografia in Puglia

Sarà Franco Fontana l’ospite d’onore dell’undicesima edizione di FotoArte. La manifestazione, ideata dal circolo fotografico “Il Castello” di Taranto, dall’anno scorso ha abbandonato i confini ormai angusti della sola provincia ionica per allargarsi ad altre città della Puglia. L’obiettivo è quello di creare una rete di associazioni fotografiche che offrano eventi e iniziative di qualità per attrarre fotografi e fotoamatori da ogni parte d’Italia, formando quel polo fotografico mancante nel Sud della nostra Penisola.Oltre al circolo “Il Castello”, condividono l’edizione del 2014 altre 6 associazioni pugliesi: “Controluce” di Statte, “Photosintesi” di Casarano, “Fotofucina” di Salice Salentino, “Inphoto” di Brindisi, “L’occhio” di Galatone e “Obiettivi” di Lecce. La manifestazione è realizzata con il patrocinio della FIAF – Federazione Italiana Associazioni Fotografiche – e in gemellaggio con il NettutoPhotoFestival 2014, le cui opere saranno esposte a Taranto, nell’ambito di FotoArte 2015.Dal 24 maggio fino al 26 ottobre, dunque, un calendario molto ricco di appuntamenti culturali accompagnerà l’estate e l’inizio dell’autunno pugliesi. Molti gli eventi che si svolgeranno con fotografi e critici prestigiosi: Michele Buonanni, Giovanni Santilio, Ciro Quaranta, Giorgio Ciardo, Settimio Benedusi, Alessandro Cirillo, Federica Cerami, Albano Sgarbi, Giovanni Marozzini, Marcello Carrozzo, Cosmo Laera, Claudio Palmisano, Mario Spada, Ugo Ferrero e Carlo Garzia, che terranno seminari, workshop e discussioni fotografiche.

Il gran finale della manifestazione avrà luogo nel mese di ottobre a Casarano con “Casarano per la Fotografia 2014″, in occasione della quale si terrà la manifestazione di chiusura di FotoArte 2014 nonché la Giornata Nazionale del Fotoamatore patrocinata dalla UIF (Unione Italiana Fotoamatori).

In quella occasione verranno esposte tutte le mostre fotografiche collettive del circoli partecipanti a FotoArte, sul tema “Segni del tempo”.

L’evento trainante, come dicevamo, sarà la mostra antologica di Franco Fontana, dal titolo “F.F.F. – Franco Fontana Fotografie”, che raccoglierà le immagini più note del grande “maestro del colore”. L’esposizione sarà visitabile al MuDi – Museo Diocesano di Taranto – dal 24 maggio all’8 giugno, dal martedì al venerdì dalle 18 alle 20, sabato e domenica dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 21. L’autore sarà presente il giorno dell’inaugurazione e per l’occasione terrà un seminario. L’ingresso alla mostra sarà a pagamento.

Oltre alle immagini di Franco Fontana, sempre al MuDi e nelle stesse date, sarà possibile visitare un’esposizione delle fotografie più belle realizzate dai suoi allievi dei workshop tenuti in tutta Italia, dal titolo “Quelli di Franco Fontana”. Perché, come dice il “maestro”, «i workshop non sono solamente una vacanza o un passatempo, ma il pretesto per un incontro ed una avventura fotografica ». Questi fotografi in mostra «sono il fenomeno nuovo che si sta muovendo». La mostra sarà presentata da Lisa Bernardini, Art Director del NettunoPhotoFestival.

Nato a Modena nel 1933, Franco Fontana è uno dei fotografi italiani più stimati a livello internazionale e, nel corso della sua carriera, si è dimostrato estremamente versatile: è passato dalla fotografia di paesaggio al nudo, al reportage, alla pubblicità e alla moda. Ha pubblicato oltre 40 libri fotografici, ha collaborato con le maggiori testate giornalistiche mondiali e ha tenuto centinaia di mostre in Italia e all’estero, arrivando ai prestigiosi Museum of Modern Art di New York, Musée d’Art Moderne di Parigi e Australian National Gallery di Melbourne.

Un’occasione imperdibile, dunque, per i numerosi fotografi e fotoamatori del Sud Italia che, dopo Francesco Zizola, Ferdinando Scianna, Letizia Battaglia, Gianni Berengo Gardin e Uliano Lucas, solo per citare alcuni dei grandi artisti ospitati nelle scorse edizioni di FotoArte, avranno la possibilità di ascoltare dal vivo un altro dei grandi maestri che hanno fatto la storia della fotografia nella nostra Penisola e all’estero.

(fonte FotoArte)

 

Per maggiori info:

www.fotofucina.it

www.fotoartepuglia.it

Venezia, di ritorno da Budapest, settembre 2010

*

Dietro la porta di casa di Chiara ritrovo un piccolo vetusto poster che avevo appeso a casa mia a Venezia, anni prima, e che lei aveva conservato come mia eredità.

 

Così ripenso ai ponti, ai ritrovamenti e a quanto perde "chi non sa cos'è l'amore".

 

*ora sai come si scrive "ponte" in lingua gujarati, che è un dialetto parlato in alcune zone dell'India.

*

 

Cara Marialuisa,

questa foto scattata all'alba dal porto di Messina è per te.

In fondo a sinistra si vedono due tralicci: è lì che dovrà nascere il ponte.

Vorrei che fosse un ponte sicuro, funzionale, architettonicamente maestoso ed al tempo stesso armoniosamente integrato nell'ambiente, che facesse da volano all'economia del paese e che non fosse un pretesto per ingrassare la 'ndrangheta.

...chiedo molto?...:)

Un caro saluto

www.youtube.com/watch?v=KAxvtMdMWjA

 

Non ho bisogno di tempo

per sapere come sei:

conoscersi è luce improvvisa.

Chi ti potrà conoscere là dove taci

o nelle ore in cui tu taci?

Chi ti cerchi nella vita

che stai vivendo, non sa

di te che allusioni,

pretesti in cui ti nascondi...

Io no.

Ti ho conosciuto nella tempesta.

Ti ho conosciuto, improvvisa,

in quello squarcio brutale

di tenebra e luce,

dove si rivela il fondo

che sfugge al giorno e alla notte.

Ti ho visto, mi hai visto ed ora...

sei così anticamente mia

da tanto tempo ti conosco

che nel tuo amore chiudo gli occhi

e procedo senza errare,

alla cieca, senza chiedere nulla

a quella luce lenta e sicura...

 

Pedro Salinas, da "La voce a te dovuta"

  

di Wang Cheng, provincia dello Hebei

 

Nel periodo in cui sono stato un seguace del Signore Gesù Cristo sono stato perseguitato dal governo del Partito Comunista Cinese, che si è servito del “crimine” della mia fede nel Signore Gesù come pretesto per rendermi la vita difficile e opprimermi, al punto da ordinare ai quadri del villaggio di fare frequenti visite a casa mia per interrogarmi sulle mie pratiche religiose. Nel 1998 ho accettato l’opera di Dio Onnipotente negli ultimi giorni. Quando ho udito pronunciare di persona le parole del Creatore, ho provato un entusiasmo e una commozione che non saprei neppure descrivere. Incoraggiato dall’amore di Dio, ho preso una decisione: avrei seguito Dio Onnipotente fino alla fine, a qualunque costo. In quel periodo mi sono dedicato con fervore a partecipare agli incontri e alla diffusione del Vangelo, e questo ha nuovamente attirato l’attenzione del governo del PCC. Questa volta la loro persecuzione ai miei danni è stata peggiore che mai, al punto che, non potendo più professare normalmente la mia fede nella mia casa, per poter svolgere i miei doveri sono stato costretto ad andarmene.

 

Nel 2006 ero responsabile della stampa dei libri che contenevano la parola di Dio. Purtroppo una volta, mentre trasportavano dei libri, alcuni fratelli e sorelle e l’autista della tipografia sono stati catturati dalla polizia del PCC. Tutte le diecimila copie di “La Parola appare nella carne” che erano nel camion sono state confiscate. In seguito, l’autista ha spifferato il nome di oltre dieci altri fratelli e sorelle, i quali sono stati presi in custodia uno dopo l’altro. Questo avvenimento ha creato grande agitazione in due province e il caso è stato personalmente seguito dall’autorità centrale. Quando il governo del PCC ha scoperto che il capo ero io ha dispiegato forze di polizia armate senza badare a spese per indagare in tutti gli ambiti di svolgimento del mio lavoro. Hanno confiscato due automobili e un furgone appartenenti alla tipografia con cui lavoravamo, appropriandosi anche indebitamente di 65.500 yuan di sua appartenenza, oltre a più di 3.000 yuan che hanno sottratto ai fratelli e alle sorelle che si trovavano quel giorno nel furgone. Per di più, la polizia è venuta due volte a perquisire casa mia. Entrambe le volte hanno buttato giù la porta d’ingresso, fracassato e distrutto le mie cose e messo sottosopra l’intera abitazione, comportandosi peggio di una banda di banditi itineranti! Successivamente, dal momento che il governo del PCC non è riuscito a trovarmi, hanno rastrellato tutti i miei vicini di casa, amici e parenti e li hanno interrogati per sapere dov’ero.

 

Sono stato costretto a rifugiarmi a casa di un parente lontano per evitare di essere arrestato e perseguitato dal governo del PCC. Mai avrei neppure lontanamente immaginato che la polizia del PCC avrebbe continuato a seguire le mie tracce fin laggiù per arrestarmi. Eppure, tre giorni dopo che ero arrivato a casa del mio parente, una notte una squadra di circa cento agenti costituita da un’unità di polizia proveniente dalla mia città in collaborazione con la polizia criminale e la polizia armata locale, ha circondato la casa procedendo alla cattura e all’arresto di tutti i miei parenti. Io sono stato circondato da più di dieci agenti di polizia armati, che mi hanno puntato tutti la pistola puntata alla testa gridando: “Una mossa e sei morto!” Poi, alcuni di loro mi sono saltati addosso e hanno provato ad ammanettarmi le braccia dietro la schiena: mi hanno spinto la mano destra sopra la spalla per poi ruotare il braccio sinistro dietro la schiena e strattonarmi in malo modo la mano verso l’alto. Vedendo che non riuscivano ad accostare le mani per ammanettarmi mi sono saliti sulla schiena con i piedi tirando ancor più forte e riuscendo finalmente a unire le mani. Il dolore atroce e lancinante andava oltre la mia capacità di sopportazione, ma per quanto gridassi “Fa troppo male!” gli agenti non se ne sono curati affatto e non mi è restato che pregare Dio di darmi forza. Mi hanno preso 650 yuan e poi mi hanno torchiato per sapere dove la Chiesa tenesse i soldi, pretendendo che consegnassi loro tutti i fondi. Ero infuriato, e ho pensato con sprezzo: “Si definiscono ‘la Polizia del Popolo’ e ‘i protettori della vita e della proprietà del popolo’, quando invece l’obiettivo di un così smisurato dispiegamento di forze per una caccia all’uomo a una simile distanza allo scopo di arrestarmi non è soltanto ostacolare l’opera di Dio, ma anche saccheggiare e intascarsi i risparmi della Chiesa! Questi poliziotti malvagi hanno un’avidità insaziabile di denaro. Si spremono le meningi e non si fermano davanti a nulla pur di riempirsi le tasche. Chissà quante azioni indicibili hanno commesso nella loro corsa alla ricchezza e quante vite innocenti hanno rovinato per poter arricchirsi?” Più ci pensavo, più la mia rabbia cresceva, e ho fatto voto a me stesso che sarei morto prima di tradire Dio, giurando a me stesso di combattere quei demoni fino allo stremo. Notando che li stavo fissando in un silenzio colmo di rabbia, uno degli agenti si è fatto avanti e mi ha assestato due schiaffi in faccia, facendomi gonfiare e sanguinare copiosamente le labbra. Non contenti, quei malvagi poliziotti mi hanno poi preso a calci sulle gambe con violenza, insultandomi, fino a farmi cadere a terra. Hanno continuato a prendermi a calci come un pallone mentre giacevo al suolo finché, dopo un incerto lasso di tempo, sono svenuto. Quando mi sono svegliato, mi trovavo già a bordo di un’auto diretta verso la mia città. Mi avevano legato con un’enorme catena d’acciaio che andava dal collo alle caviglie impossibilitandomi a star seduto e costringendomi a faccia in giù, raggomitolato in posizione fetale e sostenuto a fatica dalla testa e dal torace. Vedendo che soffrivo si sono limitati a ridacchiare commentando in tono sarcastico: “Vediamo se adesso il tuo Dio può salvarti!” e facendo varie altre battute mortificanti. Sapevo bene che il motivo per cui mi stavano trattando in quel modo era la mia fede in Dio Onnipotente. Era proprio come Dio aveva detto nell’Età della Grazia: “Se il mondo vi odia, sapete bene che prima di voi ha odiato Me” (Giovanni 15:18). Più mi umiliavano, più chiaramente distinguevo la loro essenza demoniaca di nemici di Dio e la loro malefica natura caratterizzata dall’odio verso Dio, disprezzandoli ancora di più per questo. Allo stesso tempo non facevo che invocare Dio, pregando: “Amato Dio Onnipotente! Di certo sono le Tue buone intenzioni ad avere permesso che venissi catturato dalla polizia, e sono disposto a sottomettermi a Te. Oggi, sebbene il mio corpo mortale soffra, ho intenzione di restare saldo nel renderTi testimonianza e umiliare il vecchio demonio. Non cederò a lui per nessuna ragione al mondo. Ti prego di donarmi la fede e il discernimento”. Finito di pregare, ho pensato a questo passo delle parole di Dio: “Sii quieto in Me, poiché Io sono il tuo Dio, il vostro unico Redentore. Dovete placare sempre i vostri cuori, vivere in Me; sono la tua roccia, Colui che vi sostiene” (Capitolo 26 di “Discorsi di Cristo al principio” in “La Parola appare nella carne”). Le parole di Dio mi hanno dato ancor più forza e determinazione. Dio regna sovrano su tutte le cose e la vita e la morte degli uomini sono nelle Sue mani. Con Dio Onnipotente a fornirmi un saldo sostegno non avevo nulla da temere! Da quel momento ho posseduto una fede rinnovata e una via per metterla in pratica, oltre a sentirmi pronto ad affrontare la crudele tortura che mi aspettava.

 

Durante le diciotto ore di viaggio fino alla mia città ho perso il conto di quante volte sono svenuto dal dolore, ma nessuno di quei poliziotti criminali mostrava di darsene pena. Quando siamo finalmente arrivati erano passate le due di mattina. Mi sentivo come se tutto il sangue che avevo in corpo si fosse coagulato, avevo le braccia e le gambe gonfie e intorpidite e non riuscivo a muovermi. Ho sentito uno dei poliziotti dire: “Credo sia morto”. Uno di loro ha afferrato la catena d’acciaio e l’ha strattonata con forza brutale, facendo penetrare i bordi seghettati nella carne. Sono ruzzolato fuori dall’auto e il dolore mi ha fatto perdere i sensi per l’ennesima volta. I poliziotti mi hanno preso a calci finché non mi sono svegliato e poi hanno gridato: “Dannazione! Cercavi di fingerti morto, eh? Dopo che ci saremo riposati te la faremo vedere!” Poi mi hanno trascinato di forza in una cella del braccio della morte, e mentre se andavano mi hanno detto: “Abbiamo preparato questa cella apposta per te”. Trascinandomi lì dentro avevano interrotto il sonno di diversi detenuti, che ora mi guardavano in cagnesco: ho avuto una paura tale che mi sono accovacciato in un angolo, non osando muovermi. Era come se fossi finito una specie di inferno in terra. All’alba i compagni di cella mi si sono fatti tutti intorno guardandomi come fossi un alieno e avventandosi su di me; per lo spavento, la mia reazione immediata è stata accucciarmi a terra. Il trambusto ha svegliato il capo dei prigionieri, che mi ha lanciato un’occhiata e poi ha detto con freddezza: “Fate di lui quello che volete, basta che non lo picchiate a morte”. I detenuti hanno accolto l’invito come un decreto imperiale e sono balzati in avanti, pronti a picchiarmi. Ho pensato tra me e me: “Ora sei nei guai. I poliziotti mi hanno messo nelle mani di questi condannati a morte perché facciano il loro sporco lavoro: mi stanno mandando a morire di proposito”. Sentendomi del tutto impotente e in preda al panico, non ho potuto fare altro che affidare la mia vita a Dio accettando le Sue orchestrazioni. Proprio mentre mi preparavo al pestaggio è accaduta una cosa incredibile: d’improvviso ho sentito qualcuno gridare: “Fermi!” Il capo dei prigionieri è corso da me e mi ha sollevato da terra, scrutandomi in volto per quelli che sono sembrati due lunghi minuti. Ero così spaventato che non osavo neppure restituire lo sguardo. “Che ci fa un bravo ragazzo come te in un posto come questo?”, ha chiesto. Quando ho capito che stava parlando con me, l’ho guardato bene e mi sono reso conto che era l’amico di un amico che avevo conosciuto di sfuggita tempo prima. Allora lui si è rivolto agli altri detenuti e ha detto: “Quest’uomo è amico mio. Se qualcuno lo tocca, dovrà risponderne a me!” Poi si è affrettato ad andarmi a comprare del cibo e mi ha dato una mano a procurarmi i vari prodotti da bagno e tutto quello di cui avrei avuto bisogno nella mia vita quotidiana da detenuto. Da quel momento nessun altro detenuto ha mai osato prendersela con me. Sapevo che era per effetto dell’amore di Dio e che era una Sua saggia disposizione. L’idea iniziale dei poliziotti era stata di servirsi degli altri detenuti per torturarmi spietatamente, ma non avrebbero mai immaginato che Dio avrebbe smosso il capo dei prigionieri perché mi aiutasse a scansare quel proiettile. Ero commosso fino alle lacrime e non ho potuto fare a meno di esclamare tra me e me una lode a Dio, dicendo: “Amato Dio! Siano rese grazie a Te poiché mi hai mostrato la Tua misericordia. Sei stato Tu a venire in mio soccorso per mezzo di questo amico quando ero più che mai spaventato, debole e impotente, permettendomi di testimoniare i Tuoi atti. Sei Tu che mobiliti tutte le cose affinchè rendano servizio a Te recando così beneficio a coloro che credono in Te”. In quel momento la mia fede in Dio è aumentata ancor di più, poiché avevo sperimentato personalmente il Suo amore. Nonostante fossi stato gettato nel ventre della bestia, Dio non mi ha abbandonato. Con Dio al mio fianco, cosa c’era da temere? Il mio amico mi ha rincuorato dicendomi: “Non essere triste. Non importa quello che hai fatto: non dir loro una parola, anche a costo della vita. Ma devi prepararti psicologicamente e tenere a mente che, dal momento che ti hanno messo qui dentro insieme a con dei condannati a morte, non ti lasceranno andare via facilmente”. Dalle parole del mio amico ho percepito ancora più chiaramente che Dio mi guidava in ogni istante e che mi aveva parlato attraverso il mio compagno di cella per mettermi in guardia su ciò che mi aspettava. Mi sono predisposto appieno psicologicamente e ho tra me e me una promessa: “Non importa in che modo quei demoni mi tortureranno, non tradirò mai Dio!”

 

Il secondo giorno sono venuti a prendermi più di dieci poliziotti armati che mi hanno scortato, come un condannato a morte, dal centro di detenzione fino a un luogo sperduto in mezzo alla campagna. La struttura in cui mi hanno portato era un complesso protetto da un’alta recinzione, dotato di un grande cortile sorvegliato da uno spiegamento di poliziotti armati. Una targa sulla porta principale diceva: “Sede Addestramento Unità Cinofile”. Ogni stanza era piena di strumenti di tortura di tutti i generi. A quanto pareva mi avevano condotto in una delle strutture segrete che il governo del PCC utilizzava per interrogatori e torture. Guardandomi intorno mi si sono sentito rizzare i capelli in testa e mi sono messo a tremare di paura. I malvagi poliziotti mi hanno piazzato immobile in mezzo al cortile e poi da una gabbia di acciaio hanno fatto uscire quattro cagnacci di dimensioni insolitamente grandi e dall’aspetto feroce, hanno puntato il dito nella mia direzione e ordinato a quei cani poliziotto ben addestrati: “Uccidetelo!” All’istante i cani sono partiti all’attacco come un branco di lupi. Ero così terrorizzato che ho serrato gli occhi. Hanno iniziato a fischiarmi le orecchie e mi si è svuotata la mente; il mio solo pensiero era: “O Dio! Ti prego, salvami!” Ho invocato l’aiuto di Dio senza mai smettere e, dopo circa dieci minuti, ho sentito che i cani si stavano limitando a mordermi i vestiti. Uno di loro, di stazza particolarmente grande, mi ha appoggiato le zampe sulle spalle annusandomi e si è messo a leccarmi in volto, senza darmi neppure un morso. Di colpo mi sono ricordato di una storia contenuta nella Bibbia: il profeta Daniele venne gettato in una fossa di leoni affamati perché adorava Dio, ma i leoni non gli fecero alcun male. Dio, che era al suo fianco, mandò un angelo a chiudere la bocca dei leoni. D’un tratto è sgorgato dentro di me un profondo senso di fede che ha dissipato tutta la paura che provavo dentro. Si è diffusa in me la convinzione che tutto è orchestrato da Dio e la vita e la morte dell’uomo sono nelle Sue mani. Inoltre, morire da martire sbranato da cani feroci a causa della mia fede in Dio sarebbe stato un grande onore e non avrei avuto nulla di cui lamentarmi. Non più attanagliato dalla paura della morte e disposto a dare la vita per rendere la testimonianza di Dio, ancora una volta sono stato testimone dell’onnipotenza di Dio e dei suoi atti miracolosi. Stavolta i poliziotti, letteralmente in preda all’isteria, si sono precipitati verso i cani gridando: “Ammazza! Ammazza!” Ma era come se tutt’a un tratto quei segugi altamente addestrati non capissero più gli ordini dei loro padroni. Si sono limitati a lacerarmi un po’ i vestiti, a leccarmi in volto e poi si sono allontanati. Alcuni dei malvagi poliziotti hanno provato a fermarli e aizzarmeli nuovamente contro, ma di colpo i cani si sono spaventati sparpagliandosi in tutte le direzioni. I poliziotti erano tutti sbigottiti di fronte all’accaduto e hanno detto: “Che strano! Nessuno dei cani voleva morderlo!” D’improvviso mi sono ricordato di queste parole di Dio: “Il cuore e lo spirito dell’uomo vengono tenuti nella mano di Dio, ogni cosa della sua vita viene vista dagli occhi di Dio. Che tu ci creda oppure no, tutte le cose, siano esse vive o morte, si muoveranno, muteranno, si rinnoveranno e scompariranno secondo i Suoi pensieri. Questo è il modo in cui Egli sovrintende a tutte le cose” (“Dio è la sorgente della vita dell’uomo” in “La Parola appare nella carne”). “Dio ha creato tutte le cose e dunque fa sì che tutto il creato sia sotto il Suo dominio e vi si sottometta; Egli comanderà tutte le cose affinché siano nelle Sue mani. Tutto il creato di Dio, compresi gli animali, le piante, gli uomini, le montagne, i fiumi e i laghi, ogni cosa deve essere sotto il Suo dominio. Tutte le cose nei cieli e sulla terra devono essere sotto il Suo dominio” (“Il successo o il fallimento dipendono dalla strada che l’uomo percorre” in “La Parola appare nella carne”). Avevo constatato attraverso l’esperienza personale che tutte le cose, animate e non, sono soggette alle orchestrazioni di Dio e si muovono e trasformano assecondando i Suoi pensieri. Sono potuto sopravvivere indenne all’attacco di quei cani poliziotto poiché Dio Onnipotente aveva serrato loro le fauci, facendo sì che non osassero morsicarmi. Ero profondamente consapevole che ciò era avvenuto per mezzo dello smisurato potere di Dio e che Dio aveva rivelato uno dei Suoi atti miracolosi. Che si trattasse dei poliziotti criminali o dei loro cani addestrati, tutto doveva sottostare all’autorità di Dio. Nessuno può sostituirsi alla sovranità di Dio. Se ero caduto nelle diaboliche mani del governo del PCC e avevo affrontato una prova simile a quella del profeta Daniele, era di certo accaduto perché Dio aveva fatto un’eccezione al fine di elevarmi e farmi dono della Sua grazia. Attraverso la testimonianza degli atti onnipotenti di Dio ho accresciuto ancor di più la mia fede in Lui e ho fatto voto di combattere il diavolo fino alla fine. Ho giurato di credere in Dio, di adorarLo per l’eternità e renderGli onore e gloria!

