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“She has a sly smile,
and eyes that seem to see my essence
as they explore my soul
and implore my spirit to enter her.
I look at her and I see love.”
― Jarod Kintz,
Love quotes for the ages. Specifically ages 18-81.
Disarm Me With A Smile
❤ BLOG: Credits & Slurls & More ❥
sllorinovo.blogspot.ca/2014/11/disarm-me-with-smile.html
Featuring COSMOPOLITAN SALE ROOM & WOW SKINS
Listening To
DISARM by Civil Wars
Fiori rosa fiori di pesco
c'eri tu
fiori nuovi 'stasera esco
ho un anno di piu'
stessa strada, stessa porta.
Scusa
se son venuto qui questa sera
da solo non riuscivo a dormire perche'
di notte ho ancor bisogno di te
fammi entrare per favore
solo
credevo di volare e non volo
credevo che l'azzurro di due occhi per me
fosse sempre cielo, non e'
fosse sempre cielo, non e'
posso stringerti le mani
come sono fredde tu tremi
no, non sto sbagliando mi ami
dimmi che e' vero
dimmi che e' vero
dimmi che e' vero
dimmi che e' vero
dimmi che noi non siamo stati mai lontani
dimmi che e' vero
ieri era oggi, oggi e' gia' domani
dimmi che e' vero
dimmi che e' ve...
Scusa credevo proprio tu fossi sola
credevo non ci fosse nessuno con te
oh scusami tanto se puoi
signore chiedo scusa anche a lei
ma io ero proprio fuori di me
io ero proprio fuori di me quando dicevo:
posso stringerti le mani
come sono fredde tu tremi
non, non sto sbagliando mi ami
dimmi che e' vero
dimmi che e' vero
dimmi che e' vero...
Il disarmo e l'impotenza.
Torino.
Aprile 2015.
(sempre Lui. Helios 40.)
Carrow Wells was one of my favourite places I stopped on my recent trip to the Eyre Peninsula. Highly recommended for a free camp on the way down the east coast before hitting Port Lincoln
Model: Caterina S.
SOUNDTRACK: it.youtube.com/watch?v=V00n7M5CuCg
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E’ facile perdersi
A chiedersi
Quanto valiamo
I resoconti non dovrebbero essere mai fatti:
le azioni non compiute pesano,
più pesanti degli errori
Lontano da questo ordine cerchi di arrivare..
Ma naufragando su me stesso..
Vedo in faccia il mio disarmo
Non resta che accettarlo
Non mi resta che abbracciarlo
E soffoco
Il pianto
Non è facile rispondersi
Su quanti sogni abbiamo
In quali poi speriamo
Di quei pochi che realizziamo
Cadere è ascoltare il tonfo
Che nel disarmo si realizza
[Marco Tedeschi 14Settembre’07]
Irina's beauty is her least used weapon but it's there in reserve, ready to disarm just the right enemy. In the air she has no soft edges, she fights with tooth and claw.
There is no glory... its death or glorious
~
Iplehouse Bianca wearing a collar by BlanchingQueen
☆ Monso - Rumi Hair
☆ Not Found - Skin Rumi with Makeup and Demon Marks
☆ Eternus & Vaki Kvaki - Vibe Outfit (Equal10)
☆ RAWR - Disarm Necklaces
See ALL my pictures on Primfeed and only safe content on Flickr.
take a look at my blog slstrawberrymilk.blogspot.com
L' 11 Marzo 1924, 100 anni fa, nasce Franco Basaglia.
Dopo aver liberato i malati di mente dalla prigione dell'istituzione diceva : ' Visto da vicino nessuno è normale...'
Le personalità psicopatiche sono quelle che soffrono e fanno soffrire gli altri.
Non so chi di noi non soffre o non faccia soffrire gli altri..
( Franco Basaglia)
Continuare ad accettare la psichiatria e la definizione di 'malattia mentale' , significa accettare che il mondo disumanato in cui viviamo sia l'unico mondo umano, naturale, immodificabile, contro il quale gli uomini sono disarmati
( Franco Basaglia)
Spiaggia di Noli
Liguria
The torn flag
Going to rain
100 years ago the psychiatrist Franco Basaglia was born
after disarming a crayfish by bashing it repeatedly on the perch, belted kingfisher pauses to scratch an itch with it's tiny foot.
Who needs mall cops anymore?
Seen here after disarming and in the process of apprehending a urban youth.
-Armed with pepper spray and 2 tazers.
LEENA: Control, the subject has been neutralised. Ali is about to open the briefcase. We need to know how to proceed; over.
CONTROL: Ok, we have the schematics for the bomb. The only way to disarm it, is to cut the bright yellow wire. I repeat; the only way to disarm the bomb is to cut the bright yellow wire; over .....
"You hear the sirens wail
Somebody going to emergency
Somebody's going to jail ....."
New York Minute - PLAY
A Sparx Agnomen collaboration
{ Appreciate what you have }
(cont.)
ACT THREE
INT-LAVISH LIVING ROOM-NIGHT
The lights in the room are on again, Larry enters the room, finding Margie weeping over the still form of Tyler, on the floor, blood staining the front of his shirt.
Larry: It was the breaker. Someone flipped the main... (trails off) Is he --
Margie: (harshly) He's dead! Oh, god, he's dead!
Larry: It was meant for me, Margie. They meant to kill me!
Margie: Oh -- what are you talking about?
Tia: (dashes into the room, gun drawn) I heard a shot--! (takes in the scene) What happened?
Margie: You killed him! You killed Tyler!
Larry makes a move toward Tia, like he might have intended to disarm her, but Tia steps back, motioning for Larry to move closer to Margie.
Tia: I didn't kill anybody.
Margie: You shot Tyler! You're holding the gun!
Tia: This weapon hasn't been fired, and when the cops get here, I'll be happy to turn it over to them to check it. I was outside when I heard the shot--
Larry: Tyler told us, before you killed him, how you ran off and left him alone. He came back here, and when you turned out the lights, you shot him, thinking it was me.
Tia: Why the hell would I shoot you, Mr. Ross?
Larry: For Filippa's money!
Tia: What are you talking about?
Margie: (hisses to Larry) It's gone!
Larry: What?
Margie: (motions Larry closer and whispers) I put the bag in my pocket, but it's gone.
Larry: Did you drop it? (looks around at the floor)
Margie: Someone bumped me, in the dark. I thought it was you or Tyler, but what if it was her? What if she eavesdropped, and heard me telling you about it, the same way she did, before?
Larry: (glances at Tia) We'll tell the cops. They can search her.
Margie nods at this, continuing to weep over Tyler, removing her jacket and covering his upper body and face with it. Larry takes out his phone, starting to make a call.
Tia: Who are you calling, Mr. Ross?
Larry: (as the clock chimes eleven) The cops, do you mind?
Tia: Not at all.
Larry: I don't understand what the hell could be taking them so long.
Margie: Maybe they can't get around your phantom tree in the road.
DFV: Valley Dispatch. How may I direct your call?
Larry: Uh, hello. This is Lawrence Ross, and I called about an hour ago. You said you were sending officers out right away, but they're not here yet!
DFV: Of course not. I haven't sent them.
Larry: H--haven't sent them? Why the hell not?! A man's been killed while we've been waiting!
DFV: Oh, Larry, my Larry, it's because you haven't been talking to the police. I'm coming home, Larry. Exterreri is bringing me home. I'll be there in one hour. (a horse whinnies loudly)
(To be continued...)
Cast
Lawrence Ross -- Erebus
Margie Capall -- Bailey
Tyler Dane -- Seth
Quello che rimane di una nave da trasporto...
'till the ship go...
Nikon D300 + Nikkor AF-ED 300 f/4
Chioggia - Veneto - Italy
Passi
(Two years ago, and it's like today)
Le nubi sono il tappeto sul pavimento di un mondo capovolto. A guardarle così, con la testa voltata all'insù, si fatica a camminare. Forse i piedi arrancano, privati della vista. Tengono il tempo con il cuore e la strada con gl'occhi, e battono il passo quando le palpebre s'abbassano. E se gl'occhi guardano il cielo allora i piedi non sanno più cosa fare, schiavi della terra come i treni dei binari.
Sembrano promettere, le nuvole. Fresco, vento, pioggia. Invece non ne verrà nulla. E' il primo fine settimana di Luglio, fa caldo sin dal mattino, e se un soffio di vento evade dalla prigione dell'estate è vento caldo, scaldato, accaldato.
