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After the big earthquake (2016) Pievebovigliana - Marche - Italia
In frazione San Maroto sorge la Chiesa di San Giusto che venne fondata tra l’XI ed il XII secolo e considerata uno tra i più importanti monumenti romanici della regione.
La sua particolare architettura a pianta circolare, di chiara derivazione romano-bizantina con quattro absidi laterali e sormontata da una cupola costruita senza centine di sostegno (struttura di sostegno), fu oggetto di studi a livello internazionale tanto che per la sua realizzazione si suppone abbiano operato maestranze provenienti dall’oriente ed in particolare dalla Siria.
Al suo interno, a pianta centrale, sono conservati affreschi e tavole databili tra il XIV ed il XV secolo ed una Croce astile della prima metà del Cinquecento realizzata dall’orafo Tobia da Camerino. Qui è anche conservata una tavola raffigurante la Madonna del Rosario attribuita a Venanzo da Camerino ed una Madonna in trono con Bambino della seconda metà del XIII secolo.
La torre campanaria, costruita successivamente insieme alla sacrestia, conserva affreschi risalenti alla fine del Trecento.
La Chiesa di N.S. del Soccorso sorge presso la confluenza della Vara con la Magra, sopra un colle dove si hanno tracce di antiche fortificazioni. Alcuni vogliono sia di origine romana. È ricordato in un documento del 963 come luogo già esistente ed organizzato da tempo. La Chiesa parrocchiale, inizialmente dedicata a San Siro, si trova su una spianata incantevole per bellezza di panorama. Ad essa fu trasferita la parrocchialità della vecchia Pieve di S. Maria e San Prospero di Corongiola, che si trovava presso Bottagna ed aveva soggette le Parrocchie di Valeriano, Polverara, Carnea e Beverino. La Chiesa possiede una croce astile processionale in lamiera d’argento del secolo XVI, altra del secolo XVII, lavoro di oreficeria genovese; un ternario a fondo oro con la figura di San Prospero, del secolo XVII, tre ternari e un piviale del secolo XVIII; un incunabulo contenente l’edizione di Tucidide fatta da Lorenzo Valla databile dal 1475 al 1480.
Fonte: www.diocesilaspezia.it
La Chiesa di S. Siro, attestata nel XII secolo, è giunta in forme tardo-gotiche fino al 1880, quando venne abbattuta per la costruzione della strada carrozzabile per Buonviaggio. Era a tre navate, terminanti con abside piana, divise da archi ogivali in mattoni, di cui rimane traccia nel contiguo campanile, cui si accedeva dalla chiesa stessa. Un frammento di affresco con 'Annunciazione' (inizi sec. XVI) è oggi ricoverato nel Santuario di N. S. del Soccorso. L’architrave rappresentante 'Sant’Antonio Abate fra due disciplinanti' (1514), murato nell’attiguo oratorio, proviene da quello dedicato al santo, presso Santa Maria in Vezzano Basso, diruto per la costruzione del cimitero moderno.
Fonte: Wikipedia
Lifer! Conozcan al ave nacional de El Salvador y Nicaragua!
El momoto cejiazul (Eumomota superciliosa) es una especie de ave coraciforme de la familia Momotidae. Habita en Centroamérica desde la península de Yucatán hasta Panamá. Esta ave es también observada en América del Sur. En Colombia se le conoce como Barranquero. Es común y no se considera amenazado de extinción. Un rasgo muy llamativo y característico es que de su cola sobresalen dos largas plumas con el raquis desnudo y largo y pluma ancha al final, simulando dos raquetas grandes, como las de muchos otros momotos, pero los astiles son más largos. Muchas veces, sobre todo cuando están alarmados, mueve su cola como un péndulo de un lado a otro, de allí su apodo yucateco "pájaro reloj". Es comúnmente conocido en Yucatán como pájaro tho.
The turquoise-browed motmot also known as Torogoz, is a colourful, medium-sized bird of the motmot family, Momotidae. It inhabits Central America from south-east Mexico, to Costa Rica, where it is common and not considered threatened. It lives in fairly open habitats such as forest edge, gallery forest and scrubland.