 

Non avendo ottenuto il risultato sperato facendomi aggredire dai cani, i poliziotti mi hanno condotto nella stanza degli interrogatori, dove mi hanno appeso al muro per le manette; ho subito provato ai polsi un dolore lancinante, come se le mie mani stessero per essere tagliate via del tutto. Grosse gocce di sudore mi colavano sul volto. Ma quei poliziotti criminali non avevano ancora finito: si sono messi a tempestarmi di calci e pugni. Mentre mi picchiavano inveivano rabbiosamente: “Vediamo se adesso il tuo Dio può salvarti!” Per picchiarmi si davano il cambio: quando uno si stancava, un altro prendeva il suo posto. Mi hanno pestato fino a ricoprirmi di tagli e lividi dalla testa ai piedi e a farmi sanguinare copiosamente. Quando è scesa la notte, ero ancora appeso al muro e non mi lasciavano chiudere gli occhi. Avevano incaricato due sottoposti armati di taser di sorvegliarmi: ogni volta che mi calavano le palpebre mi somministravano una scarica elettrica per impedirmi di addormentarmi. Mi hanno torturato in quel modo per tutta la notte. Mentre mi malmenava, uno dei due subordinati ha urlato fissandomi con due occhietti cattivi: “Quando ti avranno picchiato fino a farti svenire, io ti picchierò finché non riprenderai i sensi!” Grazie all’illuminazione di Dio ero del tutto consapevole di quanto stava accadendo: Satana stava cercando di indurmi a compromettermi attraverso torture di ogni genere. L’idea era di torturarmi fino a spezzarmi nello spirito e farmi perdere il controllo delle mie facoltà mentali, e a quel punto forse avrei rivelato le informazioni che cercavano. Così avrebbero potuto arrestare i prescelti di Dio, ostacolare l’opera di Dio negli ultimi giorni e razziare e appropriarsi di tutti i beni di proprietà della Chiesa di Dio Onnipotente per riempire i loro forzieri: erano quelle le sfrenate ambizioni della loro natura bestiale. Ho serrato i denti e sopportato il dolore, giurando a me stesso che non sarei sceso a compromessi con loro neppure se significava morire lì appeso. La mattina dopo, all’alba, ancora non davano segno di volermi tirare giù e io ero già stremato; sentivo che sarebbe stato meglio morire e non avevo più la forza di volontà di andare avanti. Riuscivo solo a invocare l’aiuto di Dio e pregare: “O Dio! So che merito di soffrire, ma il mio corpo è così debole e io davvero non riuscirò a resistere ancora per molto. Fintanto che respiro e sono ancora vigile, voglio chiederTi di scortare la mia anima via da questo mondo. Non voglio diventare un Giuda e tradirTi”. Proprio mentre ero sul punto di crollare, ancora una volta la parola di Dio mi ha illuminato e guidato: “‘IncarnarSi questa volta è come cadere nella tana della tigre’. Ciò sta a significare che, poiché questa tappa dell’opera di Dio prevede che Egli venga nella carne e nasca nel luogo in cui risiede il gran dragone rosso, la Sua venuta sulla terra, questa volta, è accompagnata da pericoli ancora più estremi. Ciò che Egli affronta sono coltelli e fucili e mazze; ciò che Egli affronta è la tentazione; ciò che Egli affronta sono folle dagli sguardi assassini. Egli rischia di venire ucciso in qualsiasi momento” (“Lavoro e ingresso (4)” in “La Parola appare nella carne”). Dio è il Sovrano supremo di tutta la creazione; discendere tra i più corrotti di tutti gli uomini per salvarci è stata già un’incredibile umiliazione, ma Egli ha anche dovuto sopportare ogni sorta di persecuzione per mano del governo del PCC. La sofferenza che Dio ha subito è davvero smisurata. Se Dio ha sopportato tutta questa sofferenza e questo dolore, perché io non potevo sacrificarmi per Lui? Se ero ancora vivo era solo grazie alla protezione e alla cura di Dio, senza le quali sarei stato torturato a morte da quella banda diabolica già da molto tempo. In quel covo di demoni, sebbene quei diavoli si siano serviti di ogni metodo a loro disposizione per infliggermi spietate torture, Dio era comunque al mio fianco, e resistendo ogni volta a un attacco di quelle torture sarei stato testimone dei miracoli di Dio, così come della Sua salvezza e della Sua protezione. Ho pensato tra me e me: “Dio ha fatto così tanto per me, cosa dovrei fare per recare conforto al Suo cuore? Poiché Dio oggi mi ha concesso questa opportunità, dovrei continuare a vivere per Lui!” In quel momento l’amore di Dio mi ha risvegliato la coscienza e ho sentito nel profondo dell’anima che dovevo soddisfare Dio a qualunque costo. Ho affermato di fronte a me stesso: “È un onore per me soffrire oggi al fianco di Cristo!” Vedendo che continuavo a tacere e non avevo implorato pietà, ma temendo che potessi morire lì senza aver rivelato alcuna informazione mettendoli nei guai coi loro superiori, i poliziotti malvagi hanno smesso di picchiarmi. Dopodiché mi hanno lasciato appeso al muro per le manette altri due giorni e due notti.

 

Ha fatto molto freddo in quei due giorni; ero fradicio, indossavo vestiti troppo leggeri, non mangiavo da diversi giorni ed ero affamato e infreddolito: davvero non ce la facevo più. Proprio nel momento in cui ero sul punto di cedere, quella banda di poliziotti criminali ha approfittato delle mie condizioni precarie per attuare un altro subdolo tranello: hanno convocato uno psicologo incaricandolo di farmi il lavaggio del cervello. Mi ha detto: “Sei ancora giovane e devi mantenere i tuoi genitori e i tuoi figli. In seguito al tuo arresto i tuoi compagni credenti e soprattutto i capi della tua Chiesa non hanno dato segno della minima preoccupazione per te e invece tu sei qui a patire per loro. Non lo ritieni un po’ insensato da parte tua? Questi poliziotti non hanno avuto altra scelta che torturarti…” Ascoltando quelle menzogne ho pensato: “Se i miei fratelli e le mie sorelle venissero qui a trovarmi, non sarebbe l’equivalente di costituirsi? Me lo stai dicendo solo per ingannarmi, per seminare zizzania tra me e i miei fratelli e le mie sorelle e per farmi fraintendere, incolpare e abbandonare Dio. Ma non ci cascherò!” Poi mi hanno portato cibo e bevande, nel tentativo di allettarmi con la loro apparente generosità. Di fronte all’improvvisa “gentilezza” di quei poliziotti criminali, il mio cuore si è stretto ancor più a Dio, poiché sapevo che in quel momento ero più che mai debole e Satana era pronto ad avventarsi non appena se ne fosse presentata l’opportunità. Le mie esperienze di quei giorni mi hanno permesso di vedere la vera essenza del governo del PCC. Per quanto si fingesse premuroso e sollecito, la sua sostanza malvagia, reazionaria e demoniaca restava invariata. La strategia del diavolo di portarmi alla “conversione per mezzo di un’amorevole compassione” aveva il solo effetto di mettere ancor di più in evidenza la sua profonda slealtà e ingannevolezza. Sia reso grazie a Dio per avermi guidato in modo che non cadessi preda del subdolo inganno di Satana. Alla fine lo psicologo, non riuscendo a fare progressi, e ha detto scuotendo la testa: “Non riesco a cavare nulla da lui. È testardo come un mulo, un caso senza speranza!”, e se n’è andato avvilito. Alla vista di Satana che batteva in ritirata, il mio cuore si è riempito di una gioia indescrivibile!

 

Quando quei crudeli poliziotti si sono resi conto che le tattiche strategie morbide erano fallite, subito si sono mostrati per ciò che erano e mi hanno di nuovo appeso al muro per un giorno intero. Quella notte, mentre ero appeso lì tremante per il freddo e con le mani così doloranti che mi sembrava stessero per staccarsi, nel mio delirio ho pensato che forse non ce l’avrei fatta davvero. Proprio allora diversi agenti sono entrati nella stanza e di nuovo mi sono ritrovato a chiedermi che tipo di tortura avessero in serbo per me. In preda alla debolezza ho rivolto ancora una preghiera a Dio, dicendo: “O Dio, Tu sai che sono debole e non posso davvero più resistere. Ti prego, prendi la mia vita adesso. Preferisco morire che essere un Giuda e tradirTi. Non permetterò che la subdola manovra di questi demoni abbia successo!” I poliziotti hanno impugnato i loro randelli, lunghi poco meno di un metro, e hanno iniziato a colpirmi le articolazioni di gambe e piedi. Alcuni di loro ridevano come dei matti mentre mi picchiavano, altri cercavano di tentarmi dicendo: “Ti fa proprio gola essere punito. Non hai commesso crimini gravi, non hai ucciso nessuno né appiccato incendi. Dicci semplicemente ciò che sai e ti tireremo giù”. Vedendo che continuavo a tacere, sono andati su tutte le furie e hanno gridato: “Pensi che le decine di agenti che hai davanti in questo momento siano un branco di incompetenti? Abbiamo interrogato innumerevoli detenuti di questo braccio della morte ottenendo sempre da loro una confessione, anche quando non avevano fatto nulla. Quando diciamo loro di parlare, loro lo fanno. Cosa ti fa pensare di essere diverso?” Poi alcuni di loro si sono avvicinati e hanno cominciato a stringermi e pizzicarmi le gambe e i fianchi fino a coprirmi di lividi. In alcuni punti mi hanno dato pizzicotti così forti da farmi uscire il sangue. Dopo essere rimasto appeso al muro per così tanto tempo ero estremamente debole, e questo accentuava il dolore provocato dai loro sfrenati pestaggi, al punto da farmi anelare di morire. Ero stato piegato: non ce la facevo più e alla fine sono scoppiato a piangere. Mentre le lacrime scorrevano mi si è affacciata alla mente l’ipotesi di tradire: “Forse dovrei semplicemente dir loro qualcosa, basta che sia qualcosa che non mette nei guai nessuno dei miei fratelli e sorelle. E se anche mi condanneranno o giustizieranno, che accada pure!” Vedendomi piangere quei poliziotti malvagi mi hanno detto tutti compiaciuti e fra risate fragorose: “Se avessi parlato prima, non avremmo dovuto picchiarti in questo modo”. Mi hanno tirato giù dal muro e, coricatomi a terra, mi hanno dato dell’acqua e concesso un attimo di riposo. Poi hanno preso carta e penna, che erano sempre state lì pronte, pronti a mettere a verbale la mia deposizione. Proprio quando stavo cadendo preda della tentazione di Satana ed ero sul punto di tradire Dio, di nuovo Le parole di Dio mi sono apparse chiare nella mente: “Non avrò più alcuna pietà per coloro che non Mi hanno dato uno iota di lealtà al tempo della tribolazione, poiché la Mia pietà giunge solo fino a questo punto. Inoltre, non provo alcuna simpatia per chi un tempo Mi ha tradito, e meno ancora Mi piace associarMi a coloro che hanno tradito l’interesse dei loro amici. Questa è la Mia indole, indipendentemente da quale persona si tratti. Devo dirvi questo: chiunque Mi spezzi il cuore non riceverà da Me clemenza una seconda volta, e chiunque Mi sia stato fedele rimarrà per sempre nel Mio cuore” (“Prepara sufficienti buone azioni per la tua destinazione” in “La Parola appare nella carne”). Nelle parole di Dio ho visto la Sua indole, che non tollera offesa né le conseguenze del tradimento nei Suoi confronti. Ho anche acquisito consapevolezza della mia insubordinazione. La mia fede in Dio era troppo debole e io non avevo di Lui una vera comprensione, e ancor meno ero stato davvero obbediente verso di Lui. Stando così le cose, era sicuro che Lo avrei tradito. Ho pensato a come Giuda avesse venduto Gesù per trenta miseri denari d’argento e a come, in quell’istante, io fossi pronto a tradire Dio solo per avere in cambio un momento di conforto e sollievo. Se non fosse stato per la tempestiva illuminazione delle parole di Dio, sarei diventato uno dei traditori di Dio e sarei stato condannato per l’eternità! Dopo aver compreso la volontà di Dio, sono arrivato a capire che Dio aveva predisposto tutto nel migliore dei modi. Ho pensato tra me e me: “Se Dio permette che io soffra o muoia, sono disposto ad assoggettarmi e mettere la mia vita nelle Sue mani. Non ho voce in capitolo a questo riguardo. Anche se mi restasse un solo respiro, devo tentare di soddisfare Dio e rimaner saldo nel renderGli testimonianza”. In quel momento mi è venuto in mente un inno della Chiesa: “Potrò anche rompermi la testa e versare sangue, ma la tempra del popolo di Dio non può andare perduta. Il mio cuore ha accolto l’incarico di Dio; io decido di umiliare il diavolo Satana” (“Desidero vedere il giorno della gloria di Dio” in “Seguire l’Agnello e cantare dei canti nuovi”). Mentre canticchiavo mentalmente l’inno, la mia fede ha ripreso slancio e ho deciso che, se fossi morto, sarebbe stato per Dio. Per nessuna ragione al mondo potevo cedere a quel vecchio diavolo che era il governo del PCC. Vedendo che rimanevo lì steso a terra immobile, i malvagi poliziotti si sono messi a tentarmi dicendo: “Tutta questa sofferenza vale davvero la pena? Qui ti stiamo dando l’opportunità di compiere una buona azione. Dicci tutto quello che sai. Anche se non dici nulla, abbiamo tutte le testimonianze e le prove che ci servono per condannarti”. Alla vista di come quei demoni divoratori di uomini tentavano di indurmi a tradire Dio e fare la spia sui miei fratelli e sorelle per rovinare l’opera di Dio, non sono più riuscito a trattenere la rabbia che mi ribolliva dentro e ho urlato loro in risposta: “Se già sapete tutto, allora suppongo non ci sia motivo di interrogarmi. Anche se sapessi tutto non vi direi mai nulla!” Furenti, i poliziotti hanno risposto gridando: “Se non confessi, ti tortureremo a morte! Non credere che uscirai di qui vivo! Convinciamo a parlare tutti quei condannati a morte, pensi di essere più tosto di loro?” Ho risposto: “Ora che sono vostro prigioniero, non conto di uscirne vivo!” Senza dire altro, i poliziotti sono partiti alla carica prendendomi a calci in pieno stomaco. Faceva così male che mi sentivo come se mi avessero tagliato le viscere in due. Dopodiché gli altri agenti si sono avventati su di me e mi hanno picchiato finché ho di nuovo perso i sensi… Quando sono rinvenuto, mi sono ritrovato appeso al muro come prima, ma stavolta ancora più in alto. Avevo tutto il corpo gonfio e non riuscivo a parlare ma, grazie alla protezione di Dio, non provavo il minimo dolore. Quella notte la maggior parte degli agenti se n’è andata e i quattro incaricati di sorvegliarmi si sono addormentati quasi subito. D’un tratto le mie manette per miracolo si sono aperte e sono caduto a terra con leggerezza. In quel momento si è risvegliata in me la consapevolezza e ho ripensato in un lampo a come Pietro fosse stato salvato dall’angelo del Signore durante la sua prigionia. Le catene erano cadute dalle mani di Pietro e la grata di ferro della sua cella si era aperta da sé. È stato per via della grande elevazione e grazia di Dio che ho potuto fare esperienza dei Suoi atti miracolosi proprio come Pietro. Subito mi sono inginocchiato a terra rivolgendo a Dio una preghiera di ringraziamento: “Amato Dio! Ti ringrazio per la Tua misericordia e la Tua dolce premura. Ti ringrazio per avermi vegliato senza sosta. Quando ero in fin di vita e la morte era imminente, mi hai protetto in segreto. È stato il Tuo grande potere a proteggermi e a permettermi di testimoniare ancora una volta le Tue azioni prodigiose e la Tua onnipotente sovranità. Se non lo avessi sperimentato di persona, non l’avrei mai creduto vero!” Attraverso la sofferenza ero stato ancora una volta testimone della salvezza di Dio e mi sentivo profondamente commosso e colmo di infinito calore. Avrei voluto andarmene via, ma ero così malridotto che non riuscivo a muovermi; così mi sono semplicemente addormentato lì, sul pavimento, e ho dormito finché non mi sono bruscamente svegliato all’alba. Vedendomi sdraiato a terra, i malvagi poliziotti si sono messi a litigare tra loro, cercando di appurare chi mi avesse tirato giù. I quattro agenti che erano stati incaricati di sorvegliarmi durante la notte hanno dichiarato che nessuno di loro aveva le chiavi delle mie manette. In piedi attorno alle manette, le fissavano sbigottiti: le hanno controllate uno per uno senza tuttavia trovare la minima traccia di rottura. Mi hanno chiesto come si fossero aperte e io ho risposto: “Si sono aperte da sole!” Non mi hanno creduto, ma io sapevo in cuor mio che era stato grazie al grande potere di Dio e che si trattava di uno dei Suoi atti miracolosi.

 

In seguito, vedendomi così debole da che sarei potuto morire da un momento all’altro, i malvagi poliziotti non hanno più osato appendermi, e così sono passati a una diversa forma di tortura. Mi hanno trascinato in una stanza e mi hanno fatto sedere su una sedia elettrica. Una morsa di metallo mi teneva giù testa e collo, e braccia e gambe erano legate in modo che non potessi muovere neppure un muscolo. Ho rivolto a Dio una preghiera silenziosa: “O Dio! Tutto ricade sotto il Tuo controllo. Sono già sopravvissuto a molte prove che hanno messo a repentaglio la mia vita e ora la affido ancora una volta a Te. Ho la volontà di collaborare con Te per restare saldo nella mia testimonianza e umiliare Satana”. Conclusa la preghiera mi sono sentito calmo, composto e senza traccia di paura. A quel punto uno degli agenti ha acceso l’interruttore della corrente, e tutti i suoi sottoposti hanno assistito col fiato sospeso per vedere come avrei reagito alla scossa. Quando hanno visto che non reagivo in alcun modo sono andati a controllare il contatore. Vedendo che continuavo a non reagire, non hanno potuto trattenersi dal guardarsi l’un l’altro sbigottiti senza credere ai loro occhi. Alla fine uno dei sottoposti ha detto: “Forse la sedia elettrica ha un contatto difettoso”, si è avvicinato ed è bastato che mi toccasse con la mano per lanciare un grido: la scarica elettrica lo ha fatto balzare indietro di un metro ed è caduto a terra, urlando di dolore. Alla sua vista gli altri tirapiedi, una decina, si sono precipitati fuori dalla stanza mezzi morti di paura. Uno di loro era talmente spaventato che è scivolato, cadendo a terra. C’è voluto molto tempo prima che due dei sottoposti venissero a slegarmi, tremando per il terrore di prendere la scossa anche loro. Per tutti i trenta minuti in cui sono rimasto legato alla sedia elettrica non ho mai sentito neanche l’ombra di una scossa. Era come essere seduto su una normalissima sedia. Ancora una volta ero stato testimone del grande potere di Dio e avevo percepito fin nel profondo la Sua amorevolezza e gentilezza. Anche se avessi perso tutto ciò che avevo, compresa la mia stessa vita, fintanto che Dio era al mio fianco avevo tutto ciò che mi serviva.

 

Dopodiché, i poliziotti malvagi mi hanno riportato al centro di detenzione. Ero ricoperto dalla testa ai piedi di tagli, lividi e ferite; braccia e gambe erano terribilmente gonfie; ero profondamente debilitato e non riuscivo ad alzarmi, a sedermi e neppure a mangiare. Mi trovavo davvero sul punto di crollare. Quando in cella gli altri detenuti del braccio della morte sono venuti a sapere che non avevo fatto la spia su nessuno, hanno cominciato a vedermi in una nuova luce e mi hanno detto in tono di approvazione: “Sei tu il vero eroe, noi siamo dei falsi eroi!” Si sono persino messi a litigare su chi dovesse darmi cibo e vestiti… Vedendo il modo in cui Dio aveva operato in me, i malvagi poliziotti non si sono più azzardati a torturarmi e mi hanno persino tolto manette e catene. Da quel momento nessuno ha più osato interrogarmi. Ciò nonostante, la polizia non si era ancora arresa e così, per potermi estorcere le informazioni riguardanti la Chiesa, hanno provato ad aizzarmi contro gli altri detenuti per farmi cedere. Hanno cercato di istigarli dicendo: “Coloro che credono in Dio Onnipotente dovrebbero essere picchiati!” ma, con loro sorpresa, uno dei detenuti, un assassino, ha risposto: “Non farò mai come dite. Non solo non lo picchierò, ma nessuno in questa cella lo farà! Ci troviamo tutti qui dentro perché qualcun altro ci ha venduti. Se tutti fossero leali come quest’uomo, nessuno di noi sarebbe stato condannato a morte”. Un altro ha detto: “Tutti noi siamo stati arrestati per aver compiuto delle azioni davvero brutte e per questo meritiamo di soffrire. Mentre quest’uomo è un credente in Dio e non ha commesso alcun crimine, eppure voi l’avete torturato al punto da renderlo a malapena riconoscibile!” Uno per uno, tutti i detenuti hanno preso parola contro le ingiustizie che avevo subito. Alla vista di quanto accadeva, i poliziotti temendo che la situazione sfuggisse loro di mano non hanno aggiunto altro, e se ne sono andati via demoralizzati. In quel momento mi è venuto in mente un passo della Bibbia, che recita: “Il cuore del re, nella mano di Jahvè, è come un corso d’acqua; Egli lo volge dovunque gli piace” (Proverbi 21:1). Vedendo con i miei occhi come Dio aveva spinto gli altri detenuti a venire in mio soccorso, mi sono profondamente persuaso che tutto ciò era stato opera di Dio e la mia fede in Lui si è rafforzata ancora di più!

 

Quando una strategia non funzionava, quei poliziotti malvagi ne escogitavano un’altra. Stavolta mi hanno fatto assegnare dal direttore del centro di detenzione il lavoro più faticoso: dovevo fabbricare due interi rotoli di finta cartamoneta al giorno. La finta cartamoneta fa parte di una tradizione cinese che vuole che si bruci denaro in offerta agli antenati defunti. Per confezionare un rotolo di finta cartamoneta si sovrappongono 1.600 fogli di alluminio e 1.600 di carta infiammabile. Il mio carico di lavoro era il doppio di quello degli altri detenuti e in quel momento avevo un dolore talmente insopportabile alle braccia e alle gambe che riuscivo a malapena sollevare oggetti o reggerli in mano. Perciò, anche lavorando tutta la notte, non c’era modo che portassi a termine l’incarico. I poliziotti usavano il mancato completamento del lavoro come pretesto per infliggermi punizioni corporali di ogni sorta. Mi obbligavano a fare docce fredde quando la temperatura era di -20°C; mi facevano lavorare fino a tarda notte oppure rimanere di guardia, con il risultato che non riuscivo mai a dormire per più di tre ore a notte. Se non riuscivo a portare a termine il lavoro per più giorni di fila, radunavano tutti i detenuti della mia cella, ci portavano fuori, ci circondavano con le pistole spianate e ci facevano accovacciare al suolo con le mani dietro la testa. Se qualcuno non riusciva a restare in quella posizione, gli somministravano una scarica elettrica con un manganello elettrico. Quei crudeli poliziotti hanno usato ogni metodo a loro disposizione per portare gli altri detenuti a odiarmi e maltrattarmi. In quella situazione non mi è rimasto che presentarmi al cospetto di Dio in preghiera: “Amato Dio, so che questi malvagi agenti stanno istigando gli altri detenuti per indurli a odiarmi e torturarmi perché io Ti tradisca. È una guerra spirituale! O Dio! Comunque mi trattino gli altri detenuti, sono disposto a sottomettermi alle Tue orchestrazioni e disposizioni e Ti prego di concedermi la determinazione per sopportare questa sofferenza. Voglio restare saldo nel testimoniarTi!” Dopodiché sono stato ancora una volta testimone delle azioni di Dio. Non solo i detenuti del braccio della morte non mi hanno odiato, ma hanno persino indetto uno sciopero in mia difesa e richiesto agli agenti di dimezzare il mio carico di lavoro. Alla fine la polizia non ha avuto altra scelta che cedere alle loro richieste.

 

Benché costretti a dimezzarmi il carico di lavoro, i poliziotti avevano ancora qualche asso nella manica. Dopo qualche giorno è arrivato in cella un nuovo “detenuto”. Era molto gentile con me: mi comprava qualsiasi cosa mi servisse, mi procurava il cibo, mi ha chiesto della mia salute e anche perché fossi stato arrestato. All’inizio non ci ho badato e gli ho detto che ero un credente in Dio e che ero stato arrestato per aver stampato materiale religioso. Lui ha continuato a far domande su aspetti specifici della mia attività di tipografo e io, accortomi che le sue domande si facevano sempre più insistenti, mi sono sentito a disagio e ho rivolto a Dio una preghiera: “Amato Dio, tutte le persone, le cose e le situazioni che ci circondano sono permesse da Te. Se quest’uomo è un informatore per conto della polizia, Ti prego di rivelarmi la sua vera identità”. Finito di pregare, sono rimasto in silenzio davanti a Dio e mi è venuto in mente un passo delle Sue parole: “Restare calmi nella Mia presenza, e vivere secondo la Mia parola è la chiave per rimanere guardinghi ed esercitare discernimento nello spirito. Quando Satana arriverà, si sarà in grado di difendersi nonché se ne percepirà la venuta; ci si sentirà a disagio nel proprio spirito” (Capitolo 19 di “Discorsi di Cristo al principio” in “La Parola appare nella carne”). Ho riflettuto più e più volte sulle domande che il presunto “nuovo detenuto” mi aveva posto e mi sono reso conto che riguardavano esattamente ciò che la polizia voleva sapere da me. In quel momento è stato come svegliarmi da un sogno: non era che l’ennesimo tranello dei malvagi poliziotti, e quell’uomo era un informatore. Il “detenuto”, vedendo che di colpo ero ammutolito, mi ha chiesto se mi sentissi male. Ho risposto che stavo bene e poi, con severità e parlando con cognizione di causa, gli ho detto: “Lascia che ti risparmi la fatica dicendoti che stai sprecando il tuo tempo. Anche se sapessi tutto, non te lo direi!” Il mio modo di fare ha attirato gli elogi di tutti gli altri detenuti, che hanno detto: “Abbiamo da imparare da voi credenti. Voi sì che avete nerbo!” L’informatore non ha saputo cosa rispondere, e due giorni dopo è sparito.