Chissà le prostitute, sulla strada per Carugo. E' una strada dritta e pianeggiante, una stringa d'asfalto tra relitti di prato e cadaveri di fabbriche. Le prostitute se ne stanno all'imbocco degli sterrati che prima portavano ai campi e poi alle fabbriche ed ora ai rifiuti. Se ne stanno sotto agl'alberi, ombrelli vegetali. Vuoi scopare?, dicono. Posso farti le coccole?, m'aveva chiesto a Torino, sulla strada che l'attraversa tutta, una prostituta di colore. Altra educazione, altra terra. Camminavo, cammino pure ora.
Casa non è lontana, ma la strada s'è già mangiata la stima delle distanze. Colpa delle macchine, pure della mia. Sono vicino a casa, razionalmente a forse due chilometri. Ma in macchina avrei detto che è un chilometro solo, e invece le gambe dicono di più, più di uno, più di due.
E' il lavoro.
La fabbrica.
La fabbrica non smette di lavorare dopo che i cancelli chiudono per la notte, per il fine settimana. La fabbrica inizia il suo lavoro, quello che ama, proprio allora. Non ci guadagna nulla, non denaro: quello lo guadagna tutti i giorni della settimana, undici mesi e mezzo all'anno. Quest'altro lavoro, quello sporco, lo fa solo per sadico diletto: aggrapparsi sulle ossa di chi lavora più di quel che gli si chiede, prendergliele lunedì e restituirgliele domenica crepate, pesanti, e insudiciargli di fatica i muscoli, l'animo. Rubargli il tempo. Quando finiscono le settimane, quando iniziano le estati, quando arriva la sera.
Così cammino. Ci son stanchezze migliori di quella, anche se sono così stanco che non so se riuscirò a procurarmene una.
Calpesto l'erba del colle, qui non ci passa mai nessuno perché usano, usiamo, tutti la macchina. Ci vanno giusto i cani a fare i bisogni loro, e i miei gatti a prendere il fresco. Poi piglio la strada che non percorro quasi mai, perché a lavorare ci vado dalla parte opposta. Mezzo chilometro di rettilineo, sale appena. Un altro mezzo chilometro tra le case, poi due tornanti quando la strada già scende.
Una volta, qui, all'altezza del primo, una macchina ha filato dritto. C'erano dentro due cretini e le loro amiche. La gente della frazione s'era messa a guardare di sotto, nel fosso, come fosse un balcone panoramico sull'anteprima di un cimitero. Televisione. Inquadratura sulla morte, sulla sofferenza. Dolore in divenire, decessi prossimi venturi, almeno amputazioni imminenti. La macchina se ne stava venti metri più sotto, contro al muro di un capannone. Non c'era arrivata in volo, non aveva volato, non era decollata. Aveva solo percorso il declivio del fosso invece che staccarsene, e contro al capannone c'era arrivata già quasi ferma, nemmeno l'aveva sfondato, solo urtato un po'. Nessun morto, nessun ferito, nessuno stridore di lamiere e scintillare di fiamma ossidrica per tagliarle. Nessun urlo di dolore disperato. Tutti a casa.
Dopo i tornanti la strada raddrizza di nuovo, nel nulla di ricordi di lamiera e cemento tra i prati.
Credevo facesse più fresco, appena uscito, e invece già la temperatura s'alza. Un chilometro di rettilineo, di lavori in corso. Le imprese s'affannano a far profitti, le braccia in subappalto s'affannano a lavorare per pochi soldi. Boschi e prati e strade finiscono a fette per far posto alla strada che porterà al centro commerciale, quando tra un anno sarà costruito.
Guardo all'insù. Pipistrello capovolto aggrappato con le zampe al soffitto d'asfalto bollente. Oltrepasso le prostitute, il fresco dei loro alberi, la ruggine di vecchie recinzioni. Alla rotonda volto le spalle al Nord degl'alberi, dei laghi, delle montagne, e vado a Sud.
Inutile romanticheria delle parole, figlia abbandonata delle letture di quand'ero bambino, dei romanzi di Verne e di Salgari e di Stevenson. Nord, Sud. Non è così che ci si orienta, non sono quelle le direzioni che si prendono, le mete, i punti di riferimento.
Alle spalle mi lascio le colline ed i piccoli laghi tra i due rami del lago grande, di fronte, per chilometri, scendo verso la pianura in direzione di una città squallida che getta i suoi miasmi fin qui, nell'animo quanto nell'aria, e che invece che incubo è diventata modello, ricca di denaro quanto vorrebbe esserlo la gente di qui, povera nell'animo come la gente, qui, lo è da sempre.
Inizia un altro rettilineo. Uguale a quello che l'ha preceduto, solo più lungo. Stesso panorama, intorno. Prati, l'intera provincia ne è piena. Ma fabbriche ovunque a macchiarli e ovunque strade a lacerarli. Tutte figlie della presunzione avida di chi viveva per fare soldi ed ora sopravvive aggrappandocisi. Ignaro allora della propria stupidità e ignaro ora della propria squallida decadenza.
Dagl'auricolari mi s'infila musica nelle orecchie. L'ho accesa sin dai tornanti, appena fuori di casa. Questa provincia ha un suono che non voglio ascoltare più. Il lettore mp3, nella tasca dei jeans, l'ho comprato solo per questo.
E' dall'asfalto e dal sole e dalle rocce e dalla sabbia che viene questa musica.
Adolescenza elettrica, i sensi accesi dal timore, pronti a sentire il sussurro di quel silenzio, a scorgere appena fuori dallo sguardo l'ombra che beffarda allunga le zampe dai capannoni.
Incontrare la musica in questo momento, diventa catarsi.
L'alternativa è illudersi. Ascoltare sogni fasulli, consolazioni orecchiabili. Come le bollicine dello scoppiato, albechiare da cantare in coro senza che dicano nulla e senza che nulla capiscano. Prima c'era lui, inutile, vuoto. C'era l'ipocrisia punk, che almeno c'aveva lasciato un'estetica violentemente sporca, disordinata. C'era la musica delle classifiche, per chi aveva la macchina di papà e l'autoradio con l'estraibile e si divertiva a passare davanti ai bar con il volume alto e gl'occhiali da sole di marca.
Fuori dal coro c'era l'heavy metal, per chiamare le cose per nome e uscire da una menzogna sorda che l'ignorava ridendo. E c'erano i Kyuss. Che suonavano il deserto, con chitarre e birra e marijuana e generatori di corrente, e suonavano quel che il deserto faceva suonar loro, quel che veniva loro dalle rocce, dal sole, dal sudore, dalla noia della città. Noia silenziosa, quando il sole batte forte.
Pensandoci ora, perfino nei garage dove suonavamo si vedeva entrare lo squallore impostore. Nelle discussioni tra chi voleva scrivere della musica, comporne, suonarla, e chi invece voleva solo imparare a suonare le canzoni che tutti cantavano e andare a suonarle davanti agli altri e chissà domani in quale futuro radioso fare il grano.
Così non suonammo quasi mai stoner rock. Eravamo chiusi l'uno all'altro, allora come ora. Io più degl'altri. Forse la faccia con cui chiudevamo la porta della condivisione nascondeva imbarazzo, vergogna. Potrei pensarlo della mia, immaginarlo di quella degli altri. Passammo più tempo a star zitti che a parlare, e il tempo mutò il silenzio che mettevamo in scena. Se prima era la pretesa d'una vicinanza silenziosa, era l'inutilità delle parole quando si è compari, poi divenne l'assenza di qualcosa da dirsi, l'atrofia delle parole, l'inganno svelato: aveva vinto lo squallore, ci stava prendendo tutti, stavamo ancora zitti come prima ma adesso quasi nessuno ne ricordava il nobile e ostinato perché. Se prima il silenzio era catarsi, era resistenza, poi divenne eroina. L'anestesia chimica che colava come piscio denso dalle gambe del vecchio nemico, e se li era presi tutti quando io andavo a cercare parole e strade e non m'accorgevo che ci stavamo perdendo tutti quanti.
Finirono pure i Kyuss, intanto.
Il mercato per batterli, suoi nemici, li fagocitò. La libertà e la creatività loro, quali che fossero, che fossero consapevoli o invece perfino involontarie, erano un insulto. Andò a mangiarseli, su una tovaglia di soldi e contratti, il mercato.
E abbiamo continuato a guardare le nostre città, le nostre strade, come in una televisione. Una televisione in movimento su quattro ruote, quelle delle nostre automobili. E adesso, a camminarci, le stesse strade, le stesse città, sono diverse.
John Garcia canta, io canto nella mia mente, e non m'accorgo che sto facendo la stessa strada che farei in macchina. Asfalto. I piedi possono andare altrove, trovare prati e canali e sentieri, ma la memoria della strada li porta dove corrono i copertoni.