Internamente la Pieve si presenta a navata unica, con presbiterio rialzato e sacrestia attuale retrostante, mentre la vecchia sacrestia è ancora oggi conservata a destra del presbitero. La struttura attuale, dopo la costruzione nel 1312, venne rimaneggiata tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento: nel corso dei lavori si operò per l’aggiunta di una navata a meridione, progettata secondo i canoni gotici della precedente, sostituendo la parete imprigionata con due colonne in tufo; si doveva ricavare un pulpito verso la sagrestia con una scala che permettesse di salire nella costruenda sagrestia superiore e poi alzare la porta principale, rimodernare la tettoia e rimaneggiare il campanile. All’inizio del 1700 vennero eseguite ulteriori modifiche. La chiesa con tutte le sovrastrutture del 1500-1600-1700, è divenuta un complesso asimmetrico assai interessante dal punto di vista architettonico. Importanti opere d’arte sono conservate in questa Pieve: sculture di Domenico da Tolmezzo (1481-1483), staccate dall’altare maggiore durante i due furti avvenuti nel 1970 e 1981, straordinaria traduzione plastica di simili ancone dipinte del rinascimento veneziano. Degna di nota la tela rappresentante la conversione di San Paolo (XVI-XVII secolo), opera legata a formule stilistiche proprie del Pordenone. Interessante è pure la tela rappresentante La consegna delle chiavi a San Pietro di Francesco Pellizzotti (1791). La scala in noce del 1740 conduce alla sagrestia superiore, affrescata nel 1582 da Giulio Urbanis di San Daniele del Friuli. Il ciclo affrescale ivi conservato, è uno tra i 5 ancora completamente originali ed integri, presenti in varie chiese del Friuli (tra le altre si ricordano: Fresis di Enemonzo, San Salvatore di Majano, Valle Rivalpo di Arta Terme e Dierico di Paularo). La statua di San Pietro, di artista tedesco del XV secolo, è una delle poche opere salvate dalla razzia dei ladri nel 1981. L’altare della Madonna del Rosario è opera del pittore ed intagliatore Gian Antonio De Agostinis (1590). Gli stalli del coro, del 1734, sono opera di Antonio Leschiutta da Zuglio. L’ancona lignea di Sant’Antonio Abate (1550), in stile rinascimentale, è racchiusa in due incorniciature barocche; viene attribuita a Gian Domenico Dall’Occhio di San Vito al Tagliamento. Dietro all’altare sono visibili le finestrelle e le sinopie della parete. Il battistero è formato da una coppa in pietra rossa, opera di artista ignoto del 1659, e da un tabernacolo ligneo realizzato da Vincenzo Comuzzo nel 1661. Allo stile gotico rimandano il portale e il portone: quest’ultimo, in ferro, è opera di Nicolò Jancilli di Tolmezzo (1449). Di fianco all'ingresso l’organo, di stile barocco, ha sostituito il precedente del 1500. Il pianoro che si incontra all’inizio della salita, verso la Pieve, ha una storia molto antica: ogni anno, nella ricorrenza dell’Ascensione, si svolge il rito del “Bacio delle Croci”: ciascuna chiesa, che un tempo faceva parte della giurisdizione della Pieve di San Pietro, invita la sua croce astile ornata di nastri multicolori a rendere omaggio alla croce argentea trecentesca di bottega fiorentina della Chiesa Matrice. Segue la processione verso la Pieve ove viene celebrata la Santa Massa alla presenza dell'Arcivescovo di Udine, unitamente al Parroco di Zuglio e ai Parroci della Valle del But.