 

Sono sopravvissuto un anno e otto mesi in quel centro di detenzione. Anche se quei poliziotti criminali hanno cercato in ogni modo di rendermi la vita difficile, Dio ha spinto i detenuti del braccio della morte a prendersi cura di me. In seguito il capo dei prigionieri è stato trasferito e i detenuti mi hanno eletto come nuovo capo. Ogni volta che uno di loro aveva un problema facevo del mio meglio per aiutarlo. Ho detto loro: “Io sono uno dei devoti a Dio. Dio ci richiede di vivere umanamente. Anche se siamo in carcere, finché siamo in vita dobbiamo vivere con una parvenza di umanità”. Dopo questa mia dichiarazione, i detenuti del braccio della morte hanno cessato le loro prepotenze ai danni dei nuovi arrivati. Se in passato sentir nominare la “cella numero 7” incuteva timore nel cuore dei detenuti, sotto la mia gestione quella cella è diventata un ambiente civile. Tutti i detenuti hanno detto: “I membri della Chiesa di Dio Onnipotente sono brava gente. Se mai usciremo di qui, di sicuro riporremo la nostra fede in Dio Onnipotente!” La mia esperienza al centro di detenzione mi ha rammentato la storia di Giuseppe. Durante il suo periodo di prigionia in Egitto, Dio fu al suo fianco, Dio gli concesse la grazia e tutto per Giuseppe si risolse nel migliore dei modi. Nel tempo trascorso lì dentro, io non avevo fatto altro che agire secondo le richieste di Dio e sottomettermi alle Sue orchestrazioni e disposizioni, e di conseguenza Dio è stato al mio fianco permettendomi di volta in volta di scongiurare la rovina. Ho reso grazie a Dio dal profondo del cuore per la grazia che mi aveva concesso!

 

Successivamente, senza uno straccio di prova, il governo del PCC ha imbastito delle false accuse e mi ha condannato a una pena detentiva di tre anni: soltanto nel 2009 sono stato finalmente rilasciato. Dopo che sono uscito di prigione, la polizia locale mi ha tenuto sotto stretta sorveglianza e mi ha ordinato di rimanere a sua completa disposizione. Ogni mio spostamento era sottoposto al controllo del governo del PCC e non avevo alcuna libertà personale. Sono stato costretto a fuggire dalla mia città natale andando a svolgere i miei doveri altrove. Per di più, dato che ero uno dei credenti in Dio, il governo del PCC si è rifiutato di iscrivere all’anagrafe la mia famiglia (a oggi, gli atti di iscrizione all’anagrafe dei miei due figli non sono ancora stati trascritti). Ciò mi ha reso ancora più chiaro che la vita sotto il controllo del governo del PCC è un inferno in terra. Mai e poi mai dimenticherò le crudeli torture inflittemi dal governo del PCC. Lo odio con tutto me stesso e preferirei morire che essere asservito in sua schiavitù. Lo rinnego totalmente!

 

Questa esperienza ha aumentato di molto la mia comprensione di Dio. Sono stato testimone della Sua onnipotenza e saggezza e dell’essenza della Sua bontà. Ho anche constatato che per quanto perseguiti i prescelti di Dio, il diabolico governo del PCC rimane soltanto un complemento, null’altro che un oggetto al servizio e a complemento dell’opera di Dio. Il governo del PCC è e resterà sempre l’avversario sconfitto di Dio. Così tante volte la protezione miracolosa di Dio mi ha salvato in momenti di disperazione, permettendomi di liberarmi dalla presa degli artigli di Satana e riguadagnare la vita quando ero in punto di morte; così tante volte le parole di Dio mi hanno rincuorato e ravvivato, e sono diventate il mio supporto e sostegno quando ero al massimo della debolezza e della disperazione, consentendomi di trascendere la carne e sottrarmi alle grinfie della morte; e così tante volte, quando mi trovavo al mio ultimo respiro, la forza vitale di Dio mi ha sostenuto e mi ha dato la forza di continuare a vivere. È proprio come dicono le parole di Dio: “La forza vitale di Dio può prevalere su ogni potenza; inoltre, è superiore a ogni potenza. La Sua vita è eterna, la Sua potenza è straordinaria, la Sua forza vitale non viene facilmente sopraffatta da alcun essere creato né da alcuna forza nemica. La forza vitale di Dio esiste e irradia il suo splendore luminoso, indipendentemente dal tempo e dal luogo. Cielo e terra possono subire grandi cambiamenti, ma la vita di Dio rimane per sempre la stessa. Tutte le cose passano, ma la vita di Dio rimane per sempre, poiché Egli è la fonte e la radice dell’esistenza di tutte le cose” (“Solo il Cristo degli ultimi giorni può offrire all’uomo la via della vita eterna” in “La Parola appare nella carne”). Sia resa ogni gloria all’onnipotente e vero Dio!

  

Fonte: La Chiesa di Dio Onnipoten

Incredibile come il dolore dell'anima non venga capito. Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare presto-barellieri-il-plasma, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore pezzi e sei così disperato che non ti riesce aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell'anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare.

 

(Oriana Fallaci)

Letizia

 

Lei faceva diversi lavori, ma quello più importante era di seguire, piangendo, i funerali. Raramente c’era un morto che non venisse accompagnato da Letizia e dalla sua schiera di donne addestrate al riguardo. Normalmente erano vecchie zitelle senza speranze, beghine o anche vedove, che avevano il compito di piangere ai funerali e, così facendo, passavano la loro modesta vita. Si riconoscevano dai loro fazzoletti neri sulle spalle e più ancora dai loro occhi gonfi dal tanto piangere.

Anche se Letizia significa “gioia”, non ha mai riso, durante tutta la sua vita, ma sempre solo pianto. Più piangeva e più contenta era perché guadagnava di più! Quando le domandavano come andavano gli affari, lei regolarmente rispondeva:

- Grazie a Dio, ho molto da piangere…

Durante il colera del 1911 Letizia dovette affrontare un duro scontro con le autorità che per questioni igieniche vollero vietare l’accompagnamento del morto. Letizia si ribellò a questa strana richiesta e tutto il paese era dalla sua parte. Già era un fatto doloroso morire di colera, ma ci si meritava almeno di essere compianti dal coro delle donne… Finalmente si giunse ad un accordo: Letizia e le vergini ottennero il permesso di accompagnare i morti, ma solo a una distanza di 50 metri.

Io la vidi per la penultima volta in un momento terribile, e cioè dopo il terremoto che aveva completamente distrutto il mio paese e tutti i paesi nei dintorni. Letizia stette pallida e come impazzita di disperazione in mezzo alle rovine.

- Guarda, guarda un po’ – mi disse e indicò le macerie – migliaia di morti ci stanno là sotto. Migliaia di morti e neanche un funerale!…

Negli ultimi anni credevo che fosse morta. Invece era la prima persona che incontrai quando ritornai al mio paese. Abbiamo scambiato alcune parole e ricordi. Naturalmente abbiamo anche parlato della crisi. Ma per Letizia la vera crisi era la crisi del pianto.

- Letizia, non ti sbagli? – le chiesi – non credi che le lacrime degli uomini che hanno amato il morto durante la sua vita, siano più efficaci del tuo pianto? Non credi che i singhiozzi della madre, della vedova o degli orfani siano più commoventi?...

- Non c’è pianto disinteressato – rispose Letizia con la sua logica inesorabile.

- Colui che piange ha sempre una ragione. Senza ragione solo i matti piangono o ridono. Per quanto ora concerne i familiari e gli eredi, puoi credere che il nostro pianto è più altruistico. È difficile che ci sia qualcosa di altrettanto interessato quanto il pianto dei parenti. Spesso il parente che singhiozza è la causa della morte, spesso impaziente aspetta il Falciatore per tradire il morto. Come fa Dio, che sa tutto, a credere a questo pianto? Era molto più nobile e più disinteressato il nostro pianto perché non avevamo un gran che da fare con il morto. Per Dio noi eravamo l’opinione pubblica…

- Letizia, non esagerare, hai pianto dietro a tutti i morti; come puoi pretendere che Dio prenda sul serio il tuo pianto? Dio ha ben capito il tuo fare…

Letizia mi guardò con commiserazione:

- Tu parli così perché non conosci Dio – rispose.

- In fondo Dio è un uomo buono. Non ha nessuna ragione per odiarci. Quando Dio ha un pretesto per fare del bene lo fa, non gli costa niente! Quando può chiudere un occhio, lo fa. Capito?

La logica di Letizia mi batté su tutti i fronti, non c’era senso di continuare a parlare.

Letizia mi chiese ancora:

- Là in Svizzera, dove ora vivi, come piangono le donne là?...

- Dipende. In alcune zone sono fiere e non vogliono far vedere le loro lacrime. Le mandano giù e di conseguenza devono singhiozzare…

Allora Letizia mi ha guardato una seconda volta con commiserazione:

- Ascolta – mi ha detto, dopo aver riflettuto un po’ – sono molto povera e non ti posso offrire niente. Ma promettimi una cosa: vieni a morire nel tuo paese. Sarebbe così bello piangere dietro alla tua salma…

Era la cosa più affettuosa che potesse dire.

 

Estratto da: Letizia, in Viaggio a Parigi (novelle inedite) di Ignazio Silone; Centro Studi Siloniani, Pescina 1993.

 

youtu.be/od78qemz-3Q

 

Con un pensiero che volava

 

Libero nell'aria

 

Guidando i mercenari

 

In via del tutto straordinaria

 

Presero l'Europa,

 

presero New York

 

Ed era già di moda

 

Una musica nei metrò

   

Con un pretesto inutile

 

Lo vennero a cercare

 

Lui che sapeva sempre

 

Cosa dire, cosa fare

 

Si vide circondato

 

Da chi gli fù fedele

 

Credendo di sognare

 

Disse: bene!

   

Sapete che la guerra

 

E' una vecchia commedia

 

Una farsa completa

 

La caccia a un nemico

 

Che alla fine tu non sai

 

Riconoscere

   

Gli occhi si parlano

 

E poi non sanno fingere

 

E anche voi maschere

 

Senza più nascondere

 

La colpa, mi dirai

 

E' un po' di tutti, ma

 

Solo qualcuno pagherà

 

E chi ha sbagliato ancora non si sa

   

Ma il caso volle che

 

Nessuno vinse la partita

 

Dopo la guerra non restò che

 

Fumo tra le dita

 

E un treno sta arrivando

 

Da dietro la collina

 

E tutto sembra quasi

 

Come prima

  

Così la gente del paese

 

Dice che è normale

 

Che non restava neanche

 

Molto tempo tempo per pensare

 

Qualcuno disse è falso

 

Qualcuno disse è vero

 

E il caso restò avvolto

 

Dal mistero

   

Ma la fine del racconto

 

Non ha una morale

 

Niente di speciale

 

O da farti sembrare

 

Tutta questa crudeltà

 

Un'abitudine

   

Possono rubare amore come se

 

Fosse loro quello

 

Che incontrano lungo il cammino

 

Dicono che vengono a proteggere

 

Ma la pace che tutti aspettavano

 

Ancora non c'è

   

Ma scendono lacrime

 

Contano le vittime

 

Mentre qui parlano

 

Facce bianche dai microfoni

 

Ma senza aver' pietà

 

La gente aspetterà

 

Che un'altra estate arriverà

 

E già si pensa al caldo che farà

   

Ma lassù vedo già

 

Una luce splendere

 

E dall'ovest fino all'est

 

Forse un giorno arriverà da te

 

Come per magia ancora l'allegria

 

Nei nostri cuori tornerà

 

E un nuovo giorno sta nascendo già

 

Nel segno di quel mondo che verrà.

 

Not the pretest horse in the heard. Just something about it that I like.The snow has returned to Caribou Mtn & so have I.

   

Alle elementari ho espresso il miglior rendimento della mia intera carriera scolastica.

Ricordo la maestra dei primi anni, una ex suora di nome Teresa Alboni. Donna assai materna e imponente, sobria e vestita di scuro che mi era molto affezionata essendo io, all'epoca, un ragazzino esile e fin troppo ben educato in condotta. Mai avrei ammazzato una mosca, non tanto in virtu' di idee pacifiste ma per semplice mancanza di forza d'urto!

Conservo tuttora in un cassetto i quaderni Fabriano sui quali scrivevo e disegnavo ed è curioso e commovente rileggerli.. Il voto su ogni paginetta era quasi sempre accompagnato dalla lode scritta con calligrafia elegante e ascendente, direbbero i calligrafi..

Dato che quei disegni semplici d'infanzia non erano, ovviamente, capolavori come tutto cio' che riempiva quegli spazi cartacei vuoti e ansiogeni, oggi posso supporre che la ex suora mi trattasse con un occhio di riguardo..

Ogni tanto poteva capitare che non fossi totalmente allineato con la retorica scolastica e, magari, in un componimento di poche righe sulle stagioni, potevo scrivere frasi del tipo "in autunno cadono le foglie, ma qualcuna resta sempre sull'albero"..

In presenza di un simile sussulto infantile di polemica provocatoria e destabilizzante era certo che la maestra mi avrebbe punito, simbolicamente, abbassando il punteggio di poco e togliendomi la lode .. Il bimbo deve avere cognizioni schematiche e deve sapere che d'autunno tutte le foglie cadono dall'albero, nessuna esclusa !

Sulle stagioni non si discuteva, come anche sulla bandiera italica, sulla religione, sulla morale, sull'etica della guerra santa di affrancamento dall'Austria-Ungheria, sul Risorgimento dei buoni contro i cattivi etc..

 

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Ho preso a pretesto questo appunto scolastico, per un cenno al concetto di perdita di senso della cultura umanistica oggigiorno.. E' una riflessione ispirata da un lungo e bell' articolo sul quotidiano "la Repubblica" di ieri sul quale si denuncia, senza troppo rammarico, la disaffezione degli scolari moderni nei confronti di qualsiasi insegnamento propinato in materia di storia, fiilosofia antica, arte antica, letteratura antica ..

 

E' vero che il giornalista tratta con tristezza del fenomeno ed esprime una malinconica nostalgia per il passato prossimo della cutura italica in via di archiviazione repentina.. ma credo che quell'articolo sia anche troppo fatalista verso la perdita dei valori intrinsecamente collegati alla "dimenticanza" della cultura classica e umanistica, quella dei grandi pensatori e intellettuali che hanno forgiato il modo di pensare di tante generazioni..

Se obiettivo della formazione scolastica dev'essere la creazione, spesso in esclusiva, date le carenze delle famiglie, della mentalità del futuro cittadino o intellettuale.. ecco che quell'ondata di nozionismo tecnologico a senso unico che va tanto di moda oggi puo' danneggiare fortemente la società del futuro. Perche' contribuisce molto a minare il senso critico dei giovani, incanalandoli verso il pensiero unico di un progresso "disumano"..

 

Insomma la scuola non deve forgiare solo bravi tecnici ossequienti al potere, utili ingranaggi del "sistema economico". La scuola puo' e deve fare molto di piu' ..

Per questo motivo io credo che anche le accademie e gli atenei debbano essere poco dipendenti dai finanziamenti privati. Gli sponsor privati tirano l'acqua al loro mulino, non si preoccupano della formazione del cittadino di domani e anche della ricerca scientifica pura svincolata da impieghi diretti, la sola che porta avanti il progresso.

 

Non credo che i giovani siano colpevoli di indirizzare la cultura scolastica verso le discipline tecnologiche, rendendo insegnanti e programmi tradizionali obsoleti e inutili. Credo piuttosto che sia tipica degli insegnanti la possibilità di creare interesse verso le discipline umanistiche, con creatività e nuove idee, nuovi stimoli da studiare ed estrinsecare.. E' il carisma dell'insegnante ad affascinare l'allievo su qualsiasi argomento.. E' il carisma dell'insegnante a gettare luce sulle antiche anfore romane oppure sul muro dei castelli medievali, oggetti altrimenti privi di interesse, giacenti immobili nel buio dell'oblio..

Erlkönig.

Wie eine geheime Designstudie stand mein Wagen heute vor meiner Tür.

 

Like a confidential design study my car stood infront of my door this morning .

Mar 12 2008

Sleeping On The Job

Ali (my teammate) and I were trying to study in the library during some downtime today and she had a great idea for my 365. Sleeping on my book!

 

Completely coincidentally THE SAME THING I WAS DOING EXACTLY ONE YEAR AGO!

 

How have I not failed yet?

365 Days

pretesti creativi

tutto e ok

Per non lottare ci saranno sempre moltissimi pretesti in ogni circostanza, ma mai in ogni circostanza e in ogni epoca si potrà avere la libertà senza la lotta!

Ernesto Che Guevara

Gneo Marcio Coriolano

Gneo Marcio Coriolano, in latino Gnaeus Marcius Coriolanus (527 a.C.? – ...), generalmente conosciuto come Coriolano, membro dell'antica Gens Marcia, fu uomo politico e valoroso generale al tempo delle guerre contro i Volsci.

Biografia

Il giovane Gneo Marcio, non ancora Coriolano, partecipò come semplice soldato alla decisiva battaglia del lago Regillo, distinguendosi per il proprio valore, tanto da meritare la Corona civica per aver salvato da solo in battaglia un altro cittadino romano.

 

Secondo Tito Livio e Plutarco a Gneo Marcio fu attribuito il cognome a seguito della vittoria di Roma contro i Volsci di Corioli, ottenuta anche grazie al valore del giovane patrizio; secondo altri storici il cognome indica che la sua famiglia fosse originaria della città stessa

 

(LA)

«Q. Marcius, dux Romanus, qui Coriolos ceperat, Volscorum civitatem, ad ipsos Volscos contendit iratus et auxilia contra Romanos accepit. Romanos saepe vicit, usque ad quintum miliarium urbis accessit, oppugnaturus etiam patriam suam, legatis qui pacem petebant, repudiatis, nisi ad eum mater Veturia et uxor Volumnia ex urbe venissent, quarum fletu et deprecatione superatus removit exercitum. Atque hic secundus post Tarquinium fuit, qui dux contra patriam suam esset.»

 

(IT)

«Q. Marcio, comandante romano, che aveva conquistato Corioli, città dei Volsci, accecato dall'ira si recò presso i Volsci e ottenne aiuti contro i Romani. Sconfisse spesso i Romani, arrivando fino a cinque miglia da Roma, pronto a combattere anche contro la sua patria, respinti i legati inviati per chiedere la pace, vinto solamente dal pianto e dalle suppliche della madre Veturia e della moglie Volumnia, andate a lui da Roma, ritirò l'esercito. E questo fu il secondo capo, dopo Tarquinio, ad essersi opposto alla propria patria.»

 

L'Eroe della presa di Corioli

Nel 493 a.C., consoli Postumio Cominio Aurunco e Spurio Cassio Vecellino, a Roma, per quella che sarebbe stata ricordata come la prima secessione, la plebe si era ritirata sul Monte Sacro.

 

La situazione era poi resa oltremodo complicata dalla necessità di definire un nuovo trattato (Foedus) con i Latini, compito che fu affidato al console Spurio Cassio, trattato che da lui prese di nome (Foedus Cassianum), e dai preparativi bellici intrapresi dai Volsci, contro cui si decise di intraprendere l'ennesima azione militare, affidandola al console Postumio Cominio.

 

Postumio Cominio iniziò la campagna militare guidando l'esercito romano contro i Volsci di Antium, città che venne espugnata. Successivamente l'esercito romano marciò contro le città volsche di Longula, Polusca e Corioli, tutte e tre conquistate dai Romani, quest'ultima con l'apporto decisivo di Gneo Marcio, tanto che Tito Livio annota:

 

«....L'impresa di Marcio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato coi Latini, concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non fosse rimasto inciso a perenne memoria su una colonna di bronzo, nessuno si ricorderebbe che Postumio Cominio combatté contro i Volsci»

 

Dai contrasti tra patrizi e plebei all'esilio

Intanto a Roma la prima secessio plebis e la conseguente mancata coltura dei campi aveva provocato un rincaro del grano e la necessità della sua importazione. Sotto il consolato di Marco Minucio Augurino e Aulo Sempronio Atratino, nel 491 a.C., Coriolano si oppose fortemente alla riduzione del prezzo del grano alla plebe, che lo prese in forte odio.

 

In effetti la contesa non riguardava tanto il prezzo del grano, ma il conflitto tra plebei e patrizi, con questi ultimi che ancora non si erano rassegnati all'istituzione dei tribuni della plebe, e cercavano in tutti i modi di contrastarne l'azione. In un contesto di feroci attacchi politici, Coriolano rappresentava l'ala più oltranzista dei patrizi, che propugnava il ritorno alla situazione antecedente alla concessione del tribunato ai plebei, e per questo motivo era attaccato violentemente da questi. Durante una di queste infuocate assemblee mancò poco che Coriolano fosse mandato a morte, gettato dalla rupe Tarpea.

 

«...A questo punto Sicinnio, il più impudente dei tribuni, dopo una breve consultazione con i colleghi, proclamò davanti a tutti che Marcio era stato condannato a morte dai tribuni della plebe, e ordinò agli edili di portarlo immediatamente sulla rocca Tarpea e di gettarlo giù nella voragine.»

 

Alla fine fu citato in giudizio dai tribuni della plebe, e a questo punto le versioni di Livio e Plutarco divergono. Secondo Livio, Gneo Marcio rifiutò di andare in giudizio, scegliendo l'esilio volontario presso i Volsci, e per questo motivo fu condannato in contumacia all'esilio a vita. Invece per Plutarco Gneo Marcio fu sottoposto al giudizio del popolo con l'accusa di essersi opposto al ribasso dei prezzi del grano, e per aver distribuito il tesoro di Anzio tra i commilitoni, invece di consegnarlo all'Erario. Anche per Plutarco, la condanna fu quella dell'esilio a vita.

 

La guerra contro Roma

Gneo Marcio scelse di recarsi in esilio nella città di Anzio, ospite di Attio Tullio, eminente personalità tra i Volsci. I due, animati da forti sentimenti di rivincita nei confronti di Roma, iniziarono a tramare affinché tra i Volsci, più volte battuti in scontri campali dall'esercito romano, si sviluppassero nuovamente motivi di risentimento contro i Romani, tali da far nascere in questi il desiderio di entrare in guerra contro il potente vicino.

 

«... Marcio e Tullo discutevano di nascosto in Anzio con i più potenti e li spingevano a scatenare la guerra mentre i Romani si combattevano tra loro. Ma mentre i Volsci erano trattenuti dal pudore perché le due parti avevano concordato una tregua e un armistizio di due anni, e furono i Romani a fornire loro stessi il pretesto, annunziando durante certi spettacoli e giochi, sulla base di qualche sospetto o falsa accusa, che i Volsci dovevano lasciare la città prima del tramonto. ...»

 

Alla fine i Volsci decisero per una nuova guerra contro Roma, ed affidarono a Coriolano e ad Attio Tullio il comando dell'esercito. Quindi i due comandanti si risolsero a dividersi le forze, rivolgendosi Attio ai territori dei Latini, per impedire che portassero soccorso a Roma, e Coriolano a saccheggiare la campagna romana, evitando però di attaccare le proprietà dei Patrizi, così da fomentare la discordia tra Plebei e Patrizi. L'espediente ebbe successo, tanto da permettere ai due eserciti Volsci, di tornare nel proprio territorio, carichi di bottino e senza aver subito alcun attacco dai Romani.

 

Successivamente, mentre Attio proteggeva con il proprio esercito la città, Coriolano volse il proprio esercito contro la colonia romana di Circei che fu presa, mentre Roma non reagiva per il montare della discordia tra i due ordini.

 

Alla fine a Roma si decise di arruolare un esercito, e si permise agli alleati Latini di prepararne uno per proprio conto, in quanto Roma non era in grado di difenderli dalle incursioni dei Volsci. Ai Volsci, che si preparavano alla guerra, si aggiunse poi la rivolta degli Equi. Coriolano, al comando del proprio esercito quindi prese Tolerium, Bola, Labicum, Corbione, Bovillae e pose l'assedio a Lavinium, senza che i Romani portassero aiuto a queste città.

 

Quindi Coriolano si accampò a sole cinque miglia dalle mura della città in località Cluvilie, dove fu raggiunto da un'ambasceria composta da cinque ambasciatori. Per tutti parlò Marco Minucio Augurino, senza però riuscire a far desistere Coriolano dal proprio intento; anzi i Volsci, sempre guidati dal condottiero romano, presero Longula, Satricum, Polusca, le città degli Albieti, Mugillae e vennero a patti con i Coriolan.