E fa caldo. Di più, ora.
Finiscono le agonizzanti fabbriche dell'agonia.
Ci sono concessionarie d'automobili, ora, e autolavaggi, e pompe di benzina. I potenti fingono di preoccuparsi per il clima e intanto chiedono più petrolio ai paesi estrattori. E' il piscio del sistema. Veleno che vale oro.
Eroina agl'operai, cocaina ai presuntuosi, petrolio alle macchine.
Come fosse tutto un treno, ed ogni vagone provvedesse per sè. Pure per morire. Ma non è un treno di vagoni solitari, questo, è un convoglio di morituri a cui hanno insegnato divisioni e non promiscuità. La promiscuità che il destino ha in serbo per loro.
Una signora molto figa scende da un suv, prima le gambe nude poi la minigonna poi il decolleté abbronzato poi il viso truccato. Dice qualcosa al benzinaio, gli mostra la tessera per lo sconto sulla benzina.
E vuoi pure lo sconto?, penso.
La tessera la danno a chi abita di qua dal confine svizzero, per dissuaderlo dal passare la dogana e fare il pieno altrove. Non guardano reddito o automobile o consumi. Pure una zoccola piena di grano a cavallo di un mostro da settantamila inquinanti euro ha diritto alla tessera per lo sconto. Democrazia dello scempio.
John Garcia canta Son Of A Bitch.
Bitch.
Bravo John. Dei figli della signora però non so. Magari nemmeno ne ha.
Un altro rettilineo.
Lontani dai colli e dai laghi è tutto un rettilineo. L'anticamera di quel che succede a Milano, nella presunzione sua. Rettilinei. Traffico, inquinamento, e rettilinei. Dritti come quelli, inesistenti, che percorrono le promesse dei ricchi imprenditori milanesi. Altrettanto dritti, altrettanto inquinati. Altrettanto affollati.
Un chilometro più avanti c'è il centro commerciale. Lo si vede già da qui. Il sole, intanto, ha trovato nel traffico il suo compare: la strada è bollente, l'aria pesante, asfissiata e asfissiante per gli scarichi delle automobili. Tante, qui. Nemmeno m'ero accorto, prima, di non averne incontrate per chilometri. Vanno tutte al centro commerciale.
Da casa mia dovrebbero essere otto chilometri. E' passata un'ora e dieci, e fatico a far tornare i conti, perché sui manuali e nei consigli di chi cammina risulta che in un'ora si fa un po' meno strada di questa. Si cammina, senza fretta. Io non avevo mica fretta, eppure sono già arrivato. E non è nemmeno qui che volevo arrivare.
L'aria è condizionata, dentro. E condiziona: mitiga l'effetto asfissiante e bollente dei gas-serra producendo gas-serra. La temperatura non è particolarmente bassa, ma passare dal caldo umido e sporco di là fuori al freddo asciutto e asettico di qui dentro riempie la schiena di crampi e dolori. Bisogna respirare a metà per non sentire male.
Compro una spazzola per Penelope, una scodella nuova per Silvestro. Una rivista per me. Perché sulla copertina c'ho visto titoli che parlano della Via Francigena, di viaggiatori pedestri. E' un'idea. Cammino da una vita senza andare da nessuna parte, un giorno potrei camminare su strade diverse da queste.
Vado al bar. Chiedo un caffè freddo. Anche se a quest'ora la memoria gastrica chiede aperitivi e alcool che l'altra memoria, quella conscia, cerca di ignorare.
Sarebbe bello, sì. Andare a Roma a piedi. Da qui. La Via Francigena passa più giù, dovrei andare ad incrociarla ad Ivrea, o Vercelli, o Piacenza. E poi non ci sarebbe che da camminare. Ignorando la religione di chi c'incontrerei. Non è la mia, certo non quella. La mia è nelle scarpe e fuori dagli edifici. Si tratterebbe solo di camminare, per me, passi laici. E sicuramente non tutti quelli che la percorrono lo fanno per motivi spirituali. Nessuno, anzi, credo lo faccia per quei motivi. Nemmeno chi lo crede. O crede di crederlo. Se l'eroina ed il petrolio sono il piscio del sistema, la religione è il fiato suo. Quello che gli esce di sotto.
Arriva il caffè.
Mi domando perché si sovrappongano i pensieri l'uno all'altro. Pensieri pesanti e astiosi ad altri che di leggero, pure loro, non avevano nulla. E' questo il carico che mi fa male alla schiena, forse. Quanto e più che il lavoro.
Leggo.
Ma non fa per me, quel percorso, quel viaggio. Nessuno simile, forse, anche se è proprio quello che invece vorrei, fatto di sole scarpe e notti a cielo aperto. Non fa per me perché già ora, leggendo di tappe di venticinque chilometri da percorrere in sei ore, penso, senza farci quasi caso, che no, è troppo, che quello è andar piano, e già leggendo medito d'unire due tappe alla volta, camminare otto o dieci o dodici ore al giorno. Trasformando, però, il viaggio in una cavalcata, in un sorpasso continuo. Sorpasserei gl'altri, sorpasserei la strada, gl'argini, le case, i colli. Cosa ne resterebbe?
Sono immune alla competizione ma del tutto ammorbato dal timore di non fare in tempo, credo. Ho aggredito il mese di Luglio ed il trasloco dei reparti, in fabbrica, come se il tempo non dovesse bastarmi mai, mentre gl'altri se la prendono con calma. Partissi lungo la Via Francigena, a piedi, finirei per percorrerla allo stesso modo, senza goderla, viverla, respirarla. Tornerei a casa con due bagagli: lo zaino della partenza, la stanchezza affrettata dell'arrivo.
Quand'è successo?, mi chiedo. Quand'è che son diventato così schiavo dell'urgenza? E' papà? Così alacre, così lavoratore, sempre di corsa per mantenerci, fino ad ammalarsi? E' questo? Correre e affaticarmi per dimostrarmi di valerlo? Per ripagare con i dolori del corpo e la stanchezza i suoi sacrifici? Ringraziarlo imitandolo, perché a voce non so farlo? Psicologia da quattro soldi. Non porta da nessuna parte. Fosse pure davvero tutto così, nemmeno lo saprei. Ed in effetti non lo so.
Chiudo la rivista, ascolto due signore chiacchierare bevendo il caffè e mangiando pasticcini. Tengono le tazzine con la mano destra ma con il manico voltato a sinistra. Quindi non sono mancine: fanno così perché i mancini sono pochi, e quindi è certo che quasi tutti, impugnando la tazzina con la destra, bevano dallo stesso lato. Cosa che loro riescono ad evitare prendendo le tazzine in quel modo. Lo noto solo perché lo faccio anch'io, per lo schifo che mi fa chi prova schifo in quel modo.
Una dice che è ora di smetterla. Con gli zingari e gli extracomunitari. Tutta gente che chiede soldi e intanto invece ne ha fin troppi, chiede la carità e invece s'ingozza nel lusso.
“Sta parlando della messa cattolica?” chiedo alla signora.
Si voltano tutt'e due. M'alzo.
“No, di quelli che chiedono la carità e invece sono pieni di soldi”
“Appunto: la chiesa cattolica”.
Mollo la rivista sul tavolo delle signore. Ho nelle mani sberle che le rendono di colpo roventi e nessuno a cui darle.
Riaccendo la musica.
John canta.
I've got the demon within
I've got to brush them all away
I feel the demon's rage
I must clean them all away
Yeah...
L'ora del pranzo sta svuotando la strada, per fortuna. Me ne lascio alle spalle un altro pezzo. Di fronte a me, in fondo alla salita, c'è Cantù.
E c'è un piccolo bar.
Extracomunitari, dentro, e meridionali. Un bar di quelli che la gente di qui evita. Non è certo elegante, e da queste parti la mancanza di sfarzo sembra sempre sporcizia, anche quando non ce n'è. Aspetto il mio turno con i gomiti sul fresco del bancone. Il barista sta parlando con un paio di clienti. I ragazzi che quando sono entrato stavano fuori, seduti sui gradini a bere birra dalla bottiglia.
Alle mie spalle un uomo con i capelli grigi succhia un gelato.
E' una cosa che detesto. I rumori che la gente fa quando mangia. Perché sono evitabili quanto sono sgradevoli. Ci son tavole che ho lasciato per averne sentiti, persone a cui inutilmente chiesto di non farne, più bisognoso di mettere alla prova la mia temperanza che fiducioso di ricavarne qualcosa di diverso da un litigio.
Ma il barista m'anticipa chiedendomi cosa io voglia.