Internamente la Pieve si presenta a navata unica, con presbiterio rialzato e sacrestia attuale retrostante, mentre la vecchia sacrestia è ancora oggi conservata a destra del presbitero. La struttura attuale, dopo la costruzione nel 1312, venne rimaneggiata tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento: nel corso dei lavori si operò per l’aggiunta di una navata a meridione, progettata secondo i canoni gotici della precedente, sostituendo la parete imprigionata con due colonne in tufo; si doveva ricavare un pulpito verso la sagrestia con una scala che permettesse di salire nella costruenda sagrestia superiore e poi alzare la porta principale, rimodernare la tettoia e rimaneggiare il campanile. All’inizio del 1700 vennero eseguite ulteriori modifiche. La chiesa con tutte le sovrastrutture del 1500-1600-1700, è divenuta un complesso asimmetrico assai interessante dal punto di vista architettonico. Importanti opere d’arte sono conservate in questa Pieve: sculture di Domenico da Tolmezzo (1481-1483), staccate dall’altare maggiore durante i due furti avvenuti nel 1970 e 1981, straordinaria traduzione plastica di simili ancone dipinte del rinascimento veneziano. Degna di nota la tela rappresentante la conversione di San Paolo (XVI-XVII secolo), opera legata a formule stilistiche proprie del Pordenone. Interessante è pure la tela rappresentante La consegna delle chiavi a San Pietro di Francesco Pellizzotti (1791). La scala in noce del 1740 conduce alla sagrestia superiore, affrescata nel 1582 da Giulio Urbanis di San Daniele del Friuli. Il ciclo affrescale ivi conservato, è uno tra i 5 ancora completamente originali ed integri, presenti in varie chiese del Friuli (tra le altre si ricordano: Fresis di Enemonzo, San Salvatore di Majano, Valle Rivalpo di Arta Terme e Dierico di Paularo). La statua di San Pietro, di artista tedesco del XV secolo, è una delle poche opere salvate dalla razzia dei ladri nel 1981. L’altare della Madonna del Rosario è opera del pittore ed intagliatore Gian Antonio De Agostinis (1590). Gli stalli del coro, del 1734, sono opera di Antonio Leschiutta da Zuglio. Il Cristo ligneo del 1550, situato nell’architrave dell’arco principale, misura quasi due metri di altezza ed è opera di bottega nordica. L’ancona lignea di Sant’Antonio Abate (1550), in stile rinascimentale, è racchiusa in due incorniciature barocche; viene attribuita a Gian Domenico Dall’Occhio di San Vito al Tagliamento. Dietro all’altare sono visibili le finestrelle e le sinopie della parete. Il battistero è formato da una coppa in pietra rossa, opera di artista ignoto del 1659, e da un tabernacolo ligneo realizzato da Vincenzo Comuzzo nel 1661. Allo stile gotico rimandano il portale e il portone: quest’ultimo, in ferro, è opera di Nicolò Jancilli di Tolmezzo (1449). Di fianco all'ingresso l’organo, di stile barocco, ha sostituito il precedente del 1500. Il pianoro che si incontra all’inizio della salita, verso la Pieve, ha una storia molto antica: ogni anno, nella ricorrenza dell’Ascensione, si svolge il rito del “Bacio delle Croci”: ciascuna chiesa, che un tempo faceva parte della giurisdizione della Pieve di San Pietro, invita la sua croce astile ornata di nastri multicolori a rendere omaggio alla croce argentea trecentesca di bottega fiorentina della Chiesa Matrice. Segue la processione verso la Pieve ove viene celebrata la Santa Massa alla presenza dell'Arcivescovo di Udine, unitamente al Parroco di Zuglio e ai Parroci della Valle del But.
IL CROCIFISSO.
La chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo si trova sulla Piazza del Duomo, dominata dalla Cattedrale di Santa Maria Assunta. Si tratta di un edificio gotico che presenta sulla facciata, sopra l'architrave un bassorilievo con i Santi Pietro e Paolo, uniti dalla croce astile. All’interno, significativi i due capitelli dell’arcone, chiusi da foglie arricciate a becco di civetta, e il soffitto caratterizzato de capriate lignee. Nata come chiesa del suffragio, dopo l’ultimo restauro, concluso nel 2013, è stata destinata a chiesa dell’adorazione del santissimo Crocifisso.
Con la mezzanotte cesserò,come negli anni scorsi,l'uso del PC per tutta la giornata del Venerdì Santo e lo riaprirò dopo ventiquattr'ore.