 

Leggermente diversa la versione di Tito Livio:

 

«Quindi conquistò Satrico, Longula, Polusca, Corioli, Mugilla, tutte città recentemente sottomesse dai Romani. Poi riprese Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina tramite delle scorciatoie, catturò una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio, Labico, Pedo. Infine da Pedo marciò su Roma e si accampò presso le fosse Cluilie, a cinque miglia dalla città»

 

Qui, alle porte dell'Urbe al IV miglio della Via Latina, dove si trovava il confine dell'Ager Romanus Antiquus (nei pressi dell'attuale Via del Quadraro), mentre i consoli del 488 a.C., Spurio Nauzio e Sesto Furio, organizzavano le difese della città, venne fermato dalle implorazioni della madre Veturia e della moglie Volumnia, accorsa con i due figlioletti in braccio, che lo convinsero a desistere dal proprio proposito di distruggere Roma.

 

«....Coriolano saltò giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla. Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre.»

 

Morte

Tito Livio riporta come non ci fosse concordanza sulla morte di Coriolano; secondo parte della tradizione, fu ucciso dai Volsci, che lo considerarono un traditore per aver sciolto l'esercito sotto le mura di Roma; secondo Fabio morì di vecchiaia in esilio.

 

Plutarco e Dionigi di Alicarnasso raccontano come Coriolano fu ucciso da una congiura, capitanata da Attio Tullio, mentre si stava difendendo in un pubblico processo ad Anzio, dove era stato messo sotto accusa dai Volsci per essersi ritirato, senza aver combattuto, da Roma. Poi, però, fu dimostrato che l’azione non era affatto condivisa da tutti, sicché fu seppellito con grandi onori e il sepolcro di Coriolano, ornato con armi e spoglie, fu considerato dalla popolazione il sepolcro di un eroe e di un grande generale. I Romani, invece, non gli tributarono onori quando seppero della sua morte, né tuttavia gli serbarono rancore, tant'è vero che alle donne fu consentito portare il lutto fino a un massimo di 10 mesi.

 

Cicerone, nel Brutus, nel paragonare Coriolano a Temistocle ne accomuna la sorte: si sarebbero entrambi tolti la vita una volta allontanati dalla patria.

 

Critica storica

Secondo parte della moderna storiografia Coriolano rappresenta un personaggio leggendario, creato per giustificare le sconfitte dei Romani nelle guerre contro i Volsci nella prima epoca repubblicana, guerre che arrivarono a minacciare l'esistenza stessa di Roma. I Romani trovarono giustificazione delle loro ripetute sconfitte, nella credenza che solo un condottiero romano avrebbe potuto sconfiggere un esercito romano. La circostanza che Coriolano non appaia tra i Fasti consulares aumenta il dubbio che si sia trattato di un personaggio storico.

 

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Raccolta Foto De Alvariis

...bisogna cercare di capire, lavorando di fantasia,

e dimenticare quel che si sa in modo che l'immaginazione

possa vagabondare libera, correndo lontana dentro le cose fino a vedere come

l'anima non è sempre un diamante ma alle volte velo di seta,

immagina un velo di seta trasparente, qualunque cosa potrebbe stracciarlo,

anche uno sguardo..

  

Un biglietto dimenticato di qualche difficile Natale fa', scritto su un sms, la storia della farfalla notturna che deve diventare donna. Pazienza.. è una parola che usiamo spesso, ci vuole pazienza. Ma quello che ci caratterizza di più sono sempre gli opposti contraddittori: impazienza. Netta netta.

Ci hanno cresciute male, ce lo siamo dette ridendo, sempre a sperare che ci sia il lieto fine per tutto, a tessere legami difficili cercando di sbrogliare la matassa. Poi qualche volta il lieto fine arriva. Magari non simultaneamente. Ma noi ci speriamo sempre, per noi stesse e l'una per l'altra.

Così sei tu, delicata come un velo di seta, in bianco e nero alla ricerca costante di colore, riccioli capricci, picci, la fotografia, il sorriso, occhi coperti perchè dici di non vedere, ma è perchè non sei capace di vederti a occhi scoperti. Hai degli occhi bellissimi.

E il mare, sottofondo sfondo.

Eri così a cinque anni, a dieci, a venti. Adesso. Mentre ridevamo da morirne sotto le coperte nella mia stanza inventando parole inesistenti, o mentre imploravamo di poter restare insieme tutto il pomeriggio, mentre suggerivamo a scuola.

Una melodia che mi accompagna in silenzio o a tutto volume più o meno tutti i giorni. Come il sangue che ti senti scorrere. Non lo senti davvero sempre, a volte solo quando il cuore batte forte. Ma sai che c'è.

   

Com'è noto, Antonio Ranieri innalzò alla sorella Paolina (Napoli 1817-Napoli 1878) - la quale aveva accudito Giacomo Leopardi durante il soggiorno napoletano, dal 1833 al 1837 - un monumento nella chiesa di Santa Chiara a Napoli. Esso è andato distrutto a seguito del bombardamento anglo-americano dell'agosto 1943: sopravvive solo la testa, ormai informe, nel Museo dell'Opera di Santa Chiara.

Fortunatamente, presso la Biblioteca Nazionale di Napoli è custodito in una bacheca il modello in gesso, della stessa grandezza del sepolcro. Il progetto è di Michele Ruggiero, che si ispirò a Canova; l'esecuzione è dello scultore Tommaso Solari, notevole ritrattista.

 

Vale la pena rileggere il brano di Mario Picchi:

 

"Il Ranieri fece erigere un monumento alla sorella in camposanto, e fin qui nulla di strano: ma si spinse, lui inveterato mangiapreti, a supplicare e brigare per ottenere che nella chiesa di Santa Chiara, ove son le tombe dei re di Napoli, sorgesse un grande monumento davanti al quale egli spesso si recava non a pregare ma a piangere (secondo l'atto notorio presentato dagli eredi); fece porre un medaglione marmoreo nella chiesa di Piedigrotta col pretesto che la defunta nel 1860 aveva amorevolmente curato i garibaldini feriti nella battaglia del Volturno. L'inventario dell'eredità mostrava poi che fotografie di Paolina, del monumento di Santa Chiara, del medaglione di Piedigrotta pendevano da tutte le pareti della sua casa in via Nuova Capodimnte e della sua casina di Portici, trasformate ambedue in musei nei quali non si poteva toccar nulla per non mutare la disposizione data dalla defunta. E il senatore, gloria partenopea, andava sovente nella casa di via Nuova Capodimonte (quando abitava a Portici) "imaginando di riveder la sorella ed aspettandola ritto a piè della scala, ma, trascorsa l'ora stabilita, rientrava nella vettura e tornava a Portici".

(Mario Picchi, "Storie di Casa Leopardi", Rizzoli)

 

Al ricercatore di funghi che passa per Rasiglia o per Sellano, due dei paesi più duramente colpiti dal terremoto del 1997, sembra che in quelle zone il peggio sia passato. Ma non è così. Lungo la strada che conduce al valico del Soglio non s’incontrano camion. Da quando è aperta la galleria di Sant’Anatolia il traffico locale, diretto all’incrocio con la SS209 della Valnerina, è ridottissimo. In questi giorni è venuto giù il diluvio, ma è spuntato anche il sole, a regalarci l’estremo segno dell’estate. Mentre nella Valle Umbra le olive già cadono, lassù spuntano gli ultimi funghi: i lardai, le biette, le trombette di morto, i sanguinosi, tanto ambiti dagli spoletini. Nelle selve di Terne e di Pupaggi scricchiolano le foglie. Nei boschi si sentono chiamarsi e ridere i ragazzi. Parcheggiano la macchina a lato della strada asfaltata e salgono su con il pretesto di raccogliere Cantarelli e Porcini. A volte perdono l’orientamento, sbagliano percorso, per ritrovarsi nei tratti di macchia meno fitta. Certi rinvenimenti devono avere qualche delicatezza se una ragazza strilla o gioisce, ogni tanto. Uno strepito, uno scroscio di risate, un precipitarsi su uno strato di foglie secche festeggiano la scoperta di un ovulo tardivo, già attecchito dai vermi o la testa scura di un porcino sbucata dal terriccio. Non sono i funghi che vanno a cercare. Poi ci sono i fungaroli veri, che come i boscaioli, resistono. Prima di mettersi all’opera, sornioni, si incontrano per un caffè nei baretti di paese. Taciturni, asociali e sospettosi, quando albeggia sono già nel fitto. Conoscono palmo dopo palmo le selve dell’Appennino, riempiono i sacchi e talvolta li nascondono sotto le foglie. Sono dei delusi, dei frustrati. Incapaci di praticare il consorzio umano, trovano conforto a praticare i boschi. Siparietto. È un ometto con gli occhiali spessi e la giacca di fustagno quello che sbuca da una macchia. Quando arriva il freddo e i funghi non spuntano più, parte la mattina con una sega a motore per far legna nei boschi. Ne taglia quanto può e poi la vende. La metà la dà al proprietario. Dopo aver nascosto i funghi in macchina, sproloquia, sragiona del giusto e dell’ingiusto, dell’onesto e del disonesto, della legge di stabilità e delle piccole cose accadute in paese. Parla della promessa esenzione Irpef per redditi sotto i 12 mila euro e della rottamazione delle cartelle esattoriali, segno che i partiti si preparano alle prossime elezioni. Forse ci acchiappano più i fungaroli degli analisti politici che si accapigliano in televisione. La crisi economica non lo tocca, perché è nato povero e ci morirà, tanto “non si fanno mica le nozze con i funghi”. Se lo dice lui. Teme solo il freddo che sta per arrivare. Non è vero che i funghi non nascano più a novembre, sentenzia, ma quando nascono marciscono sotto le foglie, perché nessuno li va a cercare. Lo dice ironizzando, come se volesse sottintendere qualcos’altro, che nella sua mente abbia preso le sembianze di un dilemma, qualcosa che se risolto possa, alla lunga, mutare la società e il mondo intero. Tra pochi giorni sui valichi inizierà a nevicare, il vento farà stormire i fianchi della montagna, ma non dissiperà i rancori degli uomini, mentre gli animali si muoveranno nel sonno profondo del loro letargo. Il fungarolo la sa lunga, più di quanto vorrebbe far credere. Gioca con le metafore, parla di marmotte sedute in Parlamento, di vipere aggrovigliate nelle tane dei partiti, di lepri che più le rincorri e più scappano e di ghiri che aspettano solo la pensione. Tutte queste cose le ha imparate al bar, la sera, al tavolino della briscola e tre sette e le racconta a modo suo, prima di salire sulla Panda e sparire in direzione di Sellano, senza averci mostrato i funghi. I fungaroli possono rivelare i loro rancori, i contenuti dei cesti mai. Sbagliano i politici a credere che certi mondi siano lontani, che la gente semplice non lasci crescere dentro di sé le proprie convinzioni, come la terra, d’inverno, il grano. Mentre le città sono strette nella morsa dell’assuefazione, che fa accettare di buon grado l’inganno e il sopruso, tra i monti, c’è chi non dimentica le promesse tradite, i progetti abbandonati. Fungaroli sì, ma mica fessi. Beata umbritudine, umbra beatitudine.

Giovanni Picuti

giovanni.picuti@alice.it

dal Corriere dell'Umbria del 14.11.2013

   

31 agosto 2010

 

I fuochi d'artificio di Cesa, paese della Val di Chiana, sono ormai un "must" per tutti quelli che abitano nei dintorni, famosi per la loro spettacolarità e durata (quasi mezz'ora!), in effetti era la prima volta che li vedevo e giuro che di così belli non ne avevo mai visti.

Guardandoli attraverso l'obiettivo della fotocamera, in tutta sincerità, non posso dire di essermeli goduti come le altre persone presenti, però riguardando le foto non potete immaginare la felicità che ho provato vedendo che almeno una era venuta bene, dato che fotografarli è stato veramente difficile per me: era un continuo cambiare tempi e diaframma, il fuoco non sapevo esattamente dove posizionarlo, senza contare che nel primo momento i fuochi sono molto luminosi, poi sbiadiscono lentamente. Insomma è stata davvero una faticaccia, che però mi ha reso entusiasta regalandomi questa bella fotografia.

 

I fuochi d'artificio sono stati inventati nell'antica Cina. La più recente documentazione risale addirittura al settimo secolo, dove venivano usati per spaventare e disperdere gli spiriti maligni con il loro potente suono, pregando così per la felicità e la prosperità future.

Presto l'arte e la scienza dei fuochi d'artificio si svilupparono diventando pian piano una professione a tutti gli effetti, i “maestri artificieri” erano molto rispettati per la loro sapienza e abilità in quest'arte che mescola suoni potenti con luci abbaglianti, così fino al quattordicesimo secolo vennero utilizzati solo ed esclusivamente per cerimonie regali ed eventi mondani di eccellenza; solo dopo l'era delle dinastie nasce il fuoco d'artificio inteso come celebrazione di feste, inizio di un nuovo anno o semplice pretesto per fare un po' di baccano, più alla portata di tutti.

E' grandioso pensare che abbiano così tanti anni, e che, ancora oggi, ci meraviglino sempre come la prima volta che li abbiamo visti, come se ad un tratto tornassimo bambini, in quegli anni che a tutti mancano, quando ogni cosa intorno a noi destava la nostra fantasia e ogni passo che facevamo era sempre una nuova scoperta.

 

Gianluca Rosadini

La foto è un pretesto. Per chiedere a voi, amici e contatti di flickr, un piccolo aiuto.

Alcuni colleghi stanno facendo una ricerca sui social network. Se avete tempo e voglia di aiutarli, questo è il link al questionario (in inglese):

 

www.surveymonkey.com/s/Academic_Research_2

 

Alcuni di voi avevano già partecipato, ma questa è la nuova versione del questionario.

E' veloce e indolore :-)

Grazie a tutti coloro che contribuiranno!

 

Umbria- Bacco Minore (da Wine Passion - febbraio 2009)

 

Fino a qualche anno fa l’Umbria aveva il sapore di un grappolo d’uva appena colto dalla pianta. I suoi vini svelavano il mistero delle profondità della terra e la presenza discreta della mano tradizionale dell’uomo. La vite cresceva alla rinfusa, abbracciata all’acero o alla bianchella, in promiscuità con il grano e con le altre coltivazioni foraggere. Ma erano piuttosto gli ulivi a caratterizzare il paesaggio agrario della regione. Ancora sul finire degli anni Settanta quella umbra poteva definirsi un’enologia arcaica, quasi ancestrale; tanto è vero che Mario Soldati, nel suo <> (1968 – 1975) la salta a piedi pari. Eppure già tra le due guerre, e fino all’inizio del boom economico, in Italia la parola “Orvieto” racchiudeva in sé la definizione inequivocabile di “vino bianco”. Poteva capitare in quegli anni, che l’oste chiedesse ai suoi clienti: <>. Sulle qualità organolettiche di quel vino di allora non saprei aggiungere altro, perché ne ho un vago ricordo che si perde nel tempo, fatto di calori appassionati, contrasti olfattivi, visioni adolescenziali, fiaschi impagliati e primi sorsi furtivi di libertà. So solo che al palato avvertivo le sue sfumature amarognole, alcune volte amabili e in certe bottiglie dei sentori dolci, ma sempre fini e delicati. Nemmeno sul suo colore si poteva scommettere: a volte giallo paglierino quasi intenso, altre più trasparente, ma mai torbido. Ci sarebbe da chiedersi perché quella denominazione, tra le più rappresentative del Paese, abbia perso la sua fama. Forse tutto è dipeso dal fatto che già negli anni Cinquanta nelle osterie italiane ne girava di più di quanto le ridenti colline dell’orvietano potessero produrne. La cosa dovrebbe farci riflettere. Ma il vino, si sa, non è soltanto quello che - talvolta con fastidiosa gestualità - volteggia all’interno del bicchiere. Il vino è soprattutto tante storie che vi ruotano intorno, è benessere e prosperità del distretto che lo produce, quadratura di bilanci locali, movimento di turisti e risorsa occupazionale.

Sfoglio alcuni libri ormai rarissimi: “I vini d’Italia” di Luigi Veronelli (1961); “Il libro d’oro dei vini d’Italia” di Cyril Ray (1966); “Vini rossi” e “Vini bianchi e rosati” di Stefano e Alberto Zaccone (1971); “Saper bere - dal Barbera al Whisky”, di Luigi Marinatto e Francesco Zingales (1974); l’”Atlante dei vini d’Italia” (1978), di Burton Anderson. I testi sacri mi confermano che nella storia dei territori consacrati all’enologia, le tre DOC allora riconosciute (Orvieto, Torgiano e Colli del Trasimeno) non meritavano che una fugace menzione. Per assistere al decollo dell’enologia umbra, per lunghi anni connessa a una situazione di abbandono, bisognerà attendere gli anni Ottanta, contrassegnati nella prima metà dalla figura pionieristica di Giorgio Lungarotti e nella seconda dall’exploit del Sagrantino. E’ questa una regione che, per uno scherzo della sorte, si connota d’incomparabili armonie e sfuggenti identità, secondo i fenomeni che più o meno consapevolmente l’attraversano. Il Sagrantino è uno di questi fenomeni, che oggi rappresenta l’Umbria, e la definisce, più di quanto non faccia l’Orvieto. Non è facile stabilire se questo risveglio sia solo merito dei Caprai, o anche dei produttori che hanno seguito il suo esempio. La disputa è aperta. Sta di fatto che Arnaldo, imprenditore tessile prestato all’enologia, ha creduto e investito nella ricerca e nella promozione, dando la prima coraggiosa spallata al mercato, puntando sul figlio Marco, vero elemento trainante per tutta la denominazione e, lasciatemelo dire, per l’economia legata al territorio. In verità non fu solo Caprai a comprendere le potenzialità di questo vino. Per Montefalco fu quello un periodo di grande complicità imprenditoriale, che spinse Arnaldo Caprai a unirsi alle altre aziende storiche: Antonini Angeli Mongalli, Domenico Benincasa, Ruozzi Berretta, Consorzio Agrario di Foligno, Bruno Metelli, Rio Pardi, Antonelli, Adelio Tardioli, Domenico Adanti; tutti produttori che giocarono la scommessa di trasformare in “secco” quello che la tradizione voleva fosse trasformato in “passito”. La caparbietà di questi produttori superò le resistenze di chi non aveva compreso le potenzialità dell’imponete corredo polifenolico di quest’uva a bacca rossa. Fu così che Montefalco, con il suo vitigno autoctono, lanciò la sfida al Barolo, all’Amarone e al Brunello, guadagnandosi un posto di assoluto rilievo nella storia del comparto enologico nazionale. Il Sagrantino è passato dai 100 ettari coltivati nel 2000 ai 600 di oggi e conta su 45 produttori facenti capo ad un consorzio di tutela. Ma soprattutto è entrato con prepotenza nelle grazie di quei consumatori che ricercano nel vino gli elementi misterici capaci di evocare storie e suscitare suggestioni. Oggi, contendendosi gli ultimi fazzoletti di terreno rimasti all’interno dei Comuni di Montefalco, di Giano, di Gualdo Cattaneo e di Bevagna è giunto il Gotha dell’enologia italiana, rappresentato dalla Sai Agricola, dai Lunelli, dai Livon, dai Cecchi e dagli stessi Lungarotti.

Il cuore pulsante di questa straordinaria denominazione si concentra lungo la direttiva che sale da Bevagna a Montefalco. E’ quello di Arquata, Fonte Fulgeri, Campo Letame e Colle Allodole, lo scenario francescano affrescato nel 1451 da Benozzo Gozzoli nella predica agli uccelli, che si può ammirare nella chiesa museo di San Francesco a Montefalco. All’interno di questa conca incontaminata prosperano le vigne delle aziende Adanti, Milziade Antano e Ciro Trabalza. Sul versante che volge a est, si affaccia Collepiano, con il suo secolare querceto circondato dai vigneti di Caprai. Risalendo verso Montepennino, si distendono a tappeto i nuovi impianti di Tiburzi, Goretti e Lunelli, produttori che hanno abbracciato la filosofia di questo lembo di territorio, dove il prezzo della terra, fino a un paio di anni fa, aveva raggiunto cifre esagerate. Proprio all’inizio di questa strada, in agro bevanate, incontro Ciro Trabalza, collega in codici e pandette, custode infallibile delle tradizioni rurali e venatorie della sua terra. La sua azienda di Arquata (ereditata da quel Ciro Trabalza, etnologo di fama mondiale) confina con quella degli Adanti. I tratti vagamente gattopardeschi, uniti al puntiglioso studio delle tecniche agronomiche - non meno di quanto il Principe di Salina studiava il moto perenne degli astri – fanno di Ciro uno di quei vignaioli che sarebbero piaciuti a Mario Soldati. Dalla sua cantina, a conduzione familiare, escono poche bottiglie, da cui Ciro si distacca con dispiacere. Più in là trovo Alvaro Palini, cantiniere, enologo e sarto dai trascorsi parigini, la cui esistenza è legata a quella della famiglia Adanti. Fu Angelo Valentini, enologo dei Lungarotti, che agli inizi degli anni Ottanta presentò Burt Anderson ad Alvaro, con il pretesto di fargli assaggiare il miglior Grechetto della zona. Burton in quegli anni era un critico di vini così importante come oggi lo sono diventati Hugh Johnson e Robert Parker, la cui influenza fu tale da incidere sul mercato vinicolo mondiale. Altro che Grechetto! Anderson fu colpito dal Sagrantino e dal Rosso d'Arquata. Fu così che tra Alvaro e Burton nacque una grande amicizia, suggellata dalla continua presenza di Anderson a Bevagna, Montefalco e al tavolo loro riservato nel ristorante degli amici Sandra e Angelo Scolastra. Oggi Burton ha lasciato lo scettro ad altri colleghi e ad altra filosofia. Sta costruendo il suo “buen retiro” in Maremma e di tanto in tanto viene a trovare Alvaro per assaggiare i suoi vini. Credo di non allontanarmi dalla verità nell’affermare l’influenza che ha avuto Burton Anderson sulla fama acquisita dal Sagrantino, che ebbe modo di far conoscere al mondo, prima che cominciassero a muoversi i soloni del nostro giornalismo enologico. Il resto l’ha fatto Caprai in anni più recenti, mandando a tilt la sua carta Alitalia delle Millemiglia per far conoscere il Sagrantino dalla Germania agli Stati Uniti, dal Giappone alla Cina. Oggi le cose stanno cambiando. Liù Pambuffetti, figlia di Amilcare e futura reginetta di Scacciadiavoli, studia all’Università di Enologia di Bordeaux. Non so quanti illustri rampolli di famiglie legate storicamente al vino facciano altrettanto. Giampiero Bea si fa ritrarre insieme a J. Nossiter, enologo di New York e regista di “Mondovino”, proponendo la sua faccia ai milioni di persone che hanno visto e vedranno i contenuti extra del film che denuncia la globalizzazione dell’industria vinicola. Il messaggio di Bea è lampante e si avvicina alla filosofia neoliberista di Nossiter: il vino è il frutto di un sapere che si trasmette tra padri e figli e la sua cura non va affidata alle decisioni dei soliti consulenti. Ma sono molte le aziende tradizionali che si sforzano di uscire dall’isolamento. Come quella di Luciano Cesarini, ingegnere ed ex capatazze dell’Enel che produce il “Rosso Bastardo” o quella di Filippo Antonelli, erede della nota azienda di San Marco o dello stesso Sindaco di Montefalco, Valentini Valentino (Bocale), che presiede l’Associazione Nazionale delle “Città del Vino” a dimostrazione della notorietà raggiunta nel panorama enologico nazionale dal Comune che egli amministra. Ma le sorprese più incoraggianti vengono da Tabarrini (Colle Grimaldsco) e da Antano (Colle Allodole), piccoli ma preparati imprenditori del settore, in sintonia con il mercato, ma senza far torto alla tradizione. Li ho visti aggirarsi per i padiglioni di Vinataly con padronanza e sicurezza del loro ruolo, corteggiatissimi dalla stampa e dai wine expert a caccia di novità enologiche.

Ad Amelia la fa da padrone il Cigliegiolo. La cantina dei Colli Amerini, con i suoi 700 ettari di vigneti di proprietà dei soci, produce anche La Torretta (Malvasia), il Vignolo (Grechetto), L’Olmeto (Merlot) e vini di grande struttura e longevità come il Carbio (un riuscito uvaggio di Merlot, Sangiovese, Ciliegiolo e Montepulciano) e il Torraccio (un I.G.T. monovitigno di Sangiovese Prugnolo). Sulla strada di Castelluccio Amerino incontriamo il Castello delle Regine, dove si produce un Sangiovese in purezza (Podernovo, Umbria I.G.T.).

L’Umbria è il vostro bicchiere, il cui contenuto liquido va manovrato con cura e attenzione. Solo così i contrasti apparenti e le piccole spigolosità dei suoi vini potranno farsi nel vostro palato note armoniche e lievi. Ma perché riveli il suo sapore eterno bisogna dedicarle tempo e attenzioni. Solo così potrete riconoscere nei suoi vini il vero e proprio ricostituente dell’anima che andavate cercando.