Chiedo un caffè freddo, pure qui. Non è il luogo dove mi sembra possibile che se ne si serva, e il barista, un uomo in sovrappeso, disordinato, con gl'occhi liquidi, non mi sembra sappia farne. Ma resto fedele al proposito di non ordinare l'alcool che mi serve.
Il barista mi chiede se il caffè freddo lo voglio con qualcosa di particolare, incassa la risposta che gli do e piglia dallo scaffale una bottiglia di whiskey. Prepara il caffè, e intanto cosparge un grosso bicchiere di cacao, infarinandone anche il bancone. Poi mescola caffè e whiskey e ghiaccio, a lungo, molto a lungo. Riempie il grosso bicchiere, e lo cosparge di nuovo con il cacao. I bordi del bicchiere ne sono colmi.
Il risultato ha una aspetto davvero invitante. Disordinato, provvidenzialmente privo di decoro.
E lo bevo.
Sulle labbra il cacao anticipa d'amaro il dolce che riempie cremoso il bicchiere. Non l'avevo mai bevuto un caffè freddo così generoso, così abbondante. E così buono. E' crema, ed è tanta.
“Cazzo!”
Il barista mi guarda. Severamente contento.
La bontà della crema fa sembrare enorme l'unico sorso che ne ho bevuto. Bevo qualsiasi cosa fino al fondo, ne sento il sapore solo alla fine, dopo che tutto m'è scorso in gola. Ora no, non riesco.
Un altro sorso. Ruoto il bicchiere per trovarci di nuovo del cacao sul bordo. Ce n'è anche dentro, tutto quello con cui il barista ha spolverato il bicchiere prima di riempirlo. Ce n'è sul fondo, quando c'arrivo.
Due euro. Per un caffè freddo buono come mai ne avevo bevuto. Averlo bevuto in un luogo tanto improbabile, preparato da mani tanto impreviste, lo rende perfino più buono. Compro dieci sigarette per il viaggio, e una bottiglia di birra che ficco nel tascapane insieme alla spazzola per Penelope ed alla scodella nuova per Silvestro.
In fondo alla salita, oltre al semaforo ed alla discesa che ne segue, c'è sempre Cantù. Città di mobili, di divani in pelle, di gente che ha fatto i soldi con la fatica ed ora a fatica cerca di aggrapparcisi. Gente che quando ce n'erano tanti non se li è mai goduti, perché la domenica lavorava, e d'estate pure. Ora non ce ne sono quasi più, soldi. Sono rimasti i capannoni, le case costruite dietro ai loro cancelli, dietro alle cucce dei loro cani da guardia.
L'attraverso, Cantù, mi ci fermo posando a terra la borsa e togliendomi la maglia, mi rimetto la borsa a tracolla e tiro avanti, tra piazze sgombre e chiese inutili, l'attraverso tutta e quando mi ricordo di esserci nato son già fuori, nelle frazioni, dove iniziano i boschi.
Sembra proprio questo: che ci spostiamo come dentro ad una televisione in movimento. Lo schermo è il lunotto delle nostre automobili. Le nostre città, le nostre strade, sono televisione, inquadrature, e non ce n'accorgiamo. Meno ancora c'accorgiamo che non è solo il mondo, il nostro, dentro ad un'inquadratura: lo siamo anche noi, siamo dentro ad una cinepresa. Tutto quel che vediamo è limitato, circoscritto.
Camminarci è diverso. Finire in boschi che si rivelano nuovi, sconosciuti, è perfino disarmante.
Trentaquattro anni che vivo qui. Che ci vivo, lavoro, guido, cammino. Com'è possibile che ci siano ancora boschi che io non abbia visto? Stappo con l'accendino la bottiglia di birra al limitare di uno di quei boschi. C'è un cartello che indica in bello stile i sentieri che partono da quel punto. Mai visto, quel cartello, passandoci vicino in macchina. Mai visti i boschi di là sotto.
Così ci vado. So di non sapere dove portino. Conosco quelli dove vado a correre, e quelli attorno ai laghi, e quelli del paese dove abitavo prima, ma questi no. Da qualche parte arriverò.
Ogni bivio è provvisto di cartelli che indicano nomi di sentieri e di località. Ma son tutti nomi nuovi, per me. Belli, e inutili. Scelgo ogni volta quelli che portano a sinistra. Politica involontaria, oggi. E' che, a spanne, sono anche quelli che più s'allontanano dalla direzione in cui si trova il mio paese.
Trovo sentieri freschi e silenziosi. Un ruscello imprevisto ne costeggia uno. Un temporale ha abbattuto un albero, l'ha fatto cadere di traverso tra le due sponde del ruscello, creando un ponte che non userà mai nessuno ed uno scorcio che nessun pittore vedrà mai. Marciranno, sia il ponte che lo scorcio.
Più avanti qualcuno ha creato un altare improbabile. Due piccoli rami di robinia legati con dello spago formano una croce, una madonna prega in un sacchetto di plastica trasparente e sporca, fiori di bosco bevono in una bottiglia di plastica decapitata. Ha una strana bellezza, tutto questo. Patetica, perché quella che ci vedo io non è la stessa che cercava di metterci chi l'ha composta. Ci penso in laico divertimento bevendo birra, poi infilo gemme acerbe di more nel collo della bottiglia vuota, la poso vicino a quell'altare tanto pagano quanto l'ignora chi l'ha creato, e la lascio ad aspettare la prossima pioggia perché la riempia. Il cielo, il poco che se ne vede tra i rami, lassù, promette di portarne entro sera.
Riprendo il sentiero. Poco più avanti ci trovo delle orme di zoccoli. Inizia una salita che mi sembra fin troppo dura perché un cavallo la percorra, ma le orme proseguono, ed io anche.
La sensazione continua.
Invadente.
Quella di una benedetta e fortunata ignoranza: così vicino a casa, forse dieci, dodici chilometri, eppure così ignaro del luogo in cui mi trovo, così nuovo questo panorama, così inesplorato.
Risalgo il sentiero, copro con le mie orme le orme del cavallo, nemmeno attento a non coprire qualche altro ricordo. se il cavallo ne ha lasciati. Ma non c'è altro, di suo, nient'altro che orme. Ce ne fosse l'odore, il profumo di sudore, d'alito caldo di fatica.
E non m'accorgo dell'assalto. Ch'è iniziato prima, prima ancora che io entrassi nel bosco, e adesso continua, senza possibilità che io lo vinca, e senza che io voglia vincerlo. E' l'assalto della natura, dell'irrazionale. Non c'è un solo suono che provenga da altrove, è tutto qui. Spalanco i polmoni, e sorridono loro al posto mio, un sorriso che non vedrebbe nessuno, pure se mi prendesse le labbra e diventasse suono.
Di chi è la terra?, penso. Di chi è la Terra? Non è di chi se ne fa randello per combattere chi non c'è nato. No, non è sua. Non è della sua ignoranza vigliacca. No, la terra, la Terra, è di chi la percorre, di chi la vince, di chi se ne fa scopare in questo modo, di chi se ne fa invadere.
E la Terra alza il boato morbido e impertinente della sua invasione, mi fotte più a fondo, mi mette in bocca parole e l'urgenza di pronunciarle, sensazioni e la necessità di morderle, trasforma tutto in un'urgenza finalmente priva di sofferenza, e il corpo cerca di interpretarla e risponderle, ma non ne ha il linguaggio, ce l'ha rubato la civiltà, le Terra percuote e scompiglia il corpo che prima se ne spaventa e poi, quando s'accorge d'esser tornato ad una casa che ignorava di cercare ancora, cerca una risposta senza saperla più dare.
Voglia di correre, sudare, ruzzolare, bagnarsi, sporcarsi, e spogliarsi e pisciare ruotando su un piede e finire nudo in un fiume e dire ti amo bagnato e freddo e divertito.
Di chi è la Terra?
E' di chi la vive?
Allora è di un magrebino la via delle Asturie, il cammino di Santiago, le Sierre, i Pirenei, le Alpi Marittime, è di un magrebino tutto questo, perché lui l'ha attraversato clandestino pulito nell'animo, e solo così si può farsene sporcare.
E il Mare che non conosco è di un albanese, che l'ha navigato quando ancora non aveva barba da radersi, l'ha navigato lasciandosi casa e ricordi alle spalle, e poi è sbarcato in un luogo dove lo chiamano straniero e lo fanno lavorare troppo per troppo poco, ma lui ha navigato il mare senza certezze, come nemmeno il magrebino le aveva, nessun'altra certezza che quella del momento, d'esser qui e ora, quand'era lì e allora.