CANON EOS 600D con ob. SIGMA 10-20 f./4-5,6 EX DC HSM
Capileira es una localidad y municipio español situado en la parte noroccidental de la comarca de la Alpujarra Granadina, en la provincia de Granada, comunidad autónoma de Andalucía. Limita con los municipios de Pampaneira, Bubión, La Taha, Pórtugos, Trevélez, Güéjar Sierra, Monachil, Dílar y Lanjarón.
Gran parte de su término municipal pertenece al Parque Nacional de Sierra Nevada, llegando hasta las cimas del pico Veleta y el Mulhacén, techo de la península Ibérica, que comparte con Güéjar Sierra y Trevélez, convirtiendo a estos tres municipios en los más altos de la península, y segundos de España tras La Orotava. Todo el municipio forma parte igualmente del Conjunto Histórico del Barranco del Poqueira.
Su nombre proviene del latín "Capillaria", que significa «cabellera», lo que alude al hecho de ser el pueblo más alto del barranco.
Su situación, y su altitud de casi mil quinientos metros nos ofrece la mejor de las vistas del Barranco desde los distintos miradores que posee, y concretamente desde las Eras de Aldeire desde donde se pueden contemplar hacia el norte del Barranco, las cumbres del Mulhacén y el Veleta, único lugar de la zona desde el que se puede disfrutar de tan magnífica panorámica.
Otro de sus atractivos más singulares es su arquitectura de origen Bereber, antiguos pueblos de las montañas del norte de África, qué después de estas incursiones a través del estrecho fueron dejando sus influencias. Aunque los orígenes de la comarca datan de Fenicios, Romanos y Visigodos, los que más herencia dejaron fueron los Árabes, arquitectura, sistemas de riegos, agricultura y raíces linguísticas, aportación de una cultura de setecientos años de estancia en la Península
LLama la atención , la tierra azul, y los tejados planos (Terraos). Pues bien, el motivo de que los terraos sean planos es que los materiales más apropiados que había en la zona para cubrir las casas son: Piedra, madera y esa tierra azul llamada "Launa", que tiene la particularidad de ser semi-impermeable (En una capa de veinte centímetros el agua solo penetra unos ocho Aprox.), y son planos los terraos para evitar la erosión de la "Launa", pues cada cierto tiempo había que ir reponiendo la que por la lluvia se va perdiendo. Hoy en día con las nuevas técnicas (Telas asfálticas, plásticos etc.), la "Launa" no tiene tanta importancia, pero en los tiempos en que estos bellos pueblos fueron fundados esta tierra azul era fundamental. Y la nieve en las nevadas copiosas debido al peso, había que subirse a los terraos a quitarla, esta función se realizaba con la ayuda de unos utensilios llamados "Roillos" que no eran más que una tabla rectangular con un astil en el centro, con la cual se seccionaba la nieve y luego se empujaba hasta tirarla a las calles.
CARNIA. LA VALLE DEL BUT VISTA DALLA PIEVE DI ZUGLIO.
La cattedrale di San Pietro è la chiesa “madre” della Carnia; essa domina la valle del But, dalla sommità del colle cui ha dato il nome.
Zuglio è l’antica Julium Carnicum, città romana fondata qualche decina d’anni prima della nascita di Cristo, per proteggere l’importante via che saliva al passo di Monte Croce Carnico.
Gli storici pensano che Zuglio possa essere stata sede vescovile già verso la fine del IV sec., anche se il primo vescovo di cui conosciamo il nome è Accanto alla Pieve sorge una chiesetta intitolata a San Michele, risalente al XIII secolo, ora adibita ad ossario, mentre ai piedi della Pieve si può ammirare la Chiesa di Santa Maria in Monte, che risale al XV secolo con rimaneggiamenti posteriori. Al suo interno vi sono conservati affreschi di Giulio Urbanis ed un trittico ligneo della scuola di Giovanni Martini (secolo XVI).
La festa più antica e importante che si celebra in occasione della ricorrenza liturgica dell'Ascensione (maggio/giugno) con il "Rito del Bacio delle Croci": ciascuna chiesa, che dal lontano 1300 sottostava alla giurisdizione della Pieve di San Pietro, si raduna presso il "plan da vincule" (il pianoro che si incontra all'inizio della salita, verso la Pieve) per rendere omaggio con la croce astile ornata di nastri multicolori e un bacio simbolico all'antica Chiesa Matrice.