Giovanni Picuti

abcabc@cline.it

 

The Ford Mustang is an American automobile manufactured by Ford. It was originally based on the platform of the second generation North American Ford Falcon, a compact car.[1] The original Ford Mustang I four-seater concept car had evolved into the 1963 Mustang II two-seater prototype, which Ford used to pretest how the public would take interest in the first production Mustang which was released as the 1964 1/2, with a slight variation on the frontend and a top that was 2.7 inches shorter than the 1963 Mustang II.[2] Introduced early on April 17, 1964,[3] and thus dubbed as a "1964½" model by Mustang fans, the 1965 Mustang was the automaker's most successful launch since the Model A.[4] The Mustang has undergone several transformations to its current sixth generation.

 

The Mustang created the "pony car" class of American automobiles—sports-car like coupes with long hoods and short rear decks[5]—and gave rise to competitors such as the Chevrolet Camaro,[6] Pontiac Firebird, AMC Javelin,[7] Chrysler's revamped Plymouth Barracuda and the first generation Dodge Challenger.[8] The Mustang is also credited for inspiring the designs of coupés such as the Toyota Celica and Ford Capri, which were imported to the United States.

 

Also my sig rig

www.youtube.com/watch?v=L8Zyh7GIIqA

Rimbaud è ancora rilevante ora che stiamo vivendo una stagione infernale in una civiltà che si sta muovendo verso un nuovo ordine mondiale: questo comunitarismo è già la base di centinaia di nuove regole e regolamenti globali che eliminano i diritti individuali perché questo la politica ritiene che i diritti e le libertà individuali costituiscano una reale minaccia alla sicurezza della comunità - la propaganda messianica usata ci ricorda i giorni bui del nazismo o del comunismo. La storia non ci ha insegnato nulla: possiamo vedere le commemorazioni dell'Olocausto quasi quotidianamente mentre oggi c'è una proliferazione di armi chimiche (tecnologia delle camere a gas) ed energetiche su scala individuale. : è la tortura contemporanea per coloro che sono sospettati di non pensare correttamente. La tecnologia “Safe City” monitora tutti dal momento in cui lasciano la porta fino al momento in cui tornano, ed entrano nella tua casa per posizionare microfoni e micro telecamere con il pretesto che sei in contatto con una persona "sospetto" di terrorismo. Secondo Hannah Arendt, la preparazione al totalitarismo è riuscita quando le persone hanno perso il contatto con i loro simili e con la realtà che li circonda: pensaci!

 

Jan Theuninck nel libro “Rimbaud et moi”, pubblicato da Editions du Pont de l'Europe (settembre 2020) ISBN 978-2-36851-520-4

 

Lo psicologo tedesco lo spiega chiaramente, le misure della corona sono metodi di tortura che vengono utilizzati anche in Cina e Corea del Nord

www.youtube.com/watch?v=WdUNkPERLbg

twitter.com/i/status/1387893178267848706

 

Prof MD Karl Hecht (armes énergétiques)

cdn.lbryplayer.xyz/api/v4/streams/free/2021-03-13_LesPens...

 

Dr Russell Blaylock (armes chimiques - english/français)

twitter.com/i/status/1405536195241668611

Il XV sec. fu caratterizzato da scontri e contese tra i vari comuni che per controversie di confini e pascoli o per l'influenza di altri borghi sfociavano in vere e proprie guerre.

Queste rivolte erano anche alimentate da antichi odii.

Nel giugno 1477, ci fu una guerra tra Osimo e Ancona per il possesso del castello di Offagna, preteso da entrambe le città per il controllo dei territori.

La contesa nasce quando il papa Eugenio V, per gratificare il grande coraggio degli osimani, che sconfissero e cacciarono lo Sforza, il quale tentò di impossessarsi di alcuni territori della Marca, cioè territori di confine, confermò ad Osimo il possesso del castello di Offagna.

Nonostante ciò Ancona lo occupò ugualmente.

Osimo, per sconfiggere Ancona, decise di allearsi con Recanati e pagò un condottiero, Giovanni di Caipano, che organizzò gli uomini.

L'avversario si ritirò, dopo una lunga resistenza.

In realtà Osimo aveva incaricato il condottiero di distruggere l'intero abitato, ma ciò fortunatamente non avvenne.

Compromessa la pace tra Ancona ed Osimo, il Papa incaricò il cardinale Capranica di trovare una soluzione.

Il cardinale fece sottoscrivere tra Osimo e Ancona un documento nel quale si diceva che Offagna passava sotto il diretto dominio del Pontefice.

Dopo alcuni anni Ancona, con il pretesto di nuovi pericoli per il ritorno degli Sforza, ottenne il possesso di Offagna e Castelfidardo.

Sotto il papa Niccolò V, successore di Eugenio VI, il possesso di Offagna passò definitivamente ad Ancona che, non fidandosi del documento, mandò dei militari ad occupare Offagna.

Le tensioni tra Ancona ed Osimo continuarono per molto tempo, entrambi aspettavano il pretesto per esplodere.

Il confine d'Oriente del comune di Offagna era territorio osimano.

Il padre di Buccolino da Guzzone era proprietario del colle di Montegallo.

Un giorno Marco Schiavo, fattore di Boccolino, si accorse che alcuni maiali di proprietà di Giovanni Malacari stavano mangiando delle ghiande.

I maiali vennero presi e portati ad Osimo e sarebbero stati restituiti al proprietario dopo che questi avesse pagato il danno.

Gli offagnesi si vendicarono sequestrando 95 maiali il cui proprietario era Pietro di Giuliano ed il fattore venne ucciso, al suo uccisore fu dato il bando a vita e gli vennero confiscati di tutti i suoi beni.

Osimo ricorse all'aiuto del Papa Paolo II, che diede l'ordine di indagare sul caso e di fare un processo.

Ancona si fece dare i rinforzi da parte di Camerino e Ascoli.

Osimo, a sua volta, aveva organizzato 800 uomini che pose sotto il comando di Boccolino.

Gli Anconetani vennero colti di sorpresa, nel sonno.

Lo scontro avvenne nei pressi di S. Stefano: gli anconetani ebbero la peggio.

Il Papa Sisto V, venuto a conoscenza dello scontro, inviò una lettera ad entrambi i comuni minacciandoli di scomunicarli e la penalità di 10.000 ducati se non avessero deposto subito le armi.

Sotto il portone di casa di trovò Elena ad aspettarlo.

Era stretta nel lungo giubbotto nero con le mani schiacciate dentro le tasche per respingere il freddo.

Ivan si avvicinò e la guardò, aveva una lieve sbavatura della matita nera intorno agli occhi che lasciava pensare ad un pianto recente.

Per un momento pensò di ignorarla, non voleva dipendere così dall’umore di lei, non voleva più compromessi con altre persone.

Infilò la chiave nella toppa del portone, poi sospirò e abbassò la testa.

Senza guardarla disse: - è molto che aspetti?–

-Ci ho fatto l’abitudine ormai con te.–

-In un certo senso anch’io.–

Salì il primo gradino poi si affacciò di nuovo fuori e la guardò arreso: -Smettila di stare lì al freddo, vieni dai.–

Ivan le porse una birra e andò a sedersi accanto a lei sul divano, entrambi fissarono il vuoto al di là del televisore spento.

Presero brevi sorsate controvoglia e rimasero ancora in silenzio per alcuni minuti.

Non sapeva ancora se era giusto volere qualcosa da lei, se era giusto pretendere considerazione o spiegazioni per i lunghi periodi d’assenza.

Pensò che in fondo, tra loro, non c’era molto più che una sottospecie di amicizia, ma lei era così particolare e familiare che non riusciva a non considerarla parte di quei suoi giorni.

Ma in definitiva non aveva alcun diritto di essere in collera con lei, forse neppure sarebbe riuscito in quel periodo a portare avanti qualcosa di appena più impegnativo.

Lei continuava ad abbracciare il silenzio, non si era tolta neppure il giubbotto ancora.

Lui cominciò a raccontarle di quello che era accaduto nel pomeriggio, cercando di rendere il racconto più grottesco possibile, mimando le espressioni e solleticandola.

Lei finalmente si mise a ridere insieme a lui e si appoggiò alla sua spalla come quel giorno in macchina.

-Che cosa ti è successo.–

-Niente.–

-Davvero non ti va di raccontarmelo?–

Lei mentì –non ti riguarda.–

-Come vuoi.– la tranquillizzò Ivan, stringendola contro il suo petto.

Andò ad alzare un po’ il riscaldamento.

In effetti si gelava.

Le tolse con gesto inaspettatamente paterno il giaccone nero e lo ripose su una sedia.

Sotto aveva un pesante maglione verde militare, un paio di Jeans neri e i soliti anfibi.

Parlarono molto di come si fossero arenate le ricerche riguardanti la morte di suo fratello e poi parlarono di alcune piccole idee che avevano per i loro rispettivi futuri, di alcuni libri letti.

Ma era tutto un lunghissimo preliminare per far tardare ancora ciò che era ovvio.

Solo per rendere l’attesa ancora più elettrizzante, parlarsi uno sulla bocca dell’altro solo per avere un pretesto di avvicinarsi ancora.

Elena trascinata da quello scorrere di parole cominciò senza che nessuno dei due se ne accorgesse a baciare il collo di Ivan, gli tolse la maglietta e affondò le labbra sulla sua pelle bianca leccandogli il petto e sbottonando i pantaloni.

Era la prima volta che Ivan si trovava a tremare alle carezze di una ragazza.

Elena glielo prese in mano e cominciò a far scendere lentamente la pelle con delicatezza baciandolo piano e spingendo senza prepotenza la lingua dentro le labbra di lui a intrecciarsi con la sua.

Ivan tremava e sentiva le gambe informicolite, i brividi correvano appena sotto la pelle, tanto che bastò ancora qualche carezza e venne senza riuscire a controllarsi sulla mano di lei.

Di colpo si sentì disarmato e ridicolo, con quella eiaculazione lampo frapposta tra il desiderio ancora acceso di lei e il suo essere improvvisamente privo di qualsiasi malizia e irrimediabilmente innamorato.

Non tentò neppure di giustificarsi tanto si sentiva vulnerabile.

Lei continuò a muoversi nello stesso modo come se niente fosse successo, come se avesse dalla sua una comprensione che annienta qualsiasi barriera.

Per un momento Ivan rimase in balia delle sue attenzioni senza sapere cosa fare.

Poi capì che stava gettando attimi preziosi in stupide congetture.

Praticamente non aveva ancora sentito l’odore della sua pelle, praticamente non aveva ancora assaggiato il sapore di quel corpo che era lì come un dono fiammeggiante di desiderio.

Mentre sentiva la sua bocca aggirarsi dietro l’orecchio, mentre sentiva il fiato caldo del suo respiro, mentre capiva di essere l’uomo più stupido dell’universo a restare ancora immobile al suo cospetto, appoggiò la bocca sulla sua spalla e la morse tenendo la presa in bilico tra un leggero dolore e un piacere improvviso.

Elena liberò un lamento di piacevole stupore quasi impercettibile e Ivan la sollevò sulle sue ginocchia tenendole una mano premuta contro le cosce caldissime muovendola in modo che le dita le stuzzicassero un piacere crescente e prese lui adesso a baciarla con passione, senza più preoccuparsi per quel buio e ridicolo momento di debolezza, Tornò il desiderio a investirlo con la forza di un treno, e senza capire i passaggi intermedi si trovarono avvinghiati uno dentro l’altra sul lago delle lenzuola fino ad esplodere ancora, questa volta insieme e crollare, ancora stretti, in un sonno rigenerante.

  

Alessandro Pagni

(leggere dei "nostri" anni, con tristezza e un accenno di sorriso)

 

"In VECCHIE CARTE DA GIOCO Rosellina Balbi affronta la questione di cosa significhi essere di sinistra. E soprattutto quella che definisce "la tragedia dell'eguaglianza". Conclude l'articolo così, sotto il mio evidenziatore giallo ben calcato:"Personalmente, sono ancora e sempre del parere che la distinzione da fare sia quella tra l'eguaglianza e il diritto all'eguaglianza: la prima non esiste, (per fortuna):ciascuno di noi deve fare la sua corsa e arrivare dove potrà,saprà,vorrà. Altra cosa è la parità delle condizioni di partenza: è questo che la sinistra deve ottenere, così come deve continuare a battersi perché la innegabile diversità tra gli uomini non diventi pretesto per la discriminazione e il sopruso dei forti nei confronti dei deboli". ( pag.147, citando Rosellina Balbi, in LA REPUBBLICA, 29-11-1984)

  

Quando Stefano Roí compí i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di mare e padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo.

«Quando sarò grande» disse «voglio andar per mare come te. E comanderò delle navi ancora pi'u' belle e grandi della tua. »

« Che Dio ti benedica, figliolo » rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il suo bastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé.

Era una giornata splendida di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai stato sulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre delle vele. E chiedeva di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli davano tutte le spiegazioni.

Come fu giunto a poppa, il ragazzo si fermò, incuriosito, a osservare una cosa che spuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due-trecento metri, in corrispondenza della scia della nave. Benché il bastimento già volasse, portato da un magnifico vento al giardinetto, quella cosa manteneva sempre la distanza. E, sebbene egli non ne comprendesse la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente.

Il padre, non vedendo Stefano piú in giro, dopo averlo chiamato a gran voce invano, scese dalla plancia e andò a cercarlo.

« Stefano, che cosa fai lí impalato? » gli chiese scorgendolo infine a poppa, in piedi, che fissava le onde.

« Papà, vieni qui a vedere. »

Il padre venne e guardò anche lui, nella direzione indicata dal ragazzo, ma non riuscí a vedere niente.

« C'è una cosa scura che spunta ogni tanto dalla scia » disse « e che ci viene dietro. »

« Nonostante i miei quarant'anni » disse il padre « credo di avere ancora una vista buona. Ma non vedo assolutamente niente. »

Poiché il figlio insisteva, andò a prendere il cannocchiale e scrutò la superficie del mare, in corrispondenza della scia. Stefano lo vide impallidire.

« Cos'è? Perché fai quella faccia? »

« Oh, non ti avessi ascoltato » esclamò il capitano. « Io adesso temo per te. Quella cosa che tu vedi spuntare dalle acque e che ci segue, non è una cosa. Quello è un colombre. E’ il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. E’ uno squalo tremendo e misterioso, piú astuto dell'uomo. Per motivi che forse nessuno saprà mai, sceglie la sua vittima, e quando l'ha scelta la insegue per anni e anni, per una intera vita, finché è riuscito a divorarla. E lo strano è questo: che nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le persone del suo stesso sangue. »« Non è una

favola? »

«No. Io non l'avevo mai visto. Ma dalle descrizioni che ho sentito fare tante volte, l'ho subito riconosciuto. Quel muso da bisonte, quella bocca che continuamente si apre e chiude, quei denti terribili. Stefano, non c'è dubbio, purtroppo, il colombre ha scelto te e finché tu andrai per mare non ti darà pace. Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra, tu sbarcherai e non ti staccherai mai piú dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Me lo devi promettere. Il mestiere del mare non è per te, figliolo. Devi rassegnarti. Del resto, anche a terra potrai fare fortuna.» Ciò detto, fece immediatamente invertire la rotta, rientrò in porto e, coi pretesto di un improvviso malessere, sbarcò il figliolo. Quindi ripartí senza di lui.

Profondamente turbato, il ragazzo restò sulla riva finché l'ultimo picco dell'alberatura sprofondò dietro l'orizzonte. Di là dal molo che chiudeva il porto, il mare restò completamente deserto. Ma, aguzzando gli sguardi, Stefano riuscí a scorgere un puntino nero che affiorava a intermittenza dalle acque: il "suo" colombre, che incrociava lentamente su e giú, ostinato ad aspettarlo.

Da allora il ragazzo con ogni espediente fu distolto dal desiderio del mare. Il padre lo mandò a studiare in una città dell'interno, lontana centinaia di chilometri. E per qualche tempo, distratto dal nuovo ambiente, Stefano non pensò piú al mostro marino. Tuttavia, per le vacanze estive, tornò a casa e per prima cosa. appena ebbe un minuto libero, si affrettò a raggiungere l'estremità del molo, per una specie di controllo, benché in fondo lo ritenesse superfluo. Dopo tanto tempo, il colombre, ammesso anche che tutta la storia narratagli dal padre fosse vera, aveva certo rinunciato all'assedio.

Ma Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di due-trecento metri dal molo, nell'aperto mare, il sinistro pesce andava su e giú, lentamente, ogni tanto sollevando il muso dall'acqua e volgendolo a terra, quasi con ansia guardasse se Stefano Roi finalmente veniva.

Cosí, l'idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte divenne per Stefano una segreta ossessione. E anche nella lontana città gli capitava di svegliarsi in piena notte con inquietudine. Egli era al sicuro, sí, centinaia di chilometri lo separavano dal colombre. Eppure egli sapeva che, di là dalle montagne, di là dai boschi, di là dalle pianure, lo squalo era ad aspettarlo. E, si fosse egli trasferito pure nel piú remoto continente, ancora il colombre si sarebbe appostato nello specchio di mare piú vicino, con l'inesorabile ostinazione che hanno gli strumenti del fato. Stefano, ch'era un ragazzo serio e volonteroso, continuò con profitto gli studi e, appena fu uomo, trovò un impiego dignitoso e rimunerativo in un emporio di quella città. Intanto il padre venne a morire per malattia, il suo magnifico veliero fu dalla vedova venduto e il figlio si trovò ad essere erede di una discreta fortuna. Il lavoro, le amicizie, gli svaghi, i primi amori: Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante il pensiero del colombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando i giorni, anziché svanire, sembrava farsi piú insistente. Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora piú grande è l'attrazione dell'abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano, quando, salutati gli amici della città e licenziatosi dall'impiego, tornò alla città natale e comunicò alla mamma la ferma intenzione di seguire il mestiere paterno. La donna, a cui Stefano non

aveva mai fatto parola del misterioso squalo, accolse con gioia la sua decisione. L'avere il figlio abbandonato il mare per la città le era sempre sembrato, in cuor suo, un tradimento alle tradizioni di famiglia.

E Stefano cominciò a navigare, dando prova di qualità marinare, di resistenza alle fatiche, di animo intrepido. Navigava, navigava, e sulla scia del suo bastimento, di giorno e di notte, con la bonaccia e con la tempesta, arrancava il colombre. Egli sapeva che quella era la sua maledizione e la sua condanna, ma proprio per questo, forse, non trovava la forza di staccarsene. E nessuno a bordo scorgeva il mostro, tranne lui.

« Non vedete niente da quella parte? » chiedeva di quando in quando ai compagni, indicando la scia. « No, noi non vediamo proprio niente. Perché? » « Non so. Mi pareva... » « Non avrai mica visto per caso un colombre » facevano quelli, ridendo e toccando ferro. « Perché ridete? Perché toccate ferro? » « Perché il colombre è una bestia che non perdona. E se si mettesse a seguire questa nave, vorrebbe dire che uno di noi è perduto. »

Ma Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzi moltiplicare la sua volontà, la sua passione per il mare, il suo ardimento nelle ore di lotta e di pericolo.

Con la piccola sostanza lasciatagli dal padre, come egli si sentí padrone del mestiere, acquistò con un socio un piccolo piroscafo da carico, quindi ne divenne il solo proprietario e, grazie a una serie di fortunate spedizioni, poté in seguito acquistare un mercantile sul serio, avviandosi a traguardi sempre piú ambiziosi. Ma i successi, e i milioni, non servivano a togliergli dall'animo quel continuo assillo; né mai, d'altra parte, egli fu tentato di vendere la nave e di ritirarsi a terra per intraprendere diverse imprese. Navigare, navigare, era il suo unico pensiero. Non appena, dopo lunghi tragitti, metteva piede a terra in qualche porto, subito lo pungeva l'impazienza di ripartire. Sapeva che fuori c'era il colombre ad aspettarlo, e che il colombre era sinonimo di rovina. Niente. Un indomabile impulso lo traeva senza requie, da un oceano all'altro. Finché, all'improvviso, Stefano un giorno si accorse di essere diventato vecchio, vecchissimo; e nessuno intorno a lui sapeva spiegarsi perché, ricco com’era, non lasciasse finalmente la dannata vita del mare. Vecchio, e amaramente infelice, perché l’intera esistenza sua era stata spesa in quella specie di pazzesca fuga attraverso i mari, per sfuggire al nemico. Ma piú grande che le gioie di una vita agiata e tranquilla era stata per lui sempre la tentazione dell'abisso. E una sera, mentre la sua magnifica nave era ancorata al largo dei porto dove era nato, si sentì prossimo a morire. Allora chiamò il secondo ufficiale, di cui aveva grande

fiducia, e gli ingiunse di non opporsi a ciò che egli stava per fare. L'altro, sull'onore, promise.

Avuta questa assicurazione, Stefano, al secondo ufficiale che lo ascoltava sgomento, rivelò la storia del colombre, che aveva continuato a inseguirlo per quasi cinquant'anni, inutilmente. « Mi ha scortato da un capo all'altro del mondo » disse « con una fedeltà che neppure il piú nobile amico avrebbe potuto dimostrare. Adesso io sto per morire. Anche lui, ormai, sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso tradirlo. »

Ciò detto, prese commiato, fece calare in mare un barchino e vi sali, dopo essersi fatto dare un arpione. « Ora gli vado incontro » annunciò. « E’ giusto che non lo deluda. Ma lotterò, con le mie ultime forze. » A stanchi colpi di remi, si allontanò da bordo. Ufficiali e marinai lo videro scomparire laggiú, sul placido mare, avvolto dalle ombre della notte. C'era in cielo una falce di luna. Non dovette faticare molto. All'im'provviso il muso orribile del colombre emerse di fianco alla barca. « Eccomi a te, finalmente » disse Stefano. « Adesso, a noi due! » E, raccogliendo le superstiti energie, alzò l'arpione per colpire. « Uh » mugolò con voce supplichevole il colombre « che lunga strada per trovarti. Anch'io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi, fuggivi. E non hai mai capito niente. » « Perché? » fece Stefano, punto sul vivo. « Perché non ti ho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevo avuto soltanto l'incarico di consegnarti questo. » E lo squalo trasse fuori la lingua, porgendo al vecchio capitano una piccola sfera fosforescente. Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E lui riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore, e pace dell'animo. Ma era ormai troppo tardi. « Ahimè! » disse scuotendo tristemente il capo. «Come è tutto sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la tua.»

« Addio, pover'uomo » rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per sempre. Due mesi dopo, spinto dalla risacca, un barchino approdò a una dirupata scogliera. Fu avvistato da alcuni pescatori che, incuriositi, si avvicinarono. Sul barchino, ancora seduto, stava un bianco scheletro: e fra le ossicine delle dita stringeva un piccolo sasso rotondo. Il colombre è un pesce di grandi dimensioni, spaventoso a vedersi, estremamente raro.

A seconda dei mari, e delle genti che ne abitano le rive, viene anche chiamato kolomber, kahloubrha, kalonga, kalu-balu, chalung-gra. I naturalisti stranamente lo ignorano. Qualcuno perfino sostiene che non esiste.

("Il colombre" di Dino Buzzati)

9 JULY 14

 

In my quest to discover a new salmon dish, I happened to be watching one of my favorite daily vlogger's who made Salmon en croute for dinner. I thought it looked delicious, sounded delicious, and so I set about trying to make it. I haven't had a kitchen disaster in so long, that I think it really sort of floored me that everything all went wrong at once, but maybe I'm blowing it all out of proportion in retrospect.

 

The dish itself isn't particularly complicated. I wish I could have found the true traditional version of this dish, but all the recipes I found seemed corrupted somehow, so I went with what sounded delicious to me. Into the pan went a bit of EVOO, finely diced red onion, and baby spinach. I cooked the spinach down until it was wilted tossing in some minced garlic, salt, and freshly cracked pepper and a squeeze of lemon juice. Into a bowl went some cream cheese and when the spinach mix had cooled, I mixed them together. It tasted delicious...just like a spinach artichoke dip but without the artichoke. Next I pat dried my four fillets, salt and peppered both sides. I used store bought puff pastry which I unfurled and rolled out fairly thin. Then, as above, cream mix, salmon on top, another tiny squeeze of lemon, egg wash on the inside, wrapped it up, flipped them over, scored them, or in the case of the ones on right, attempted to make a little decoration with the excess and then egg wash on the top.

 

Yes, it was going well so far. As a side dish, I decided to make some "baked" pommes frites, but geezus, did these not work out. I should have par boiled them or something because they were wonderfully soft on the inside but crackly as hell on the outside and some were soggy, it just wasn't a good look. After 30 minutes I went to check on the salmon and it looked beautiful. It really did. I should have scored the packet in the back a bit deeper, but that's just decoration right. I got the sense though from touching the bottoms that the puff pastry wasn't done, so back into the oven for another 15 minutes. I tested one of the flower designed ones and it was horribly soggy on the inside and it had burst a bit pooling the inner juices on the tray so I feared the worst for the rest of them. One of my guests, cut into the first of the scored ones, and said, it was delicious, absolutely delicious and HOT! with heat. But by this time, for me, everything in my mind was going wrong. The frites were a weird and rubbery potato, but with a nice flavor, and the soggy salmon I had put me in an off mood. I thought my guests were just humoring me telling me the fish was good, and I HATE that. I prefer people to be honest with me, but sitting at the dinner table, thanks be, their packets were fine, cooked well, beautiful as I had intended, but mine was a pile of dough so I had to pick around the thing while they enjoyed what took almost an hour and a half for me to make. I don't know why I'm so hard on myself. My guests were happy, I could see their packets were nice and flaky but I felt really embarrassed that the potatoes were weird and that I was digging for fish on my plate. I just take a lot of pride in my cooking and everything has been wonderful for so long, that this was like personal. Like how dare I mess up.