Di chi è la Terra, che adesso mi fa sentire perfino padrone? Un padrone senza proprietà, ma solo legittimità? Di chi è la Terra se non di chi l'ama e attraversa e ne viene scopato e contaminato?
Attraverso prati e colli, mi son dimenticato di seguire le orme del cavallo. Chissà dov'è, chissà dove sono, chissà dove sono io. M'oriento sulle sensazioni, senza bussola razionale. Incrocio un leprotto, lo guardo guardarmi e voltarmi le spalle e scappare via. Ha la coda puntata verso il cielo, mentre corre. Ed è bianco, il lato della coda che vedo io, davvero bianco, un vezzo che i cartoni animati non hanno inventato ma solo copiato.
Poi finiscono i colli, iniziano, già li vedo, campi e orti. Dev'essere anche scorso un bel pezzo del pomeriggio ma non ne sono certo.
Ci sono ancora falde di bosco, prima delle case che scorgo più in là. Devo avere girato attorno alla città dove son nato, grosso modo. Proseguo sul sentiero che s'è fatto l'unico. Solo un paio di volte si dirama, verso coltivazioni e rimesse. Alla seconda incrocio un trattore che avanza adagio. Mi sposto tra l'erba alta, lo lascio passare. Il ragazzo che lo guida, sporco e con la barba sudata, mi guarda con un'espressione perplessa, e quasi infastidita. Buona creanza vuole che in cammino, per campagna e montagne, ci si saluti, anche tra sconosciuti. Ma sorrido in un modo, dentro di me, che guardo passare trattore e contadino senza fare un cenno, poi riparto voltandomi solo una volta a ridere di quella diffidenza violenta di cui qui son tutti orgogliosi e che invece a me sembra così stupida.
Il sentiero scende, fila a metà tra due cascine male in arnese. Vicino alla più vecchia c'è una fontana assediata da galline e capre. Mi c'avvicino e bevo. Gl'animali non se ne preoccupano. Un caprone annusa la mia borsa di tela e non mi sembra per nulla improbabile che adesso, senza preavviso e permesso, la morda e strappi. Decidesse di farlo, a poco varrebbe tirare per liberarmene. E allungare una mano sarebbe perfino stupido. Guardo il caprone, mi guarda. Una voce, dalla cascina, un suono nemmeno fatto parola, rompe il silenzio e lo scambio di sguardi.
Mi volto: è una vecchia donna, in vestaglia e bastone. Il caprone fila via, nel prato. Filo via anche io: non ho capito cos'abbia detto quella donna. Meno ancora ho capito, davvero, se abbia sgridato il caprone, salvando la mia borsa, o invece me, perché ho osato ficcar la testa sotto l'acqua della cascina.
La terra si fa asfalto, di nuovo. Le case fanno ombra, e me ne servo. Sono sudato, sento la pelle nuda delle spalle bruciare. Mi rimetto la maglia, per entrare in una drogheria a comprare una birra. Esito sulla porta: dentro è quasi buio, e a quest'ora i negozi son chiusi. Una voce dall'interno mi dice il contrario, così spingo la porta, ed entro spostando con il petto e la testa collane di perle di plastica che non vedevo più sin da quando, bambino, andavo nei negozi a rubare mele rosse.
C'è odore di antico, nella drogheria. Di detersivo per i piatti e latte, di lucido da scarpe. Dal retro, dove vedo un uomo mangiare in canottiera e una bottiglia di vino sul tavolo, arrivano odore di pasta al sugo e suoni di notiziari radiofonici. Prendo una birra, pago e ne ricevo un sorriso sdentato e buono.
La birra l'apro poco più avanti. Di fronte ad un passaggio a livello. So dove sono, ora, ci son passato in macchina tante volte. Ma ho un pensiero, ora, arrivato senza bussare e chissà da dove, che mi fa paura.
Bevo un sorso, guardo a sinistra ed a destra della strada.
Rotaie.
Quant'è folle?
Quant'è pericoloso?
Nei libri lo fanno, l'ho letto. Libri di una volta, avventure di una volta, personaggi di una volta. Ma adesso è diverso. Chissà quanti cavi elettrici scoperti e pericolosi, ci sono. Di là non ci passa nessuno, e così nessuno si preoccupa di mettere in sicurezza una strada che è solo per i treni. E ci saranno punti dove non c'è spazio che per i treni.
E se ne arriva uno?
Cosa faccio?
E che senso ha, farlo?
La strada è là, so qual è so dove porta. Un'ora, poco più, per arrivare a casa. E sono stanco, e fa caldo. Perché dovrei farlo?
E se questa fosse follia, se si cominciasse così?
E perché, cazzo, perché non riesco a non farlo?
Finisco la birra. Getto la bottiglia vuota nel cestino vicino al marciapiede. Scelgo la direzione senza bussola, non l'ho e non mi serve: sono le mie strade, queste, so da che parte è la mia casa. E' solo la strada, questa, che non conosco. Piglio verso sud, sui binari.
A terra, di fianco ai binari, i cavi elettrici ci sono davvero. Enormi. Serpi minacciose forse addormentate. Ma durano poco, finiscono appena mi lascio davvero alle spalle il passaggio a livello. Poi non c'è altro che binari, pietre, traversine di legno. E alberi.
Tutto attorno non ci sono altro che alberi.
Fossi andato nell'altra direzione avrei visto case, paesi. Ma in questa, la mia, ci sono solo boschi, e i binari li attraversano.
Procedo cauto. I timori, irrazionali, gli stessi che avevo prima di decidere, cercano di farsi concetti, parole, così sto attento a dove metto i piedi. Dei treni non mi preoccupo. In questo silenzio irreale li sentirei sin da lontano. Sono sicuro che ne sentirei la vibrazione sotto ai piedi, anzi. E dev'esser pure bello, penso.
E' una linea da nulla, poi, questa, ci passano pochi treni, per lo più trasportano merci, metallo. Quando ci penso, quando mi viene in mente che potrei incrociarne qualcuno, guardo a lato della massicciata, cerco di capire cosa deciderei di fare. Un metro al di là delle rotaie la massicciata scende ripida verso il bosco. Sui sassi sicuramente rischierei di cadere in mezzo ai rovi e magari in fondo a fossi di spine. Ma ci sono degli alti pali, ficcati in robusti basamenti di cemento, lungo la ferrovia. Quelli che guardo sfilare quando viaggio in treno. Userei quelli, dovesse passare un treno, mi metterei là aspettando che passi.
Chissà il macchinista, mi chiedo, non avrà mai visto nessuno camminare sulle rotaie: dovesse vedere me, sempre che la velocità gli permetta di vedermi, chiamerebbe forse le forze dell'ordine. Sai che novità.
Sentieri, ecco. Quelli, a lato della massicciata, proprio non ci sono. Fintanto che i timori, irrazionali, restano, allo stesso modo è presente anche un'istintiva ricerca di un modo per andarmene. Un sentiero. Ma non c'è, non ce n'è nemmeno uno.
E' bello, però, qui.
E' camminare senza vincoli e confini. Il fatto che la strada, il tracciato, siano obbligati, e senza possibilità di variarli, non basta a intaccare la sensazione di libertà. Per nulla.
Penso, di nuovo, a quella domanda: Di chi è la Terra?
Anzi: Di chi è il Mondo?
Ci cammino attraverso. L'avrà fatto, Tom Sawyer? E Huckelberry Finn? L'avrà fatto? Woody Guthrie, cantore dei camminatori, l'avrà fatto? Antonio Machado? Ernesto? E Bruce, Bruce Chatwin, anima inquieta e dolce e curiosa?
Sì, e molto di più. O non questo, ma molto altro, molto più che questo. Bisogna camminare la libertà per scriverla, per metterla in versi, per cantarla, suonarla.
Quanti pensieri, ora. Come nel bosco, prima. Diversi, ma allo stesso modo privi di un punto di riferimento che paragonandosi a loro possa farmeli definire lenti o veloci. Ci sono, e basta.
Scrivere, comporre versi, cantare, suonare.
John Garcia.
I Kyuss.
Quell'aggressione dei sensi nel bosco, questo fiume di libertà.
Gli scrittori cercano di descrivere tutto questo, i poeti cercano di metterlo in versi, di renderne la sensazione. La musica dovrebbe cercare, dovrebbe volerlo, di salire dove narrativa e poesia non sono arrivate: rendere il suono. Non della libertà, l'uomo non ne ha i mezzi, gli strumenti. Ed il linguaggio è solo convenzione, tentativo, codice. Ma il suono che la libertà dà, dentro, la vibrazione che ne viene, quella sì.
Magari accendendo menti e strumenti nel deserto.