 

The cliff notes version of this, is I won't e preparing this for guests probably ever again. I know get back on the horse and blah, blah, blah, and usually I do. When I fail, the next day, and sometimes even the same night, I will re-make a dish to prove to myself, if no one else that I can do it, but my heart isn't in this one and it continues to remind me why I hate baking!!! I will never be a great baker, that's for sure. I cannot stand how you have to wait until the last minute to see if something works out in the baking process with no way to pretest unless its like cake where you can stick a toothpick in. Can't do that with salmon en croute, nope!

 

I guess, looking at the bright side, my guests left happy and full and at least their plates were good. Yup...yup, trying to look on the bright side.

 

In other news, I went shopping today. It is clear I was not meant for this season's clothes. It was all weird cuts of high low shirts and dresses, and see through things and floral this and that. It's so hipster, and that isn't my aesthetic. Wake me up when they swing back around to the 50's look again. I think other than the 30's, that was the era where women looked like real women, accentuating the curves in the right places. None of this man jeans, and boyfriend jackets. If I wanted to wear men's clothing, I'd walk over there and buy men's clothing! Grr!

"Il Ranieri fece erigere un monumento alla sorella in camposanto, e fin qui nulla di strano: ma si spinse, lui inveterato mangiapreti, a supplicare e brigare per ottenere che nella chiesa di Santa Chiara, ove son le tombe dei re di Napoli, sorgesse un grande monumento davanti al quale egli spesso si recava non a pregare ma a piangere (secondo l'atto notorio presentato dagli eredi); fece porre un medaglione marmoreo nella chiesa di Piedigrotta col pretesto che la defunta nel 1860 aveva amorevolmente curato i garibaldini feriti nella battaglia del Volturno. L'inventario dell'eredità mostrava poi che fotografie di Paolina, del monumento di Santa Chiara, del medaglione di Piedigrotta pendevano da tutte le pareti della sua casa in via Nuova Capodimnte e della sua casina di Portici, trasformate ambedue in musei nei quali non si poteva toccar nulla per non mutare la disposizione data dalla defunta. E il senatore, gloria partenopea, andava sovente nella casa di via Nuova Capodimonte (quando abitava a Portici) "imaginando di riveder la sorella ed aspettandola ritto a piè della scala, ma, trascorsa l'ora stabilita, rientrava nella vettura e tornava a Portici".

(Mario Picchi, "Storie di Casa Leopardi", Rizzoli)

 

La foto mostra il ritratto di Paolina Ranieri (Napoli 1817-Napoli 1878) nella chiesa di Piedigrotta a Napoli, che il destino ha voluto ad un centinaio di metri dalla tomba di Leopardi.

Battaglia di Mentana

 

La battaglia di Mentana fu uno scontro a fuoco avvenuto presso la cittadina di Mentana, nel Lazio, combattuta il 3 novembre 1867, quando le truppe franco-pontificie si scontrarono con i volontari di Giuseppe Garibaldi, diretti a Tivoli per sciogliere la Legione essendo fallita la presa di Roma per la mancata insurrezione dei romani.

Premesse

 

Quando Vittorio Emanuele II di Savoia divenne re d'Italia il 17 marzo 1861, il nuovo Regno ancora non controllava né Venezia, né Roma. La situazione delle terre irredente (come si sarebbe detto alcuni decenni più tardi) costituiva una fonte di tensione costante per la politica interna italiana e la principale priorità della sua politica estera.

 

A volte le tensioni assumevano particolare gravità, come accadde nel 1862 quando Garibaldi, in marcia dalla Sicilia verso Roma, venne fermato dall'esercito italiano alla giornata dell'Aspromonte: ferito, venne fatto prigioniero e messo agli arresti domiciliari a Caprera. La decisa azione italiana contro un eroe nazionale permise al governo di negoziare un favorevole accordo con la potenza protettrice del Papa, la Francia: con la convenzione di settembre del 15 settembre 1864, il Regno d'Italia si impegnava a rispettare l'indipendenza del residuo Patrimonio di San Pietro e di difenderla, anche con la forza, da ogni attacco dall'esterno (ma non dall'interno) e la Francia a ritirare le sue truppe entro due anni, in modo da lasciare all'esercito pontificio il tempo di organizzarsi in una credibile forza di combattimento.

 

L'obiettivo della annessione di Roma rimaneva comunque assai popolare, né il Regno rinunciò al proposito di fare della città la sua nuova capitale, come sancito, a suo tempo, dal Cavour in persona. Diverse furono, in effetti, gli scontri e le azioni dei garibaldini sui confini o nella stessa città eterna.

L'organizzazione della spedizione garibaldina

 

Il 12 agosto 1866, terminata la cosiddetta Terza guerra di indipendenza italiana (un segmento della Guerra Austro Prussiana) con l'Armistizio di Cormons, il Regno di Italia aveva guadagnato Mantova, Venezia ed un'adeguata sistemazione dei confini orientali. Rimaneva aperta la questione di Roma e del Lazio, nucleo dello Stato Pontificio. Era rinviata a tempi migliori la questione di Trento e Trieste.

A ciò si aggiunga che nel dicembre 1866, le ultime unità del corpo di spedizione francese si erano imbarcate a Civitavecchia per la Francia, in applicazione della convenzione del 1864.

 

Particolarmente impegnato sulla "questione romana", ormai da due decenni Garibaldi andava dichiarando come fosse venuto il tempo di «far crollare la baracca pontificia» e, il 9 settembre 1867 ad un Congresso della Pace ospitato dalla protestantissima città di Ginevra, definiva il Papato «negazione di Dio ... vergogna e piaga d'Italia».

Da tenere ben presente, in questo contesto, è la rinnovata popolarità che Garibaldi aveva conquistato alla guerra del 1866, quale unico generale italiano che avesse saputo battere gli Austriaci alla battaglia di Bezzecca (mentre l'esercito e la marina del re avevano dovuto subire le duplici sconfitte alla battaglia di Custoza ed alla battaglia di Lissa). Ciò gli lasciava un rinnovato margine di manovra e rendeva assai più difficile al governo regio (comunque impegnato al rispetto della convenzione del 1864) fermare l'agitazione o i preparativi delle camicie rosse.

 

Garibaldi riuscì così a organizzare un piccolo esercito di circa 10.000 volontari[6], predisponendo, al contempo, un piano per la sollevazione di Roma.

 

La notizia di questa mobilitazione, tuttavia, era decisamente pubblicata e ben nota, ciò permise all'Imperatore di Francia Napoleone III di programmare con congruo anticipo una spedizione di soccorso al pontefice, che sarebbe, infatti, giunta a Civitavecchia solo alcuni giorni dopo l'inizio dell'invasione del Lazio. Vennero inoltre messe in allarme le truppe a disposizione del Papa, costituite, per due terzi da italiani e poi da volontari europei, tra cui francesi (specie nella cosiddetta legione di Antibes, mentre gli Zuavi pontifici erano costituiti da volontari belgi, svizzeri, irlandesi e olandesi, oltre che francesi e perfino canadesi.

L'invasione del Lazio

L'invasione degli Stati Pontifici era imminente. Il 21 settembre 1867 il presidente del consiglio Rattazzi fece pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale un monito con cui si esortavano gli italiani a rispettare l'integrità territoriale pontificia e non violare la frontiera. Ogni tentativo di sconfinamento, sarebbe stato impedito. In visita ad Arezzo, Garibaldi reagì chiamando all'appello i volontari per la conquista di Roma. Due giorni dopo, il generale nizzardo programmò di lasciare Sinalunga e spostarsi verso il confine ma il prefetto di Perugia ne ordinò l'arresto. Il tenente Pizzuti, della luogotenenza di Orvieto, si presentò alle ore 6 del 23 settembre presso l'abitazione di Garibaldi. Il generale era ancora a letto, non oppose resistenza. Salì sul treno e fu scortato fino ad Alessandria. Alla notizia del'arresto, si verificarono tumulti in alcune città d'Italia. Garibaldi espresse il desiderio di essere trasferito a Caprera, il governo acconsentì. La detenzione del generale tuttavia non eliminava la minaccia dell'invasione dello Stato Pontificio, infatti il 5 ottobre alcuni volontari raggiunsero Bagnorea barricandosi nel convento di San Francesco. La settimana successiva ci furono ulteriori sconfinamenti a Viterbo e Montelibretti. Le truppe italiane non riuscivano ad arginare il fenomeno e Napoleone III annunciò l'imminente invio di un corpo di spedizione francese ma il governo italiano, nell'estremo tentativo di evitare ciò, promise di prodigarsi ulteriormente contro i volontari. La situazione precipitò il 16 ottobre quando Garibaldi evase da Caprera presentandosi qualche giorno dopo a Firenze, in piazza Santa Maria Novella arringando la folla. La situazione era sfuggita di mano alle autorità italiane[7].Il 22 ottobre a Roma avvenne un attentato alla caserma Serristori, causando la morte di venticinque zuavi pontifici che lì avevano quartiere, quasi tutti italiani e francesi[8] [9] e di due cittadini romani (Francesco Ferri e la figlia di sei anni, Rosa). L'attentato doveva dare il via ad una sollevazione che non ci fu, e portò, il 24 novembre 1868, alla decapitazione sottoscritta da Papa Pio IX dei patrioti Giuseppe Monti (muratore di Fermo) e del romano Gaetano Tognetti a Roma in largo dei Cerchi (vicino al Circo Massimo). Una ghigliottina in scala è esposta nel Museo.

 

Il 23 ottobre 1867, ebbe luogo lo scontro di villa Glori, quando un drappello di settantasei volontari guidati da Enrico e Giovanni Cairoli, giunti a prendere contatto con i rivoluzionari romani, non trovarono nessuno ad attenderli e vennero sopraffatti dai Carabinieri Esteri del Papa. Garibaldi paragonò il loro sacrificio a quello di Leonida alle Termopili in Grecia ed infatti l'architetto De Angelis che ha realizzato i disegni del Museo ne ha fatto un tempio greco-romano.[10] Numerosi sono i cimeli dei Cairoli nel Museo di Mentana.

 

Il 25 ottobre gli zuavi papalini assaltarono, non senza perdite, il lanificio Aiani, a Trastevere, centro clandestino del moto insurrezionale, dove erano raccolti patrioti e si preparavano armi e bombe per gli insorti, uccidendo nove dei patrioti presenti.

 

Il 26 ottobre Garibaldi, con il suo piccolo esercito di volontari circa 8'000 uomini, decise di occupare Monterotondo dove si fermò prima nella locanda Frosi e poi nel Castello Orsini ospite del principe, un garibaldino don Ignazio Boncompagni.[11]. Qui, tuttavia, Garibaldi decise di arrestare la marcia, nella inutile attesa della sperata insurrezione in Roma. Solo alcuni reparti vennero inviati avanti verso Roma. Lo stesso generale il 29 ottobre avanzò sino a villa Spada ed al Ponte Nomentano, nella speranza di suscitare, con la sua presenza, una ribellione in Roma. La quale, in effetti, si limitò ad alcuni scontri a fuoco: il 30 Garibaldi tornava sui propri passi a Monterotondo.

 

Lo stesso 26 ottobre un reparto isolato alla retroguardia, guidato dal maggiore siciliano Raffaele de Benedetto, venne agganciato da quattrocento papalini al Colle San Giovanni, rifiutò di cedere le armi e venne interamente massacrato.

 

Nel frattempo, giunse conferma che truppe regolari italiane avevano anch’esse traversato il confine, con la missione ufficiale di arrestare Garibaldi: si sperò, forse, in qualche complicazione fra queste e la guarnigione di Roma. Nulla di tutto questo accadde.

 

L'inazione del Garibaldi diede, al contrario, il tempo ad un nutrito corpo di spedizione francese, sotto il comando del Pierre Louis Charles de Failly, di prendere terra a Civitavecchia il 29 ottobre e di ricongiungersi a Roma con l'esercito del Papa al comando del generale Kanzler (granatieri, carabinieri esteri o svizzeri, zuavi pontifici, dragoni e cavalleria pontificia, legione di Antibes ed altri volontari cattolici provenienti da tutta Europa). Appariva ormai chiaro che l'invasione non si sarebbe tradotta in una marcia trionfale, e la vittoria italiana non fosse per nulla certa. A causa di ciò, parte degli effettivi meno motivati a disposizione del Garibaldi approfittando di un proclama del Re Vittorio Emanuele II, disertarono, grandemente facilitati dalla prossimità del confine italiano.

La battaglia

Il 3 novembre, alle 2:00 del mattino, al comando del generale Hermann Kanzler, l'esercito del Papa con anticipo e poi le truppe regolari francesi del generale de Polhes uscirono da Roma in ordine di marcia verso le posizioni garibaldine a Monterotondo.

 

Garibaldi disponeva di truppe ridotte dalle diserzioni, male equipaggiate e sostanzialmente prive di cavalleria ed artiglieria. Egli aveva deciso di raggiungere Tivoli dove avrebbe sciolto la legione garibaldina. Erano state costituite sei brigate, ognuna composta da tre o quattro battaglioni, guidate rispettivamente dal Salomone, dal colonnello Frigyesi, dal maggiore Valzania, dal colonnello Elia e dal maggiore Achille Cantoni, il patriota forlivese che, avendo salvato la vita al Generale presso Velletri ed essendo poi caduto a Mentana, Garibaldi erse a protagonista del romanzo storico Cantoni, il volontario.

 

Si aggiungeva uno squadrone di Guide a Cavallo, forte di circa 100 unità, guidato dal Ricciotti Garibaldi (l'ultimo figlio del generale con Anita Garibaldi defunta proprio mentre fuggiva da Roma e dai francesi nel 1849) ed una singola batteria con due cannoni. L'armamento era costituito, probabilmente, per due terzi da fucili ad avancarica e per un terzo, addirittura, da moschetti a pietra focaia. Circa metà degli effettivi erano veterani di altre campagne risorgimentali, mentre la restante metà erano volontari privi di esperienza bellica anche se supportati da ufficiali piemontesi.

 

I pontifici erano rappresentati da truppe anch’esse volontarie, ma veterane, molto motivate e di più prolungato inquadramento. L'Esercito pontificio era composto da circa 3000 uomini, oltre ai circa 2500 del corpo di spedizione francese, truppe regolari in parte mercenarie (il "soldo" era di 50 centesimi al giorno + minestra, pane e caffè). Quest’ultimo era equipaggiato con il nuovo fucile chassepot modello 1866 a retrocarica, munito di un otturatore e caricato a cartuccia di cartone: esso permetteva di caricare 12 colpi al minuto, un'enormità per l'epoca e che mostrò le sue qualità durante la Guerra Franco-Prussiana. La cavalleria era costituita da circa 150 dragoni e 50 cacciatori a cavallo; l'artiglieria di circa 10 pezzi.

 

Proseguendo lungo l'antica Via Nomentana in direzione Monterotondo, pontifici prima e francesi poi giunsero in prossimità della tappa intermedia di Mentana nel primo pomeriggio. Di fronte a loro il villaggio si presentava sull'alto di una collina a forma di promontorio, cinto da un muraglione con in fronte un antico castello medioevale, volto proprio verso la Nomentana.

 

Alcune miglia a sud tre compagnie di Zuavi pontifici vennero inviate lungo il Tevere verso Monterotondo ed il fianco destro del fronte garibaldino. La colonna principale, invece, con i dragoni all'avanguardia e i francesi in retroguardia proseguiva, sempre verso Monterotondo, lungo la Nomentana. Essi presero un primo, inaspettato, contatto con gli avamposti di Garibaldi già a sud di Mentana mentre era in corso il trasferimento dei Volontari in direzione di Tivoli. Li sospinsero verso la località Vigna Santucci, circa 1,5 km a sud-est del villaggio. Qui la posizione era difesa da tre battaglioni di camicie rosse, schierate a sinistra sul Monte Guarnieri ed a destra nell fattoria di Vigna Santucci.

Entro le due del pomeriggio gli assalitori sloggiarono entrambe le posizioni e piazzarono l'artiglieria sul Monte Guarneri, in vista del villaggio e del vicino altopiano.

 

Garibaldi schierò la modestissima artiglieria su un'altura a nord, il Monte San Lorenzo e la gran parte delle truppe (Frigyesi, Valzania, Cantoni ed Elia) all'interno ed intorno al villaggio murato ed al castello, in posizioni fortificate. Contro queste difese si infransero ripetuti assalti pontifici e francesi, con relativi contrattacchi, continuati sino all'inizio della notte. A questo punto venne programmato un contrattacco di aggiramento su entrambi i fianchi dello schieramento papalino, che non ebbe successo.

 

Nel frattempo le tre compagnie di Zuavi che avevano marciato lungo il Tevere occuparono la strada fra Mentana e Monterotondo, inducendo Garibaldi a recarsi personalmente sul luogo, lasciando l'esercito a difendere Mentana.

 

A questo punto il corpo francese attaccò le camicie rosse sul loro fronte sinistro, e sfondarono le linee. I difensori fuggirono verso Monterotondo o si rifugiarono asserragliandosi nel castello.

Esito

 

I difensori del castello si arresero ai papalini la mattina successiva. Garibaldi stesso ripiegò nel Regno d'Italia con 5.000 uomini, inseguito sino al confine dai Dragoni Pontifici. Al termine della giornata i franco-pontifici avevano registrato 32 morti e 140 feriti. I garibaldini 150 morti e 220 feriti più 1700 prigionieri.

 

Sin dall'indomani della battaglia il merito della vittoria venne attribuito ai regolari francesi ed ai loro fucili chassepot. Ad esempio, quando il 6 novembre i vincitori rientrarono in Roma per la sfilata trionfale, la folla li acclamava come i veri vincitori della giornata e gridava «viva la Francia». La analisi militare però già all'epoca generava controversie. Secondo lo storico cattolico Innocenti, il peso dato alle nuove armi, fu più una mossa di propaganda che una situazione reale.[12]Tra i sostenitori della teoria secondo la quale la vittoria dei Pontifici e dei Francesi non fu dovuta solo dal Fucile Chassepot si può annoverare il garibaldino Mombello, combattente nelle scontro e che in una suo libro di memorie sulla battaglia riportò di non aver sentito gli spari di quel fucile e anzi ne contestò il vantaggio tecnologico. A suo parere infatti, il fucile francese era meno preciso di quelli garibaldini e il campo di battaglia pieno di ripari e avvallamenti favoriva più la precisione che la frequenza di tiro.[13]

 

Gli esiti dello scontro vennero ampiamente discussi anche a livello medico sulla rivista The Lancet, dove furono pubblicate le osservazioni del dottor Gason che operò a Roma sui combattenti provenienti da Mentana e riportò la comparazione tra le ferite causate dai proiettili sparati dagli Chassepot e quelle causate dai proiettili a palla tonda Miniè che venivano impiegati in due calibri. Il medico notava come da Mentana giungessero soldati che presentavano ferite causate da proiettili che non generavano grandi perdite di sangue, ma erano in grado di fratturare le ossa lunghe. Questi proiettili quindi erano più letali nell'immediato, ma chi veniva colpito in modo non fatale aveva migliori probabilità di sopravvivere. Gason sottolineò però, che ciò era in contrasto con quanto invece riportato nei resoconti precedenti per le ferite da Chassepot. All'epoca i resoconti esistenti, successivi a una battaglia avvenuta a Lione, parlavano di effetti molto più gravi, con lacerazioni causate dai proiettili in uscita molto vaste.[14]

 

Tra i sostenitori della teoria secondo la quale la vittoria dei Pontifici e dei Francesi non fu dovuta solo dal Fucile Chassepot possiamo annoverare il garibaldino Mombello che nella sua testimonianza riportò:

« ...Il Diritto riportava pure senza commenti il dispaccio di De Failly a Parigi nel quale parlando di Mentana diceva: "Les Chassepots ont fait merveilles" - "Ah bugiardo!" - esclamammo ad una voce Bonanni ed io. "In tutto il tempo della battaglia non si udì un colpo di Chassepots. »

(Augusto Mombello[15])

 

Il Mombello non solo riporta la sua testimonianza ma spiega anche militarmente per quale motivo, a suo dire, gli Chassepots non furono l'unico motivo della vittoria dei pontifici:

« Nel mio racconto ho dimostrato che il fucile francese a Mentana non ha fatto meraviglia alcuna. Il pregio maggiore del Chassepot era la lunga portata, quasi doppia del fucile ad ago dei prussiani; ma in terreno frastagliato di piccoli poggi e di avvallamenti la lunga portata vale molto meno della giustezza del tiro. Ora, volendo fare molti colpi al minuto, come facevano i francesi, la giustezza del tiro non può ottenersi con nessuna arma. »

(Augusto Mombello[16])

 

Il 6 novembre le truppe franco-pontificie rientravano vittoriose a Roma. Alcuni prigionieri furono condotti a Roma, altri scortati al confine dai gendarmi francesi e presi in consegna dall'esercito italiano. Gli arrestati furono smistati fra Terni, Spoleto e Foligno e i feriti presi in consegna e ricoverati[17].

Conseguenze

Mentana assicurò allo Stato Pontificio tre ulteriori anni di vita, dei quali il sovrano pontefice profittò per tenere l'allora tanto discusso Concilio Vaticano I (giugno 1868 - luglio 1870). Lì Pio IX ottenne, fra l'altro, la sanzione dei princìpi già espressi nel Sillabo del 1864 e la costituzione apostolica Pastor Aeternus, che impone l'infallibilità del vescovo di Roma quando definisce solennemente un dogma.

 

Mentana sancì, inoltre, il definitivo allontanamento di Napoleone III dalle simpatie del movimento nazionale italiano, ad esito di un processo già iniziato con l'Armistizio di Villafranca. Era facile, in quei giorni, ricordarlo come l'uomo che mise fine alla Repubblica Romana (1849). La storiografia contemporanea tende, con maggiore gratitudine, a ricordarlo come colui che permise ai Piemontesi di cacciare gli Austriaci dalla Lombardia, il vero alleato del Camillo Benso Conte di Cavour.

 

Argomentando che il governo italiano non era stato in grado di garantire la sicurezza dello Stato Pontificio e dunque, secondo i francesi, aveva violato la Convenzione di Settembre (1864) Napoleone III inviò nuovamente a Roma le sue truppe. Con questo pretesto, il Secondo Impero aveva rimesso nuovamente piede nell'Urbe annullando l'efficacia di quanto sancito negli accordi del 1864[18].

 

Garibaldi, anche se ormai vecchio (era nato il 4 luglio 1807), regolò i propri personali conti con Napoleone III a seguito della sconfitta di quest’ultimo alla battaglia di Sedan, nel corso della guerra franco-prussiana: raggiunta la Francia nell'ottobre del 1870, ottenne uno dei rari successi francesi della campagna in difesa della neonata Repubblica Francese (battaglia di Digione) contro i prussiani.

 

Anche Vittorio Emanuele II di Savoia aveva saputo attendere: il 20 settembre 1870 (18 giorni dopo la resa dell'imperatore a Sedan e pochi giorni prima della partenza di Garibaldi per la Francia) il regio esercito italiano aprì una breccia nelle mura aureliane nei pressi di Porta Pia, segnando la fine dello Stato Pontificio.

Fotografi sul campo di battaglia di Mentana

 

Sul campo di battaglia di Mentana furono presenti e operarono alcuni fotografi, il più noto dei quali è senz'altro Antonio D'Alessandri (L'Aquila, 1818 - Roma, 1895), titolare insieme al fratello Francesco Paolo dello studio fotografico Fratelli D'Alessandri. Nella mostra della fotografia romana del 1953 furono esposte le seguenti foto: Veduta del paese, I pagliai, Il campo di battaglia verso Monterotondo, Morti sulla strada, Vigna Santucci, (foto del 3 novembre 1867); Trofei presi ai garibaldini di Mentana (fotografia con la scritta Porta inferi non prevalebunt);

Racconta Silvio Negro, storico della fotografia romana, che

« sono del D'Alessandri le rarissime fotografie del campo di battaglia di Mentana … Don Antonio [D'Alessandri], recandosi a Mentana, portò con sé anche un nipotino, Alessandro, il quale mentre lo zio faceva il compito suo, badò a raccogliere le pallottole del fucile, che gli venivano sottomano e ne portò a Roma una collezione. »

(Silvio Negro, Seconda Roma, p. 395)

Caduti di Mentana

 

Nell'elenco dei Caduti, in quella che una legge del 1899 riconobbe come "Campagna dell'Agro Romano per la liberazione di Roma", ci sono tutti i morti dai fratelli Cairoli alla Tavani Arquati nel 1867, caduti a Bagnoregio, Subiaco, Monte S. Giovanni Campano, ecc. L'Ara-Ossario inaugurata nel 1877 fu chiusa dalla Società Patrie Battaglie nel 1937 proprio per raccogliere tutti i caduti ovunque deceduti nel 1867.