E attorno, qui, null'altro che boschi. Rotaie davanti agli occhi, rotaie alle spalle, mi voltassi a guardarle. Lo faccio, non ignaro di quel che ne proverei, ma proprio per provarlo: non c'è ritorno, penso, la strada a questo punto è la stessa tanto davanti quanto indietro, così non c'è modo e verso di tornare sui miei passi, devo continuare.
E lo faccio. Perfino più libero. Ogni timore, sulla strada della libertà, scrolla di dosso il peso dei legami. Ad ogni timore, fattolo cascare sfidandolo, ci si ritrova perfino più leggeri e liberi di un attimo prima, quando pure ci s'era già stupiti di sentirsi liberati. E' sempre meglio, ogni passo libero procura libertà nuova.
I binari non li guardo più, non ho timore di posare il piede senza guardare dove lo metto. Guardo in alto, la striscia di cielo tra le sponde d'alberi che fanno da argini al mio fiume di rotaie. E' pomeriggio, ma chissà che ore sono. Poi guardo avanti. E ne resto spiazzato, tanto che se non inciampano i piedi lo fa, per un attimo, la razionalità.
Macchie di colore. In movimento.
Macchine.
Attraversano i binari.
Per un attimo, prima di decifrarle, ho istintivamente temuto per me. Come se già i binari m'han fatto loro, e mi sembra ovvio che a percorrerli non possano essere altro che i treni, così quel movimento laggiù dev'essere per forza un treno ed io devo mettermi al sicuro.
Invece son macchine. La ferrovia attraversa di nuovo una strada.
Sono a Brenna.
Quando la strada attraversa la ferrovia non c'è da guardar nulla, se le sbarre sono alzate. Ma a me tocca, adesso, guardar di qua e di là per non finir sotto ad una macchina. Potrei lasciarla ora, la ferrovia, rimettermi per strada. Ma mi dimentico di pensarci, di ricordarmelo, e vado avanti.
Non c'avevo pensato: fuori dalla geometria, dentro la realtà. la linea più breve che unisce due luoghi non è quasi mai una strada, quanto piuttosto la ferrovia.
Sto accorciando. Sì.
Solo a piedi, potessimo ovunque metterli, faremmo ancora prima, se ci fosse permesso di attraversare strade e proprietà e campi e giardini.
Se non ci fossero confini.
Finirà, tutto questo. Per un attimo ci penso. Sarà bello, bello essere arrivato a casa per una via così nuova. Ma poi sarà finito. Sarà più il piacere od il dispiacere?
Qui, almeno, non devo sentir parlare di melanomi e carcinomi. E non devo mostrare e dimostrare, maledire stanco la stanchezza che mi deruba.
Qui posso camminare.
E se lo facessi per sempre?
Dov'è il dio dei binari? Quello dei vagabondi? Quello della libertà? Quello dei parolai? Posso? Posso farlo per sempre? Compro uno zaino, un sacco a pelo, cammino da mattina a sera, guardo, penso, datemi solo di che lavarmi e mangiare e bere, io in cambio vi scrivo quello che ho visto, una volta al giorno, alla settimana, al mese. Ma dove cazzo siete? Non ve ne frega, vero? Di farvi raccontare quel che voi già sapete e noi no?
Nessun dio risponde.
La impareremo, la lezione?
Ce lo riprenderemo, il Mondo che ci spetta, legittimi padroni pro-tempore e non schiavi d'illegittimi predoni? E la Terra? E la libertà? Su sentieri di zoccoli e lepri, su rotaie vergini di scarpe e passi, ce le riprenderemo?
Perché intanto arriva un passaggio a livello, un altro. Rallento.
E se continuassi per sempre?
Posso?
Dove i binari affettano l'asfalto d'una strada percorsa ogni giorno in macchina ed in bicicletta volto il capo tra l'Oriente ed il Settentrione, nel collo il goniometro dell'aria di casa. Alzo gl'occhi ed è lui: il Monte Resegone.
Sono a casa, un chilometro ancora.
Lascio le rotaie, ripiglio la strada.
I Kyuss suonano Whitewater.
Ed è di nuovo vento e lava e cascate di suoni, come ogni volta, come quella prima volta da ragazzino.
John Garcia canta.
Spalanco le braccia, e i miei occhi si bagnano ancora, sulla strada di casa.
Oh, Sunshine,
The loving beauty pass me by
Should I waste my time
in your valley, beneath your sky?
Ah,
I am home
You move your own mountain
The trees have grown,
trees have grown
Now it's over
now it's over
And I'm coming home
Ah,
I am home...
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Una vecchia barca in disarmo abbandonata a pochi metri dalla riva. La bassa marea la fa maggiormente coricare facendola sembrare in tutto e per tutto un relitto.
This Dalek was seen skulking around the Museum at Inveresk. Fortunately, he has been disarmed.
Daleks are the creation of Doctor Who writer Terry Nation, and first appeared in the long running British TV sci-fi series in 1963. Daleks have been described as, "violent, merciless and pitiless cyborg aliens, completely absent of any emotion other than hate, who demand total conformity to the will of the Dalek with the highest authority, and are bent on the conquest of the universe and the extermination of any other forms of life, including other 'impure' Daleks which are deemed inferior for being different to them. Collectively, they are the greatest enemies of Doctor Who's protagonist, the Time Lord known as 'the Doctor'."
First Instance of the Daleks Using the Term "Exterminate"
It is only at sunset that the might of broad day light meets the disarming gentleness of the night. they are like two lovers cursed to meet once a day, for a period too short for greetings or farewells. They revel in this ephemeral moment and speak the golden language of silence, and patiently wait for the next sunset.Picture is clicked at Iscon Temple, Delhi.
! WARNING: THIS PICTURE IS EDITED !
Press "L" for a better view.
~Body:
Hair: Moon. Hair // - Strange [ @Kustom9 ]
Body Tattoo: [Black Lotus] Riley tattoo fullbody 1.0 // light [2k]
~Clothes&accessories:
Headband: Tentacio Psycho band fatpack [ @Kustom9 ]
Choker: - Vermilion - Killah Choker [ @Equal10 ]
Shorts: - Vermilion - Killah Shorts [ @Equal10 ]
Garter: Insomnia Angel . Alberti scissors garter
Jacket: = Domus = Jojo Jacket
Necklace: RAWR! Disarm Necklaces
Earrings: #comatosed - Venom Earrings
Tights: UKIYO : maeve fishnet tights [ @Kustom9 ]
Stockings: - Vermilion - Killah Stocking [ @Equal10 ]
Match: .:.Bloom.:. Bad Habits // Dangerously Close
~Scene:
Backdrop: .PALETO.Backdrop:. PANIC ROOM
Pose: babyboo. - Masha
in TV when the hero disarms a time bomb it always happens just in the last seconds before the explosion.
the TV series "24" is no exception, so i guess within 20 seconds kiefer sutherland will show up around here and disarm my bomb. he'll also likely torture me to make me confess something: he kind of enjoys it.
110/365
di papa Francesco
'.... disarma la nostra lingua e le nostre mani...'
Shalom, Pace, Salam !
La foto, nel buio della chiesa di Santa Rita, a Genova, non è bella, ma le parole di Francesco continuano a risonare accorate . ( Inascoltate )
A prayer for Peace of Pope Francis.
In a church of Genoa
Little Venice is one of the most romantic places in the whole of Mykonos. This neighborhood is replete with elegant and gorgeous old houses that are situated precariously on the edge of the sea. Many discerning travelers in the past have fallen in love with this charming quarter to its magnetic appeal. Quite amazing are the sunset views from Little Venice. Its whitewashed edifices against the backdrop of the azure blue Aegean Sea is simply marvelous. The air of nonchalance that prevails in Little Venice disarms the most discerning of travelers.
Para SVETLANA
En el mar no se pierde la madera, se recupera y se usa para reparar a otras embarcaciones. Se desarman unas y se arman otras.
At sea timber is lost, is recovered and used to repair other vessels. They disarm one and the other arm themselves.
Isla de Margarita, Venezuela. !!
Disarm you with a smile
And leave you like they left me here
To wither in denial
The bitterness of one who's left alone
Oh, the years burn
Oh, the years burn, burn, burn
Stable Diffusion/PhotoShop/Gigapixel AI
Bleed
in the Autumn of life
through the perpetual Winter of suffering
this no man's land...
is bounded not so much by fear
as the one within
but, by the tears that spill
across borders and into oceans
the grief we call progress
forever out of tune
out of touch
in the brutality of people v people
we love our pets and play with our emotions
there's no weapon like ourself -
disarm the world to fire ourselves up
even more...
the human heart is weighing heavy these days
so much so
that we need only press keys
to destroy a relationship,
a heart,
a hunger,
a life,
a family,
another life...
a world.
by anglia24
09h35: 12/11/2007
© 2007anglia24
☀
Ruthven Barracks were built by George II’s government in the early 1700s after the failed Jacobite uprising of 1715. The troops stationed there were to maintain law and order and enforce the Disarming Act of 1716.
The barracks saw action twice. A 300-strong Jacobite attack failed to take the barracks in 1745, but a more heavily-armed attack the next year forced the barracks’ surrender. The Jacobites rallied here after their defeat at Culloden before conceding.
'... Le parole possono collegare o dividere, servire la verità o servirsene.
Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra....'
( dalla lettera del Papa del 14 marzo, che non era ancora stata diffusa )
È in corso la telefonata tra Trump e Putin, telefonata che in teoria dovrebbe sancire la pace, dopo tre anni di guerra .
Presumo si metteranno d' accordo su come spartirsi terre e ricchezze dell'Ucraina...
Mentre è stato dato il via libera a Netanyahu di finire di massacrare un popolo ( solo oggi morti 130 bambini, su più di 400 vittime ), nell'attesa di costruire il loro dorato resort per ricchi.
Tutto questo grida vendetta, in un mondo in cui le parole non hanno più nessun valore, un mondo buio e cattivo, privo di umanità , in cui c'è un solo dio : il denaro, il potere.
Kronos, Museo diocesano del Duomo di Piacenza.
Un'opera probabilmente del '600
Angelo custode del fiammingo Jan Geernaert
.......una bellezza disarmante......rigorosamente SOOC i tutti i sensi....... ;-)))
SOOC
Explore #57
Questa sono io.
Qui c'è la mia essenza. Il mio modo di essere malinconica, la mia voglia di cercare risposte. Qui c'è Rita. Quella che cerco perennemente. Ce l'ho fatta. Sono riuscita a racchiudere in uno scatto tutta me stessa. Dopo una intensa e faticosa ricerca. Abbiatene cura.
L’unica ossessione che vogliono tutti: l‘“amore”.
Cosa crede, la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi?
La platonica unione delle anime?
Io la penso diversamente.
Io credo che tu sia completo prima di cominciare.
E l’amore ti spezza.
Tu sei intero, e poi ti apri in due.
[PS. Flickr ha cambiato i colori...grrrr!]
Please don't use this image without my explicit permission.
© All rights reserved Verygio' 2010
La source d'inspiration la plus importante pour les sculptures de Dirk De Keyzer n'est rien de moins que la vie elle-même. Le monde est transformé en un monde parallèle alternatif dans lequel les problèmes majeurs et quotidiens sont compensés. Sans tomber dans la naïveté enfantine, la positivité et la pensée transfrontalière se voient accorder une place très importante. Cela ressort d'autant plus du fait que les personnages ne semblent appartenir à aucune culture, ni même à toutes les cultures. Par extension, on pourrait dire qu'il s'agit d'une interprétation tout à fait singulière du concept « d'homme universel », élevé au-dessus des caractéristiques extérieures, des différences culturelles et des tendances temporelles afin de mettre l'accent sur l'individu et la diversité.
L'humour est un autre aspect important de l'art de Dirk de Keyzer. Il croit fermement que l'humour, par opposition à la négativité, peut être le fer de lance de la critique sociale. Humour désarmant plutôt que bavardage pour stimuler la perspective et la tolérance. En ces temps chargés, le travail de Dirk De Keyzer nous appelle à réfléchir sur l'insoutenable légèreté de notre existence. Un moment d'introspection pour appeler à une petite évasion de la réalité quotidienne.
Les sculptures sont un instantané du monde alternatif de Dirk et invitent le spectateur amusé à pénétrer dans l'univers personnel du sculpteur. De cette façon, le spectateur vit la même expérience en regardant que l'artiste en créant. Dirk voit le processus créatif comme une sorte de thérapie qui l'aide à voir le monde sous un angle différent et essaie de le projeter sur le spectateur. Malgré son propre langage de forme unique, des données universelles telles que la poursuite humaine du bonheur, de la beauté et de l'harmonie se voient attribuer un rôle de premier plan. De cette manière, l'artiste tente d'entrer en dialogue avec son public, dans lequel, tout comme dans la vie elle-même, l'accent n'est pas toujours mis sur des objectifs préconçus, mais plutôt sur le chemin pour y parvenir.
The most important source of inspiration for Dirk De Keyzer's sculptures is nothing less than life itself. The world is transformed into an alternate parallel world in which major and everyday problems are compensated. Without falling into childish naivety, positivity and cross-border thinking are given a very important place. This is all the more apparent from the fact that the characters do not seem to belong to any culture, or even to all cultures. By extension, one could say that it is a quite singular interpretation of the concept of "universal man", elevated above external characteristics, cultural differences and temporal tendencies in order to emphasize on the individual and diversity.
Humor is another important aspect of Dirk de Keyzer's art. He strongly believes that humor, as opposed to negativity, can spearhead social criticism. Disarming humor rather than chatter to stimulate perspective and tolerance. In these busy times, the work of Dirk De Keyzer calls us to reflect on the unbearable lightness of our existence. A moment of introspection to call for a small escape from everyday reality.
The sculptures are a snapshot of Dirk's alternate world and invite the amused viewer to enter the sculptor's personal universe. In this way, the spectator has the same experience while watching as the artist while creating. Dirk sees the creative process as a kind of therapy that helps him see the world from a different perspective and tries to project it onto the viewer. Despite its own unique form language, universal data such as the human pursuit of happiness, beauty and harmony are given a prominent role. In this way, the artist attempts to enter into a dialogue with his audience, in which, just as in life itself, the focus is not always on preconceived goals, but rather on the path to achieve them. to arrive at.
Aspiranti giudici ma un po' somari
Oltre il 90% bocciati agli scritti
Un paradosso visto il record di domande di partecipazione (43mila)
In servizio 322 nuovi magistrati, 58 in meno dei posti da coprire
ROMA - Verbi sbagliati, errori di grammatica e di ortografia. Un disastro per gli esaminatori che sono inorriditi di fronte a lacune da scuola dell'obbligo e incapacità di coniugare i verbi secondo regole elementari, e hanno respinto oltre il 90 per cento dei candidati aspiranti giudici. Al punto che, nonostante il numero da record dei partecipanti al concorso per l'accesso in magistratura (43mila domande), alla fine sono rimasti scoperti una sessantina dei 380 posti da assegnare.
Una situazione che ha preoccupato la categoria e ha gettato ombre sulla formazione scolastica, universitaria e non solo, visto che la maggior parte dei candidati non era costituita da semplici neo-laureati, ma da avvocati, giudici onorari, funzionari della pubblica amministrazione, titolari di dottorati di ricerca e di specializzazioni giuridiche.
Questi i drammatici risultati registrati all'ultimo concorso che si è concluso con l'immissione in servizio di 322 nuove toghe, 58 in meno dei posti da coprire. Un risultato a dir poco inaspettato tenuto conto del vero e proprio boom di domande di partecipazione che c'era stato, senza precedenti nella storia della magistratura. Dell'esercito dei 43mila, ne sono stati ammessi alle prove scritte 18mila. Oltre 6mila candidati si sono effettivamente presentati e poco più di 4mila hanno consegnato tutte e due le prove scritte, il doppio dei precedenti concorsi.
Ma nonostante il dato così elevato, gli ammessi agli orali sono stati appena 342, pari all'8,53%. E una ventina di loro alla fine non è riuscita a tagliare il traguardo finale: i vincitori, proclamati dalla Commissione di esami, sono infatti stati 319 e altri 3 - che pur non avendo riportato alcuna insufficienza, non avevano raggiunto la votazione minima prevista - sono stati dichiarati tali con un provvedimento del ministro della Giustizia Mastella.
Dati preoccupanti che hanno indotto uno dei componenti della commissione d'esame, il giudice della Corte d'appello di Palermo Matteo Frasca, a esprimere "non poche perplessità sul livello medio di preparazione dei partecipanti", in un intervento pubblicato sul sito del Movimento per la Giustizia. E le lacune riscontrate non sono solo giuridiche : "La conoscenza della lingua italiana è una pre-condizione per partecipare al concorso, ma alcuni candidati non ce l'avevano" racconta il magistrato. "Ci siamo trovati a fare la disarmante constatazione che in alcune prove c'erano errori di grammatica e di ortografia, oltre che di forma espositiva, testimonianze evidenti di una mancanza formativa, che non è emendabile".