 

Foto By Wikypedia;

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Raccolta Foto de Alvariis

Dagli storici Cassio Dione (155 - 235 d.C. ca) (1), Paolo Orosio (fine IV - inizio V sec. d.C.) (2) e dal geografo greco Strabone (64 a.C. - 21 d.C. ca) (3) abbiamo una serie di significative notizie sul giacimento della Bessa che brevemente riassumiamo (testi originali alle note 1/3). Nel 143 a.C. il console Romano Appio Claudio attaccò i Salassi prendendo a pretesto una contesa tra questi e le popolazioni insediate nella pianura (in cui i primi venivano accusati di privare i campi coltivati dell' acqua del fiume Duria, utilizzata per il lavaggio delle sabbie di un grande giacimento aurifero). Malgrado una disastrosa sconfitta iniziale, Appio Claudio si impadronì del territorio oggetto del contendere. Ritornato a Roma chiese al senato il "trionfo" ma gli fu rifiutato a causa dell'elevato numero di perdite. Appio Claudio se lo autoconcesse pagando di propria tasca le spese, ma la parata rischiò di finire in rissa e per evitare di essere assalito da alcuni tribuni il console fece salire sul proprio carro la sorella vestale per beneficiare della sua inviolabilità. Appio Claudio che apparteneva ad una dinastia che oltre a tramandarsi il nome si tramandava anche il consolato era suocero di Tiberio Gracco uno dei famosi “gioielli” di Cornelia, figlia di Scipione Africano vincitore della battaglia di Zama.

 

Il 140 a.C. è quindi il termine post quem i pubblicani romani poterono avere in appalto la miniera d'oro. Questa era di proprietà dello Stato ed un Procurator metallorum era posto a capo dell'amministrazione. Il testo di Strabone conferma anche che il metallo era già estratto dai Salassi (gli Ictimuli citati da Plinio erano probabilmente Salassi che avevano come centro di riferimento il villaggio omonimo), evidentemente su scala non semplicemente artigianale. Da Plinio (23 - 79 d.C.) abbiamo invece la prova della dimensione del cantiere poiché, a proposito della Bessa, cita una lex censoria (4) che, probabilmente per problemi di ordine pubblico, vietava l'utilizzo nelle aurifodinae di più di 5000 lavoratori, ciò significa che vi furono periodi in cui il loro numero dovette essere maggiore. E' probabile che questo numero non si riferisse ai soli addetti ai lavori minerari ma al totale dei lavoratori impiegati compresi quindi quelli coinvolti nelle attività che oggi sarebbero chiamate: "l'indotto".

L'apertura dei cantieri provocò certamente una imponente rilocazione di popolazioni di etnia salassa verso l'area della Bessa e una modifica alla loro struttura sociale ed economica (l'approvvigionamento in viveri e materiali doveva rappresentare un importante problema) dato che si ritiene che la mano d'opera fosse costituita da comunità di "dedicti" che, dopo la sconfitta, pagavano tributo a Roma con il lavoro. Inoltre in prossimità della miniera doveva essere necessaria la presenza dell'esercito dato che si trattava di zona di confine con popolazioni che furono totalmente sottomesse solo sotto Augusto.

 

da

www.bessa.it

 

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Hotel California - Eagles

 

Otto anni fa, durante il militare, io e un ragazzo, un caro amico, commilitone leccese, scendevamo lungo una strada che portava a casa, ascoltando questa canzone. C'era il buio terso di nero intorno, una strada ghiacciata, si allungava davanti i nostri occhi, illuminata di rado e unica guida i fari di una macchina vecchia, sgarrupata...

 

Quanti sogni da ventenni, pensieri, riflessioni, su come e cosa aveva dato quasi un anno di vita militare insieme, e di quello che avremmo voluto fare dopo...

 

Lui sognava di far ritornare a produrre il terreno e gli ulivi del padre, amati ulivi che solo quest'anno ho visto, nel mio viaggio in salento, e il mio pensiero è volato a lui, caro vecchio emanuele, amico caro, di quelli che porti dentro...

 

Io, rinunciavo, a una carriera militare da cadetto dell' Accademia di Modena, in fondo un pretesto per girare il mondo, ma dopo il Kosovo, sinceramente la voglia era passata, almeno a quelle condizioni...

 

E sognavo...

 

Di vivere di architettura che mi portasse sulla luna, estro e sregolatezza, in fondo dentro di me vivevano...

 

da qui i ruderi...

da qui la fotografia...

 

Ma un giorno un vecchio, parlò con me, voce segnata dalla sofferenza la sua, gelanti le sue parole...

 

"La luna vive di luce riflessa, si ciba di essenze non sue, dei sogni degli umani che la guardano e la agognano, li tiene lontani, da sè, perchè sa che è effimera la sua bellezza, e se, volontà terrene decidessero di salire li in alto, ad abbracciare il loro sogno, grande sarebbe la delusione per un idilliaco mondo racchiuso in un pozzanghera di lacrime...

 

di malinconia, solitudine e bruttezza..."

 

Ma io continuerò a sognarla, la mia piccola luna...

 

A portrait of me taken by her

PictionID:54255512 - Catalog:14_034413 - Title:GD/Astronautics Testing Details: OAO Jettison Test; Pretest at LERC Date: 08/04/1965 - Filename:14_034413.tif - - - Images from the Convair/General Dynamics Astronautics Atlas Negative Collection. The processing, cataloging and digitization of these images has been made possible by a generous National Historical Publications and Records grant from the National Archives and Records Administration---Please Tag these images so that the information can be permanently stored with the digital file.---Repository: San Diego Air and Space Museum

Itri

Itri è un comune italiano di 10 664 abitanti della provincia di Latina nel Lazio. Dista 56 km da Latina, 111 km da Roma e 78,8 km da Napoli.

Territorio

Posta a 170 m s.l.m., la cittadina sorge in una caratteristica vallata tra le falde occidentali dei monti Aurunci (passo di San Donato), a soli 8 km dalla costa. Si trova lungo il percorso della via Appia, tra Fondi (con la quale confina ad Ovest) e Formia (con la quale confina ad Est). Itri confina anche con la città di Esperia ad Est; a Nord con Campodimele; e a Sud rispettivamente con i comuni di Sperlonga e Gaeta

Punta Cetarola e la Spiaggia della Flacca Antica

A Sud il territorio si affaccia sul mare con una costa rocciosa e frastagliata denominata Punta Cetarola, dove vi è la spiaggia della Flacca antica,una caratteristica spiaggia di ciottoli, situata tra Gaeta e Sperlonga, un piccolo e bellissimo scorcio noto anche come spiaggia delle bambole. Gli amanti della barca definiscono questa di Punta Cetarola come la caletta più bella e suggestiva di tutto il litorale gaetano-sperlongano. Il suo valore ambientale è stato confermato dal Ministero dell'Ambiente che ha inserito la "Costa rocciosa compresa tra Sperlonga e Gaeta" nell'elenco dei siti di Natura 2000, la rete europea di aree destinate alla conservazione della diversità biologica.inoltre fa parte del comune di Itri L'arenile dello Scarpone, sito nella Piana di Sant'Agostino.

 

Immagine di Punta Cetarola,uno dei più bei posti di Itri, con accanto la spiaggia di Sant' Agostino

Montagna

I rilievi montuosi presenti nel suo territorio spesso superano i 1000 m di quota, come nel caso del monte Cervello alto 1.004 m s.l.m., monte Trina alto 1.062 m s.l.m. o monte Ruazzo alto 1.314 m s.l.m. Tra questi, che sono per lo più a carattere roccioso, si estendono numerose ed ampie radure. Tali zone, per la frequenza dei temporali primaverili-estivi che rinverdiscono la vegetazione, erano sede di alpeggio da maggio a ottobre inoltrato. Nelle giornate limpide, dalle alture, si osservano le isole dell'antistante arcipelago pontino.

Clima

La situazione orografica di Itri conferisce al territorio un clima non uniforme, poiché frequenti sono i fenomeni microclimatici che caratterizzano zone ristrette del territorio comunale. Si va dal temperato fresco al temperato caldo, da un clima marino ad uno montano. Il centro urbano, posto a 170 m s.l.m., gode di un clima che si mantiene equilibrato: in inverno è protetto dai venti freddi grazie ai monti che lo circondano; in estate, sono gli stessi monti che garantiscono una brezza fresca che rompe la calura del sole. Le precipitazioni sono piuttosto elevate durante tutta la stagione invernale, mentre i fenomeni nevosi sono frequenti nell'esteso territorio, ma più rari (l'ultimo episodio risale al 12 febbraio 2010) nel centro urbano.

Classificazione climatica: zona C, 1387 GR/G

Storia

Il sito ebbe una frequentazione in epoca preistorica: sono stati rinvenuti resti di epoca neolitica (strumenti in pietra e in ossidiana) e dell'età del bronzo (Valle Oliva, II millennio a.C.).

Fece parte del territorio degli Aurunci, conquistato quindi dai Romani, che vi realizzarono la via Appia nel 312 a.C. Il sito acquistò importanza come luogo strategico, tuttavia non si formò un nucleo abitato molto consistente, anche se è probabile la presenza di un piccolo centro, se non altro come stazione di posta. Le fonti, in realtà, non fanno diretto riferimento ad alcuna città tra Fondi e Formia. Il nome del paese deriva probabilmente dal termine latino iter ("via, cammino").

Un antico tracciato viario, di cui si sono ritrovati resti di basolato nella località Calvi, collegava il luogo all'attuale Sperlonga.

 

Itri negli anni 30

La presenza di un serpente sullo stemma cittadino ha dato origine alla leggenda, priva di riscontri archeologici, che la fondazione della città fosse derivata dagli abitanti della città di Amyclae, sulla costa (ricordata dalle fonti, ma non identificata), fuggiti nell'interno per un'invasione di serpenti. Secondo tale leggenda il nome della città deriverebbe dalla figura mitologica dell'Idra di Lerna.

Le prime notizie di Itri risalgono al 914 (in un atto di vendita è citato uno "Stefano, itrano"). Tra il IX e l'XI secolo sorse il Castello su un'altura che dominava il passaggio della via Appia.

Itri fece parte del ducato di Gaeta e passò quindi sotto i Dell'Aquila, signori di Fondi e quindi ai Caetani. Appartenne sempre alla diocesi di Gaeta.

L'abitato sorse prima intorno al castello (città alta) e si espanse solo in seguito lungo la via Appia (città bassa). I due nuclei sono separati dal torrente Pontone (o Rio Torto). Un altro nucleo abitato era sorto nella zona di Campello, abbandonato nella seconda metà del XV secolo.

Vi nacque nel 1771 Fra' Diavolo (Michele Pezza), che fu prima fuorilegge e quindi colonnello dell'esercito borbonico di Ferdinando IV, in lotta contro l'occupazione dei Francesi, che lo presero e impiccarono a Napoli nel 1806.

Dal XIII secolo e fino al 1861 fece parte del Regno di Napoli (poi Regno delle Due Sicilie) nell'ambito dell'antica Provincia di Terra di Lavoro, della quale continuo a fare parte anche dopo l'unità d'Italia, fino al 1927. Poi, durante il periodo fascista, stante il nuovo disegno organizzativo territoriale che comprendeva anche la istituzione delle Regioni, nel 1927 l'intera parte settentrionale della Provincia di Terra di Lavoro fu scorporata dalla neonata Provincia di Caserta e assegnata al Lazio (Province di Roma e Frosinone). In particolare quasi tutta la parte del Distretto di Gaeta fu assegnata alla Provincia di Roma. Infine nel 1934, Itri fu inclusa nel territorio della neocostituita Provincia di Latina (in quell'epoca fascista si chiamava Littoria).

 

Città bassa, panorama dal Castello

Nel 1911 erano presenti nel comune cinquecento dei circa mille emigranti sardi arrivati per lavorare al V lotto della Direttissima Roma-Napoli. Nel contesto nazionale erano già presenti elementi di razzismo contro i sardi, chiamati sardegnoli, che non scomparvero fino alle imprese della Brigata Sassari nella Prima guerra mondiale[3][4]. Gli emigranti ricevevano un salario inferiore rispetto agli altri lavoratori, ma si rifiutarono di pagare ogni tangente alla camorra, allora infiltratasi nell'appalto, e per tutelarsi cercarono di costituire una lega di autodifesa operaia. Il 12 e 13 luglio, a seguito di futili pretesti, avvengono due imboscate a cui partecipano gli stessi notabili del paese, nell'indifferenza delle forze dell'ordine. Si contarono, non senza difficoltà e intralci, 8 vittime e 60 feriti, tutti sardi,[5] mentre dalla Corte d'Assise di Napoli trentatré imputati furono assolti dai giurati popolari e nove condannati in contumacia.

Durante la seconda guerra mondiale, nel maggio del 1944, i bombardamenti distrussero il paese e i suoi monumenti al 75%.

Architetture civili

Il Castello

Il castello, possente fortezza medioevale, alta e maestosa, è collocato sulla parte più elevata della collina denominata Sant'Angelo. Esso si articola intorno ad una torre pentagonale con piccola cinta merlata (attribuita al duca di Gaeta Docibile I nell'882). Nel 950 il nipote di Docibile, Marino I, fece costruire una seconda torre quadrata più alta e maestosa della prima. In seguito, il castello fu oggetto di nuovi lavori, con la costruzione della parte abitativa, del torrione cilindrico e del cammino di ronda (1250) che li unisce.

 

La torre "del coccodrillo".

Il torrione cilindrico è anche detto "Torre del coccodrillo", in quanto secondo la leggenda in questa torre si trovava dell'acqua con uno di questi animali, al quale venivano dati in pasto i condannati a morte.

A questo complesso appartiene anche un fortilizio (la cavea) con tre piccole torrette cilindriche disposte ad un livello inferiore e visibili dall'entrata principale del Castello: questa parte era adibita a luogo di ristoro per cavalli, servitù e gendarmi. Dalla cavea si può vedere, grazie ad un cancelletto, il ghetto ebraico (Vico Giudea) dove si trovava anche una piccola sinagoga, ormai scomparsa.

La parte del castello destinata ad abitazione si sviluppa su due piani, ciascuno diviso in tre sale. Entrando, immediatamente a sinistra si presentano tre sale e, dalla seconda, si può accedere, grazie ad una scalinata, al piano inferiore. Questo piano è costituito da tre vasti spazi destinati ad uso domestico, come lasciano supporre i resti del forno e della vasca utilizzata per conservare il cibo, ancora visibili nella stanza sulla sinistra. Si può anche osservare l'antica cisterna dove erano raccolte le acque piovane. Al secondo piano è possibile vedere i resti di quello che era un camino ed un affresco rappresentante Sant'Antonio abate e Madonna lattante con il Bambino. In questo punto, infatti, fu fatta costruire dalla famiglia Caetani una cappella privata che fa pensare che la sala antistante fosse una camera da letto. Secondo alcune leggende, sarebbe possibile sentire dei fantasmi lamentarsi nelle notti di temporale e, soprattutto, veder fluttuare dei mantelli lungo il cammino di ronda che collega il castello alla "Torre del Coccodrillo". Salendo l'ultima rampa di scale della torre quadrata si accede a un'ampia terrazza da cui è possibile godere un vasto panorama.

Il castello ospitò anche la bellissima Giulia Gonzaga, contessa di Fondi e donna famosa per aver accolto nella sua dimora artisti e letterati dell'epoca quali Vittoria Colonna, Marcantonio Flaminio, Vittore Soranzo, Francesco Maria Molza, Francesco Berni, il pittore Sebastiano del Piombo - che le fece il ritratto - Pier Paolo Vergerio, Pietro Carnesecchi, Juan de Valdés.

Danneggiato dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, è stato acquistato dalla provincia di Latina nel 1979 per un prezzo simbolico dal dottor comm. Francesco Saverio Ialongo e poi ceduto al Comune d'Itri. Una volta restaurato, il castello avrebbe dovuto ospitare il "Museo del brigantaggio". Durante i lavori di restauro, in seguito ad una richiesta di fondi dalla Comunità Europea, il sindaco e la giunta itrana hanno ritenuto opportuna la collocazione del suddetto museo in una diversa zona del paese, località Madonna delle Grazie.

L'inaugurazione della prima parte restaurata del castello è avvenuta il 4 giugno 2003, il 14 settembre 2007 è stato aperto l'intero complesso. Al suo interno oggi il castello di Itri ospita le mostre, i mercatini d'artigianato locale, i convegni, le cerimonie pubbliche, ma anche feste private. Nella cavea invece si organizzano durante l'estate le serate di cinema e diversi concerti.

Forte di Sant'Andrea e resti della Via Appia Antica - Il Tempio di Apollo[modifica | modifica wikitesto]

In direzione di Fondi, nella gola di Sant'Andrea, è stato rimesso in luce e valorizzato un tratto dell'antico percorso della Via Appia Antica. Qui, sui ruderi di una villa romana di età repubblicana (I secolo a.C.), sorgeva un forte che fu utilizzato da Fra' Diavolo nella difesa contro i Francesi nel 1798. Nella valle di S. Andrea si trova uno dei tratti più suggestivi e meglio conservati dell'Antica Appia lungo la Via Francigena del Sud. Lungo i 3 km di percorso, ai lati della strada romana era presente una sorta di marciapiedi, tuttora visibile in alcuni tratti. Il lato a valle dell'itinerario era terrazzato con imponenti mura costruite a opera poligonale e lungo la strada si possono ancora osservare ciò che rimane delle costruzioni di difesa dai briganti e dei posti di blocco borbonici. All'incirca a metà del percorso la via è dominata dal forte di S. Andrea, edificato sui resti di un antico Tempio dedicato ad Apollo e di cui sono a oggi visibili le cisterne a volta all'interno dei terrazzamenti. La costruzione dell'edificio rispose all'esigenza di fortificare il passo, situato in una posizione strategica e delicata, in coincidenza con l'ingresso nel Regno di Napoli. Nell'area si svolsero diverse battaglie, una fra più celebri riguardò lo scontro nel 1799, quando Fra Diavolo impedì la penetrazione delle truppe napoleoniche nel Napoletano. In età tardoantica sui ruderi del tempio fu edificata una cappella votata a S. Andrea Apostolo, da cui prende il nome il forte e la valle. L'eccellente stato di conservazione di questo tratto dell'antico percorso romano, rende quest'area un vero e proprio museo a cielo aperto della tecnica stradale romana.

Architetture religiose

Convento di San Francesco

Il convento di San Francesco (1324) (uno dei primi nati nella diocesi di Gaeta) con la bella chiesa di S. Francesco furono fondati dal conte di Fondi Onorato I Caetani. Collocato nella parte bassa della città si trovava nelle immediate vicinanze della chiesa della SS. Vergine Annunziata (datata 1363, ricostruita dopo i bombardamenti e oggi intitolata a Santa Maria Maggiore). Nell'edificio era presente un oratorio dedicato a San Giovanni Battista ed i confratelli vi avevano diritto di sepoltura. Sappiamo dallo statuto itrano, che risale al '400 che Onorato II, conte di Fondi, vi dimorò per un certo periodo a partire dell'anno 1487. Secondo una visita pastorale del 1722[8], la chiesa era dotata di tre altari: altare maggiore con l'immagine del santo; due altari laterali, del Crocifisso e della Natività di Gesù Cristo. Quello che è rimasto della chiesa e del convento è stato trasformato in abitazioni civili e oggi resta soltanto un affresco conservato in un edificio nella centrale Piazza Incoronazione. Inoltre, le due colonne dell'altare del Santuario della Madonna della Civita, così come il lavabo che si trova in sagrestia, provengono dal Convento di San Francesco.

Monastero di San Martino

In origine fuori dall'abitato (presso San Martino in Pagnano), il monastero era stato abbandonato in conseguenza delle leggi di soppressione delle corporazioni religiose nel regno d'Italia, essendo venuto meno il numero legale delle monache. In realtà l'edificio, occupato dalle Suore del Preziosissimo Sangue, era in uno stato di decadimento. Successivamente il monastero benedettino di San Martino, fu ricostruito all'interno delle mura. Distrutto anch'esso dai bombardamenti del 1944, è stato quindi ricostruito.

 

La chiesa di San Michele Arcangelo.

San Michele Arcangelo

La chiesa di San Michele Arcangelo, nella parte alta, risale all'XI secolo ed è l'edificio sacro più antico di Itri. A tre navate, l'edificio è in stile arabo-normanno ed ha la caratteristica di avere il campanile quadrato, ornato da piatti in maiolica colorati, addossato alla chiesa, in corrispondenza dell'entrata principale, anziché posto di lato. Si articola in quattro piani, dal portale di accesso alla chiesa, a due bifore e una trifora, con coronamento a cuspide. Al suo interno si può ammirare un affresco del XV secolo raffigurante la "Vergine con il Bambino" e la statua lignea di San Michele Arcangelo, posta in una nicchia dell'altare maggiore.

Santa Maria di Loreto

In origine su una collina fuori dal paese, ma ormai raggiunta dall'espansione dell'abitato, si trova la chiesa di Santa Maria di Loreto, con annesso convento dei Cappuccini (dal 1574), da cui deriva il nome "Cappuccini" attribuito alla zona. Quando nel marzo del 1574 i Padri Cappuccini iniziarono ad utilizzare l'edificio, dapprima in proprietà, poi in enfiteusi (in seguito alla confisca dei beni della Chiesa), quest'ultimo si trovava in una posizione isolata. Il convento fu abitato dai Cappuccini fino al 1897 e nel 1910/1911, a seguito dell'epidemia di colera che imperversò ad Itri, fu adibito a lazzaretto. L'avvento dei Padri Passionisti è datato 30 marzo 1943, giorno in cui fu redatto e firmato un atto nel quale il Comune d'Itri concedeva in donazione il Convento ai Passionisti. L'opera di ricostruzione voluta dal Senatore Pietro Fedele, sposato ad Itri con Donna Tecla De Fabritiis, iniziò nel novembre del 1941 e fu ultimata dopo il conflitto bellico. Nella chiesa di S. Maria di Loreto è conservato, tra le altre opere, un dipinto di San Paolo della Croce (fondatore dei Passionisti), attribuito al pittore Sebastiano Conca (1676-1764).

Santa Maria Maggiore

Alla chiesa di S. Maria Maggiore già della SS. Annunziata si accede da un semplice ed ampio portico, di stile gotico, con tre archi ogivali e tre portali (che sono stati ricostruiti dopo le distruzioni della Seconda guerra mondiale), dei quali quello di mezzo, più grande, è anch'esso ogivale e risale al XIV secolo.

 

il campanile della distrutta chiesa di Santa Maria Maggiore

La tradizione locale dice che il portale vi fosse stato trasportato da San Francesco.

 

Cappella del Crocefisso, all'interno dell'attuale chiesa di Santa Maria Maggiore.

Le prime notizie, inerenti alla chiesa, risalgono al 26 marzo 1363, quando essa è ricordata nel testamento del conte di Fondi, Onorato I Caetani, che fece un lascito di 20 once. Di stile romanico-laziale, è decorata esternamente con fasce di pietra bianca alternate a laterizio, con dei cornicioni posti al termine di ogni piano. Nel 1600 la chiesa era a tre navate: quella centrale era coperta a tettoia, con l'altare maggiore ed il coro coperto a volta. In essa vi erano: l'organo, il pulpito, la fonte battesimale ed il campanile con due campane. Agli inizi del XVIII secolo essa fu ampliata ed ebbe radicali restauri. La caratteristica principale del tempio era il soffitto a cassettoni, d'oro zecchino. Quest'ultimo fu successivamente rimosso per un crollo, avvenuto nel 1829, e la chiesa fu rifatta in muratura. Durante la Seconda guerra mondiale l'edificio fu distrutto dai bombardamenti del 1944, ad eccezione del campanile duecentesco (recentemente restaurato). Per evitarne la distruzione, vennero staccati alcuni affreschi ora conservati nella vicina chiesa di San Michele Arcangelo. A seguito della distruzione, la chiesa della SS. Annunziata (all'interno della quale si conserva un Busto argenteo della Madonna della Civita, proprietà del popolo di Itri che contribuì alla sua realizzazione con una questua) fu anche ridenominata chiesa di S. Maria Maggiore.

Ad oggi, dunque, l'edificio denominato S. Maria Maggiore si trova in Piazza Annunziata. L'interno della chiesa è a tre navate: nel lato destro vi è la cappella del Crocefisso con altare in marmo intarsiato, nel cui paliotto sono scolpite le Anime del Purgatorio, mentre sopra il Fastigio vi è raffigurata la Sacra Sindone. Quest'opera può riportarsi al XVIII secolo. Nella medesima cappella la volta è decorata a stucco, con alcuni angeli reggenti gli emblemi della Passione.

Alcuni sostengono che l'opera fu realizzata nel 1827, per volere del pontefice Leone XII, ma essa risale al secolo XVI o, al più tardi, al XVII secolo. Nell'altare della navata sinistra riposa il corpo di San Costanzo martire, i cui resti sono ricoperti da vesti ricamate. Una tela molto interessante, raffigurante la «Predica di San Tommaso d'Aquino davanti al Papa ed a un re» (forse Carlo I d'Angiò), era nella predella della cappella della navata sinistra.