"Non faccio esempi per ragioni di riservatezza" prosegue Frasca, "posso dire solo che se il mio maestro delle elementari avesse visto in un mio compito verbi coniugati come in certe prove che ci sono state consegnate, mi avrebbe dato una bacchettata sulle dita". Tuttavia il giudice Frasca non vede tutto nero: "Abbiamo trovato anche candidati con livelli di preparazione eccellenti" assicura, "punte esaltanti che inducono all'ottimismo".
Repubblica del 6 gennaio 2008.
"Laws that forbid the carrying of arms . . . disarm only those who are neither inclined nor determined to commit crimes . . . Such laws make things worse for the assaulted and better for the assailants; they serve rather to encourage than to prevent homicides, for an unarmed man may be attacked with greater confidence than an armed man."
--Thomas Jefferson, quoting Cesare Beccaria in On Crimes and Punishment (1764).
"The constitutions of most of our States assert that all power is inherent in the people; that... it is their right and duty to be at all times armed."
--Thomas Jefferson to John Cartwright, 1824.
"Rightful liberty is unobstructed action, according to our will, within limits drawn around us by the equal rights of others."
-- Thomas Jefferson
"No free man shall ever be debarred the use of arms. The strongest reason for the people to retain the right to keep and bear arms is, as a last resort, to protect themselves against tyranny in government"
-- Thomas Jefferson, 1 Thomas Jefferson Papers, 334
"The very atmosphere of firearms anywhere and everywhere restrains evil interference - they deserve a place of honor with all that's good"
-- George Washington
"The best we can hope for concerning the people at large is that they be properly armed."
-- Alexander Hamilton, The Federalist Papers at 184-188
"Among the many misdeeds of the British rule in India, history will look upon the act of depriving a whole nation of arms, as the blackest."
-- Mahatma Gandhi
IN ENGLISH BELOW THE LINE
Aquesta muntanya és el Mont Chaberton, vist des del oest, des de San Sicario, a Italia. Des del 1947, el Chaberton es troba dins França, però fins aleshores la frontera estaba més al oest i tota la muntanya era dins Italia. Aquest canvi s'explica pel combat que s'hi va donar el 1940.
Entre 1898 i 1910, el cim del Mont Chaberton (3130 m.) fou aplanat i excavat per construir-hi la bateria d'artilleria a més alçada del món, la Batteria dello Chaberton, armada amb 8 canons de 149mm montats en torretes blindades. Aquestes estaben molt enlairades respecte el terreny per quedar lliures de la inmensa acumulació de neu que s'hi pot donar al hivern. Un teleferic permetia accedir al fort, subministar-li municions i també electricitat.
Durant la I Guerra Mundial el fort fou desarmat per abastir el front italo-austriac, però els canons retornaren als anys 30. Els francesos, preocupats per aquesta amenaça que dominava el pas de Montgenevre i fins a Briançon, feren plans ja als anys 30 per a contrarrestar-ho.
El 1940, just quan els panzers alemans rebentaren completament el gros del exèrcit francès al nord, Mussolini decidí que Italia n'havia de treure profit territorial i el 10 de juny declarà la guerra a França, tot i la poca preparació del exèrcit italià. De fet no fou fins el dia 18 que Chaberton no començà a disparar sobre diversos forts francesos, com Gondran, L'Olive o especialment Janus, on hi havia un ouvrage modern de la Linea Maginot.
Però els francesos estaven preparats, i havien situat quatre morters pesats Schneider de 280mm a la carena sud del Fort de l'Infernet, completament amagats dels italians. Per contra, els observadors francesos a L'Infernet i sobretot el Fort Janus podien veure perfectament el Chaberton... quan no hi havia nuvols, cosa força usual. El tir dels morters francesos era extrem. Havien de disparar a 10 km de distancia, el seu abast maxim, i contra un objectiu situat a 3130 m. d'alçada, ben be 2 km més que ells. Afortunadament, al ser morters, disparaven molt amunt, i els seus projectils pujaven fins a 5 km abans de caure sobre el Chaberton, ben bé un minut després.
El dia 21 de juny, per fi la visibilitat fou prou bona com per començar el tir i corretgir-lo. Els italians dispararen sobre els forts francesos però a cegues i sense fer quasi cap dany. De fet al Fort Janus hi ha un impacte de 149mm del Chaberton sobre una de les seves cupoles blindades, una rascada, més aviat. A les 5 de la tarda impactaren sobre la torreta 1, destruint-la. En la seguent hora, també foren rebentades cinc torretes més. Els italians es quedaren amb només 2 canons intactes i nou morts. El teleferic també estava destruit. El combat continuà intermitent fins el 24 de juny, en que es signà l'armistici. La derrota i humiliació italiana en aquest sector fou total.
El 1947, acabada la guerra, França exigí rectificar la frontera i quedar-se amb tota la muntanya del Chaberton.
fr.wikipedia.org/wiki/Mont_Chaberton
en.wikipedia.org/wiki/Mortier_de_280_mod%C3%A8le_1914_Sch...
Videos del Fort Chaberton i la seva historia:
www.youtube.com/watch?v=Z74kY4RG42I
www.youtube.com/watch?v=yFSyowiJ-Zo&t=1968s
Sobre el Ouvrage de Janus:
www.youtube.com/watch?v=irdXkm2Klzo
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This mountain is Mount Chaberton, seen from the west, from San Sicario, Italy. Since 1947, Chaberton has been in France, but until then the border was further west and the whole mountain was in Italy. This change is explained by the extraordinary combat that took place there in 1940.
Between 1898 and 1910, the summit of Mount Chaberton (3130 m.) was flattened and excavated by the Italian army to build the highest artillery battery in the world, the Batteria dello Chaberton, armed with eight 149mm guns mounted in armored turrets. These were very high off the ground to be free from the immense accumulation of snow that can occur there in winter. A cable car allowed access to the fort, supplying it with ammunition and also electricity.
During World War I the fort was disarmed to supply the Italian-Austrian front, but the cannons returned in the 1930s. The French, worried about this threat that dominated the Montgenevre pass and up to Briançon, making plans already in the 1930s to to counteract it with heavy artillery.
In 1940, just when the German panzers completely smashed the French army in the north, Mussolini decided that Italy had to take territorial advantage and on June 10th he declared war on France, despite the lack of preparation of the Italian army. In fact, it wasn't until the 18th that Fort Chaberton started firing on several French forts, such as Gondran, L'Olive or especially Janus, where there was a modern work of the Maginot Line.
But the French were prepared, and had placed four heavy 280mm Schneider mortars on the southern ridge of Fort de l'Infernet, completely hidden from the Italians. On the other side, French observers at L'Infernet peak and especially Fort Janus could see the Chaberton perfectly... when there were no clouds, which were quite usual and stubborn. The fire from the French mortars was extreme. They had to fire at a distance of 10 km, their maximum range, and against a target located at 3130 m. above sea level, well over 2 km more than them. Fortunately, being mortars, they fired very high, and their projectiles went up to 5 km before falling on the Chaberton, well over a minute later.
On June 21, the visibility was finally good enough to start shoting and correcting fire. The Italians fired on the French forts but blindly and without doing almost any damage. In fact at Fort Janus there is a 149mm impact from the Chaberton on one of its armored domes, just a scratch. At 5 pm the French shells hit turret 1 in Fort Chaberton, destroying it. In the next hour, five more turrets were also blown up. The Italians were left with only 2 guns intact and nine dead. The cable car was also destroyed. The fighting continued intermittently but without more remarcable changes until June 24th, when the armistice was signed. The Italian defeat and humiliation in this sector was total.
In 1947, after the war, France demanded that the border be rectified and that they keep the entire Chaberton mountain.
fr.wikipedia.org/wiki/Mont_Chaberton
en.wikipedia.org/wiki/Mortier_de_280_mod%C3%A8le_1914_Sch...
Videos of Fort Chaberton and its history:
www.youtube.com/watch?v=Z74kY4RG42I
www.youtube.com/watch?v=yFSyowiJ-Zo&t=1968s
About the Ouvrage de Janus:
Negli ultimi giorni tre Tibetani si sono dati fuoco, due donne e un uomo!!
L'orrida pulizia etnica su un popolo mite e disarmato continua nel silenzio altrettanto orrido delle nazioni, compresa la nostra"civile e democratica" Italia.
Per andare in questi sperduti villaggi dell'interno, l'autista del fuoristrada suonava continuamente il clacson, su una strada deserta...per fare che uccellini e animaletti si spostino...!
Il Tibet siamo noi, le barbarie cinesi sporcano e feriscono anche le nostre vite, la nostra anima!!