Santuario della Madonna della Civita

Nel territorio di Itri si trova il santuario della Madonna della Civita in cui si venera un antichissimo quadro raffigurante una Madonna nera con Bambino denominata Madonna della Civita.

Aree naturali

Parco naturale dei Monti Aurunci

Monte Ruazzo

Le Rave Fosche, costituite da un rilievo ad est dell'abitato di Itri, raggiungibile a piedi dalla località Postacchio. La caratteristica geolitica di questo monte è la presenza di formazioni calcare imponenti di colore bianco-grigiastro (Rave Fosche) e rossicce per l'alto contenuto in ossido di ferro (Rave Rosse). Sono presenti anche caverne di particolare conformazione, tra cui la celebre Caverna di Fra Diavolo, il brigante Michele Pezza.

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Raccolta Foto de Alvariis

di Luigi Rossini

Raccolta Foto de Alvariis

martinArte di Paola Barbarossa

 

laboratorio d’arte - corsi - spazio espositivo

 

Presenta :

 

Luigi Coppo

 

“Over the Wall”

  

A cura di Fernando Montà

 

Inaugurazione

venerdì 14 marzo 2014 ore 18.30 / 22.00

La mostra proseguirà sino a venerdì 28 marzo 2014

Orari:

lun 15.30-19.30 mar-mer 10,00-12,30 15,30-21,30 giov-ven 10,00-12.30 15.30-19.30

Sabato 15 - 3 - 2014 ore 10.30-12.30 15.30 - 19.30

 

martinArte c.so Siracusa 24/a -10136 Torino - tel. 011.3433756

cell. 335360545 e.mail: paolabarbarossa@libero.it www.martinarte2010.it

ingresso libero

 

Over the Wall

 

Nato a Torino, sono sempre stato affascinato da tutto quello che concerne l' immagine; dopo essermi diplomato in costruzioni aeronautiche, ho approfondito, da puro autodidatta, lo studio della pittura, dall' impressionismo ai giorni nostri, cercando sempre di avventurarmi in nuove ricerche e sperimentazioni; la ricerca del segno, del colore fine a se stesso, la semplicità ed immediatezza della comunicazione sono sempre state le mie prerogative; a 6 anni mi fu regalata la prima fotocamera, con la quale iniziai a fare le prime fotografie...in seguito vennero le reflex e, in ultimo, dopo l' avvento del digitale e, sopratutto dopo la conoscenza di persone decisamente interessanti ed emotivamente coinvolgenti, mi orientai verso la ricerca fotografica non fine a se stessa, ma verso un modo personale di scattare,...sovente con lo scopo ultimo di avere basi per nuovi spunti pittorici; infine mi sono accostato alla fotografia come opera d' arte, per creare, indagare e conoscere. In questo momento l’orientamento dei miei scatti è rivolto a situazioni di territorio, di inquinamento, di ecologia, di degrado ambientale, legate a contesti socialmente difficili, di scatti della mia terra, delle mie radici. Ho partecipato, con curiosità, a vari concorsi fotografici cercando, innanzitutto, di anteporre il mio “pensiero fotografico”, il fare, alla mera commercializzazione delle immagini, mondo che non mi appartiene in alcun caso.

Luigi Coppo, 2013

  

A Luigi Coppo piace fotografare.

Racconta che fin da bambino era affascinato dalle immagini del mondo circostante - figure umane o paesaggi - e scattava le prime fotografie con grande impegno ed entusiasmo.

Da allora quell'impegno non si è mai affievolito ma è andato rafforzandosi e consolidandosi nel tempo, sino al punto da diventare un pretesto per indagare e sperimentare la pittura.

La fotografia è diventata la sua inseparabile "compagna di viaggio" nel conoscere e cogliere i tagli compositivi piu' interessanti, per poi trasformarsi in elemento capace di tradurre ed esprimere in modo estremamente efficace ed immediato i suoi pensieri (Coppo la chiama infatti "il mio pensiero fotografico").

Attualmente in "Over the Wall" vede "Oltre il Muro" e coglie concretamente ciò che molti distrattamente guardano ma "non osservano" e "non vedono": il silente degrado di luoghi abbandonati che potrebbero essere recuperati, angoli di natura popolati da esseri e piccole e grandi entità da preservare e conservare, che vengono invece dimenticati, snaturati, distrutti o sostituiti.

Coppo è legato alle origini ed alla sua terra, il Monferrato: da qui partono interpretazioni come quella molto efficace di "Good bye cruel world" o la rappresentazione contenuta in "Another brick", ove timidi papaveri crescono vicino ad un vecchio muro dimenticato.

Dico "concretamente" perché con molta schiettezza il lavoro di Luigi Coppo non ci parla di voli pindarici, di sogni o surrealistiche interpretazioni: il suo mondo è pienamente immerso e rivolto al presente, un presente che nutre tuttavia ancora la speranza di un futuro migliore e piu' consapevole, che avverte come necessità tangibile e "vitale".

Mariella Bogliacino 2013

  

Percorsi

2003 -----concorso fotografico " 12 scatti per Laigueglia" , comune di Laigueglia -----6 classificato premio critica , attestato ------titolo " il pescatore Piero"---la fotografia ha fatto parte del calendario di Laigueglia (SV) nel' anno successivo

2010----partecipazione concorso fotografico “ passione Italia” , indetto da Pagine Gialle, città di Torino,----segnalazione fotografia “ il carretto dei gelati” , per la provincia di Savona

2011----" tre scatti per la tre", città di Torino-----6 classificato , pubblicazione su libro circoscrizione 3 , attestato ----titolo fotografia " al 111"

2011----partecipazione concorso fotografico “ passione Italia” ,città di Torino ,indetto da Pagine Gialle

2011 ----" premio città di Busseto"comune di Busseto(Parma)-----partecipazione concorso fotografico

2011----" 1° concorso fotografico " riscatta regio parco", città di Torino-----partecipazione concorso, attestato

2011----partecipazione concorso fotografico “ uno scatto per lo sport” , città di Torino indetto da fondazione Sandretto

2012 --- 2° concorso fotografico comune di Moncestino " terre di collina",comune di Moncestino ( Alessandria )-----1° classificato tema classico ----titolo fotografia " simmetrie" , pubblicazione articolo su " la grande famiglia"

2012----” premio città di Busseto” comune di Busseto ( Parma)---partecipazione , su invito a concorso fotografico

2013-----partecipazione concorso fotografico “ diwan cafè”, città di Torino

2013 ----3°concorso fotografico comune di Moncestino “ i colori del paese”, comune di Moncestino(Alessandria) ----segnalazione fotografia “curve monferrine”in sito internet

2013 ----partecipazione a concorso fotografico Ernesto Guerini “ obiettivo vespa”, comune di Sale Marasino (Brescia)

2013----partecipazione a concorso fotografico " uno scatto per lo sport", città di Torino

2013----partecipazione a concorso fotografico Ripor “porte e portoni" , comune di thiene (Vicenza)

2012\2013 frequentazione de" i salotti fotografici " di Michele Vacchiano, villa Amoretti , Torino

2013 ----partecipazione a concorso fotografico “ premio città di Varese” (Varese) con la fotografia “ parco dora”

2013---partecipazione a concorso fotografico “ 450 scatti per 450 anni” indetto da fondazione S.Paolo, città di Torino ----le due fotografie partecipanti “ parco dora “ e “ polo Einaudi” sono state esposte dal 11 -10 al 12-11 2013 nel' atrio della stazione di Porta Susa ( Torino)

2013---partecipazione a concorso fotografico “ centenario Alenia Aermacchi”,città di Torino

2013---partecipazione a “# guerrieri”, concorso online indetto da Enel con diversi scritti

2013----partecipazione a concorso “ melt-a-plot” , concorso di sceneggiatura online, con diversi scritti,

2013---.partecipazione a concorso fotografico online “ terre di vino”, indetto da Res-tipica

th---partecipazione a concorso “ riviera dei fiori”,comune di Taggia (Imperia)----la fotografia “ sunrise” è stata scelta come immagine di copertina del sito

 

Presente in flickr, www.flickr.com con lo pseudonimo fabiano marconi prevalentemente nel gruppo “fotografando\solo contest”

 

Presente in internet come luigi coppo, copber, marconi fabiano

 

Sito web www.photografers.it/free/luigicoppo/

 

Sito web Luigi Coppo web site – Altervista luigicoppo.altervista.org/

 

Sito web www.artilinki.com/en/space/profile/luigi-coppo

Un’intera linea per pensare al profumo dei nostri abiti da quando li laviamo a quando li riponiamo nei nostri armadi. Gesti che ci fanno ripensare ai lavori di casa come ad un momento di cura e piacere e non ad un semplice dovere. Tre momenti: un profumo per la lavatrice, concentrato ma delicato su ogni tipo di tessuto, si aggiunge nella vaschetta al posto dell’ammorbidente. Momento due: lo spray da vaporizzare dopo aver stirato i capi, il tocco di profumo che li fa tornare nostri. Momento tre: le card profumate da mettere nei cassetti e negli armadi per rendere costante il nostro segno olfattivo e che ci fa sorridere al mattino quando scegliamo cosa metterci. La linea si chiama Cuore di Casa ed è stata ideata dall’azienda HP, per la sua sezione Nasoterapia (vi ricordate la lampada ad ultrasuoni Sakura? Proprio loro).

 

Da Melissa abbiamo la linea completa di tutte e quattro le profumazioni:

Armonia "vaniglia e sale" (nuova!)

Soffio “gelsomino e cashmere (la preferita di Valeria),

Nuvola “talco e rosa” (la preferita di Giulia,

Risveglio “tuberosa e gardenia”

Rugiada “bergamotto e cedro”

 

Gli spray hanno il loro sacchetto in tessuto utile anche in valigia per riporre biancheria profumata. Abbiamo pensato che questa linea potesse rappresentare un’ottima idea regalo per chi ha una casa nuova, per chi ha bisogno di un pretesto per “prendersi cura”, per chi ama in generale quello che abita che sia una stanza o un vestito. vi aspettiamo da Melissa per scegliere il vostro Spray 13,90€, Concentrato profumato 10,90€, card profumate 11,90€

  

Ci sono giorni in cui io non interagisco

e appeso al silenzio, come un ragno al soffitto,

sorveglio il mio spazio aereo, minacciando tutto ciò che gira.

Girando a vuoto un termitaio di pensieri,

che, masticando, si nutre del tempo che passa,

affilo la mia attesa, guardo e guardo che mi vedi.

Ho giorni grigi in cui io non mi riconosco,

volando un po' pesante, prendo dentro tutti i vetri,

m'incazzo, ronzando, come un amplificatore in paranoia

e con un pungiglione, intriso di veleni,

cercando un pretesto, cercando una scusa,

affondo i miei colpi e soffoco la rabbia che grida.

Dentro frenetici momenti di noia...

Ho giorni grigi in cui io non mi riconosco

volando un po' pesante prendo dentro tutti i vetri,

m' incazzo, ronzando, come un amplificatore in paranoia

e con un pungiglione, intriso di veleni,

cercando un pretesto, cercando una scusa,

affondo i miei colpi e soffoco la rabbia che grida.

Dentro frenetici momenti di noia...

Ci sono giorni in cui io non interagisco

e appeso al silenzio, come un ragno al soffitto,

sorveglio il mio spazio aereo, minacciando tutto ciò che gira.

Dentro frenetici momenti di noia...

Dentro frenetici momenti di noia...

 

From Wikipedia:

 

en.wikipedia.org/wiki/Ford_Mustang

 

The Ford Mustang is a series of American automobiles manufactured by Ford. In continuous production since 1964, the Mustang is currently the longest-produced Ford car nameplate. Currently in its sixth generation, it is the fifth-best selling Ford car nameplate. The namesake of the "pony car" automobile segment, the Mustang was developed as a highly styled line of sporty coupes and convertibles derived from existing model lines, initially distinguished by "long hood, short deck" proportions.

 

Originally predicted to sell 100,000 vehicles yearly, the 1965 Mustang became the most successful vehicle launch since the 1927 Model A. Introduced on April 17, 1964 (16 days after the Plymouth Barracuda), over 400,000 units in its first year; the one-millionth Mustang was sold within two years of its launch.[5] In August 2018, Ford produced the 10-millionth Mustang; matching the first 1965 Mustang, the vehicle was a 2019 Wimbledon White convertible with a V8 engine.

 

The success of the Mustang launch would lead to multiple competitors from other American manufacturers, including the Chevrolet Camaro and Pontiac Firebird (1967), AMC Javelin (1968), and Dodge Challenger(1970). The Mustang would also have an effect on designs of coupés worldwide, leading to the marketing of the Toyota Celica and Ford Capri in the United States (the latter, by Lincoln-Mercury). The Mercury Cougar was launched in 1967 as a higher-trim version of the Mustang; during the 1970s, it was repackaged as a personal luxury car.

 

Lee Iacocca's assistant general manager and chief engineer, Donald N. Frey was the head engineer for the T-5 project—supervising the overall development of the car in a record 18 months—while Iacocca himself championed the project as Ford Division general manager. The T-5 prototype was a two-seat, mid-mounted engine roadster. This vehicle employed the German Ford Taunus V4 engine.

 

The original 1962 Ford Mustang I two-seater concept car had evolved into the 1963 Mustang II four-seater concept car which Ford used to pretest how the public would take interest in the first production Mustang. The 1963 Mustang II concept car was designed with a variation of the production model's front and rear ends with a roof that was 2.7 in (69 mm) lower. It was originally based on the platform of the second-generation North American Ford Falcon, a compact car.

  

Eldorado, Kansas Car Show, Sep 2014

 

Photo by Eric Friedebach

Colleallodole- Bevagna (nei pressi della azienda Milziade Antano)

 

Umbria- Bacco Minore

 

Fino a qualche anno fa l’Umbria aveva il sapore di un grappolo d’uva appena colto dalla pianta. I suoi vini svelavano il mistero delle profondità della terra e la presenza discreta della mano tradizionale dell’uomo. La vite cresceva alla rinfusa, abbracciata all’acero o alla bianchella, in promiscuità con il grano e con le altre coltivazioni foraggere. Ma erano piuttosto gli ulivi a caratterizzare il paesaggio agrario della regione. Ancora sul finire degli anni Settanta quella umbra poteva definirsi un’enologia arcaica, quasi ancestrale; tanto è vero che Mario Soldati, nel suo <> (1968 – 1975) la salta a piedi pari. Eppure già tra le due guerre, e fino all’inizio del boom economico, in Italia la parola “Orvieto” racchiudeva in sé la definizione inequivocabile di “vino bianco”. Poteva capitare in quegli anni, che l’oste chiedesse ai suoi clienti: <>. Sulle qualità organolettiche di quel vino di allora non saprei aggiungere altro, perché ne ho un vago ricordo che si perde nel tempo, fatto di calori appassionati, contrasti olfattivi, visioni adolescenziali, fiaschi impagliati e primi sorsi furtivi di libertà. So solo che al palato avvertivo le sue sfumature amarognole, alcune volte amabili e in certe bottiglie dei sentori dolci, ma sempre fini e delicati. Nemmeno sul suo colore si poteva scommettere: a volte giallo paglierino quasi intenso, altre più trasparente, ma mai torbido. Ci sarebbe da chiedersi perché quella denominazione, tra le più rappresentative del Paese, abbia perso la sua fama. Forse tutto è dipeso dal fatto che già negli anni Cinquanta nelle osterie italiane ne girava di più di quanto le ridenti colline dell’orvietano potessero produrne. La cosa dovrebbe farci riflettere. Ma il vino, si sa, non è soltanto quello che - talvolta con fastidiosa gestualità - volteggia all’interno del bicchiere. Il vino è soprattutto tante storie che vi ruotano intorno, è benessere e prosperità del distretto che lo produce, quadratura di bilanci locali, movimento di turisti e risorsa occupazionale.

Sfoglio alcuni libri ormai rarissimi: “I vini d’Italia” di Luigi Veronelli (1961); “Il libro d’oro dei vini d’Italia” di Cyril Ray (1966); “Vini rossi” e “Vini bianchi e rosati” di Stefano e Alberto Zaccone (1971); “Saper bere - dal Barbera al Whisky”, di Luigi Marinatto e Francesco Zingales (1974); l’”Atlante dei vini d’Italia” (1978), di Burton Anderson. I testi sacri mi confermano che nella storia dei territori consacrati all’enologia, le tre DOC allora riconosciute (Orvieto, Torgiano e Colli del Trasimeno) non meritavano che una fugace menzione. Per assistere al decollo dell’enologia umbra, per lunghi anni connessa a una situazione di abbandono, bisognerà attendere gli anni Ottanta, contrassegnati nella prima metà dalla figura pionieristica di Giorgio Lungarotti e nella seconda dall’exploit del Sagrantino. E’ questa una regione che, per uno scherzo della sorte, si connota d’incomparabili armonie e sfuggenti identità, secondo i fenomeni che più o meno consapevolmente l’attraversano. Il Sagrantino è uno di questi fenomeni, che oggi rappresenta l’Umbria, e la definisce, più di quanto non faccia l’Orvieto. Non è facile stabilire se questo risveglio sia solo merito dei Caprai, o anche dei produttori che hanno seguito il suo esempio. La disputa è aperta. Sta di fatto che Arnaldo, imprenditore tessile prestato all’enologia, ha creduto e investito nella ricerca e nella promozione, dando la prima coraggiosa spallata al mercato, puntando sul figlio Marco, vero elemento trainante per tutta la denominazione e, lasciatemelo dire, per l’economia legata al territorio. In verità non fu solo Caprai a comprendere le potenzialità di questo vino. Per Montefalco fu quello un periodo di grande complicità imprenditoriale, che spinse Arnaldo Caprai a unirsi alle altre aziende storiche: Antonini Angeli Mongalli, Domenico Benincasa, Ruozzi Berretta, Consorzio Agrario di Foligno, Bruno Metelli, Rio Pardi, Antonelli, Adelio Tardioli, Domenico Adanti; tutti produttori che giocarono la scommessa di trasformare in “secco” quello che la tradizione voleva fosse trasformato in “passito”. La caparbietà di questi produttori superò le resistenze di chi non aveva compreso le potenzialità dell’imponete corredo polifenolico di quest’uva a bacca rossa. Fu così che Montefalco, con il suo vitigno autoctono, lanciò la sfida al Barolo, all’Amarone e al Brunello, guadagnandosi un posto di assoluto rilievo nella storia del comparto enologico nazionale. Il Sagrantino è passato dai 100 ettari coltivati nel 2000 ai 600 di oggi e conta su 45 produttori facenti capo ad un consorzio di tutela. Ma soprattutto è entrato con prepotenza nelle grazie di quei consumatori che ricercano nel vino gli elementi misterici capaci di evocare storie e suscitare suggestioni. Oggi, contendendosi gli ultimi fazzoletti di terreno rimasti all’interno dei Comuni di Montefalco, di Giano, di Gualdo Cattaneo e di Bevagna è giunto il Gotha dell’enologia italiana, rappresentato dalla Sai Agricola, dai Lunelli, dai Livon, dai Cecchi e dagli stessi Lungarotti.

Il cuore pulsante di questa straordinaria denominazione si concentra lungo la direttiva che sale da Bevagna a Montefalco. E’ quello di Arquata, Fonte Fulgeri, Campo Letame e Colle Allodole, lo scenario francescano affrescato nel 1451 da Benozzo Gozzoli nella predica agli uccelli, che si può ammirare nella chiesa museo di San Francesco a Montefalco. All’interno di questa conca incontaminata prosperano le vigne delle aziende Adanti, Milziade Antano e Ciro Trabalza. Sul versante che volge a est, si affaccia Collepiano, con il suo secolare querceto circondato dai vigneti di Caprai. Risalendo verso Montepennino, si distendono a tappeto i nuovi impianti di Tiburzi, Goretti e Lunelli, produttori che hanno abbracciato la filosofia di questo lembo di territorio, dove il prezzo della terra, fino a un paio di anni fa, aveva raggiunto cifre esagerate. Proprio all’inizio di questa strada, in agro bevanate, incontro Ciro Trabalza, collega in codici e pandette, custode infallibile delle tradizioni rurali e venatorie della sua terra. La sua azienda di Arquata (ereditata da quel Ciro Trabalza, etnologo di fama mondiale) confina con quella degli Adanti. I tratti vagamente gattopardeschi, uniti al puntiglioso studio delle tecniche agronomiche - non meno di quanto il Principe di Salina studiava il moto perenne degli astri – fanno di Ciro uno di quei vignaioli che sarebbero piaciuti a Mario Soldati. Dalla sua cantina, a conduzione familiare, escono poche bottiglie, da cui Ciro si distacca con dispiacere. Più in là trovo Alvaro Palini, cantiniere, enologo e sarto dai trascorsi parigini, la cui esistenza è legata a quella della famiglia Adanti. Fu Angelo Valentini, enologo dei Lungarotti, che agli inizi degli anni Ottanta presentò Burt Anderson ad Alvaro, con il pretesto di fargli assaggiare il miglior Grechetto della zona. Burton in quegli anni era un critico di vini così importante come oggi lo sono diventati Hugh Johnson e Robert Parker, la cui influenza fu tale da incidere sul mercato vinicolo mondiale. Altro che Grechetto! Anderson fu colpito dal Sagrantino e dal Rosso d'Arquata. Fu così che tra Alvaro e Burton nacque una grande amicizia, suggellata dalla continua presenza di Anderson a Bevagna, Montefalco e al tavolo loro riservato nel ristorante degli amici Sandra e Angelo Scolastra. Oggi Burton ha lasciato lo scettro ad altri colleghi e ad altra filosofia. Sta costruendo il suo “buen retiro” in Maremma e di tanto in tanto viene a trovare Alvaro per assaggiare i suoi vini. Credo di non allontanarmi dalla verità nell’affermare l’influenza che ha avuto Burton Anderson sulla fama acquisita dal Sagrantino, che ebbe modo di far conoscere al mondo, prima che cominciassero a muoversi i soloni del nostro giornalismo enologico. Il resto l’ha fatto Caprai in anni più recenti, mandando a tilt la sua carta Alitalia delle Millemiglia per far conoscere il Sagrantino dalla Germania agli Stati Uniti, dal Giappone alla Cina. Oggi le cose stanno cambiando. Liù Pambuffetti, figlia di Amilcare e futura reginetta di Scacciadiavoli, studia all’Università di Enologia di Bordeaux. Non so quanti illustri rampolli di famiglie legate storicamente al vino facciano altrettanto. Giampiero Bea si fa ritrarre insieme a J. Nossiter, enologo di New York e regista di “Mondovino”, proponendo la sua faccia ai milioni di persone che hanno visto e vedranno i contenuti extra del film che denuncia la globalizzazione dell’industria vinicola. Il messaggio di Bea è lampante e si avvicina alla filosofia neoliberista di Nossiter: il vino è il frutto di un sapere che si trasmette tra padri e figli e la sua cura non va affidata alle decisioni dei soliti consulenti. Ma sono molte le aziende tradizionali che si sforzano di uscire dall’isolamento. Come quella di Luciano Cesarini, ingegnere ed ex capatazze dell’Enel che produce il “Rosso Bastardo” o quella di Filippo Antonelli, erede della nota azienda di San Marco o dello stesso Sindaco di Montefalco, Valentini Valentino (Bocale), che presiede l’Associazione Nazionale delle “Città del Vino” a dimostrazione della notorietà raggiunta nel panorama enologico nazionale dal Comune che egli amministra. Ma le sorprese più incoraggianti vengono da Tabarrini (Colle Grimaldsco) e da Antano (Colle Allodole), piccoli ma preparati imprenditori del settore, in sintonia con il mercato, ma senza far torto alla tradizione. Li ho visti aggirarsi per i padiglioni di Vinataly con padronanza e sicurezza del loro ruolo, corteggiatissimi dalla stampa e dai wine expert a caccia di novità enologiche.

Ad Amelia la fa da padrone il Cigliegiolo. La cantina dei Colli Amerini, con i suoi 700 ettari di vigneti di proprietà dei soci, produce anche La Torretta (Malvasia), il Vignolo (Grechetto), L’Olmeto (Merlot) e vini di grande struttura e longevità come il Carbio (un riuscito uvaggio di Merlot, Sangiovese, Ciliegiolo e Montepulciano) e il Torraccio (un I.G.T. monovitigno di Sangiovese Prugnolo). Sulla strada di Castelluccio Amerino incontriamo il Castello delle Regine, dove si produce un Sangiovese in purezza (Podernovo, Umbria I.G.T.).

L’Umbria è il vostro bicchiere, il cui contenuto liquido va manovrato con cura e attenzione. Solo così i contrasti apparenti e le piccole spigolosità dei suoi vini potranno farsi nel vostro palato note armoniche e lievi. Ma perché riveli il suo sapore eterno bisogna dedicarle tempo e attenzioni. Solo così potrete riconoscere nei suoi vini il vero e proprio ricostituente dell’anima che andavate cercando.

Giovanni Picuti

abcabc@cline.it

 

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