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Internamente la Pieve si presenta a navata unica, con presbiterio rialzato e sacrestia attuale retrostante, mentre la vecchia sacrestia è ancora oggi conservata a destra del presbitero. La struttura attuale, dopo la costruzione nel 1312, venne rimaneggiata tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento: nel corso dei lavori si operò per l’aggiunta di una navata a meridione, progettata secondo i canoni gotici della precedente, sostituendo la parete imprigionata con due colonne in tufo; si doveva ricavare un pulpito verso la sagrestia con una scala che permettesse di salire nella costruenda sagrestia superiore e poi alzare la porta principale, rimodernare la tettoia e rimaneggiare il campanile. All’inizio del 1700 vennero eseguite ulteriori modifiche. La chiesa con tutte le sovrastrutture del 1500-1600-1700, è divenuta un complesso asimmetrico assai interessante dal punto di vista architettonico. Importanti opere d’arte sono conservate in questa Pieve: sculture di Domenico da Tolmezzo (1481-1483), staccate dall’altare maggiore durante i due furti avvenuti nel 1970 e 1981, straordinaria traduzione plastica di simili ancone dipinte del rinascimento veneziano. Degna di nota la tela rappresentante la conversione di San Paolo (XVI-XVII secolo), opera legata a formule stilistiche proprie del Pordenone. Interessante è pure la tela rappresentante La consegna delle chiavi a San Pietro di Francesco Pellizzotti (1791). La scala in noce del 1740 conduce alla sagrestia superiore, affrescata nel 1582 da Giulio Urbanis di San Daniele del Friuli. Il ciclo affrescale ivi conservato, è uno tra i 5 ancora completamente originali ed integri, presenti in varie chiese del Friuli (tra le altre si ricordano: Fresis di Enemonzo, San Salvatore di Majano, Valle Rivalpo di Arta Terme e Dierico di Paularo). La statua di San Pietro, di artista tedesco del XV secolo, è una delle poche opere salvate dalla razzia dei ladri nel 1981. L’altare della Madonna del Rosario è opera del pittore ed intagliatore Gian Antonio De Agostinis (1590). Gli stalli del coro, del 1734, sono opera di Antonio Leschiutta da Zuglio. Il Cristo ligneo del 1550, situato nell’architrave dell’arco principale, misura quasi due metri di altezza ed è opera di bottega nordica. L’ancona lignea di Sant’Antonio Abate (1550), in stile rinascimentale, è racchiusa in due incorniciature barocche; viene attribuita a Gian Domenico Dall’Occhio di San Vito al Tagliamento. Dietro all’altare sono visibili le finestrelle e le sinopie della parete. Il battistero è formato da una coppa in pietra rossa, opera di artista ignoto del 1659, e da un tabernacolo ligneo realizzato da Vincenzo Comuzzo nel 1661. Allo stile gotico rimandano il portale e il portone: quest’ultimo, in ferro, è opera di Nicolò Jancilli di Tolmezzo (1449). Di fianco all'ingresso l’organo, di stile barocco, ha sostituito il precedente del 1500. Il pianoro che si incontra all’inizio della salita, verso la Pieve, ha una storia molto antica: ogni anno, nella ricorrenza dell’Ascensione, si svolge il rito del “Bacio delle Croci”: ciascuna chiesa, che un tempo faceva parte della giurisdizione della Pieve di San Pietro, invita la sua croce astile ornata di nastri multicolori a rendere omaggio alla croce argentea trecentesca di bottega fiorentina della Chiesa Matrice. Segue la processione verso la Pieve ove viene celebrata la Santa Massa alla presenza dell'Arcivescovo di Udine, unitamente al Parroco di Zuglio e ai Parroci della Valle del But.
Da la “GUIDA D’ITALIA” del Touring club italiano dell’anno 1920.
“Da Zuglio a San Pietro m. 751 per carrozzabile o scorciatoie: 1 ora…..omissis..… Bella vista sul Canal San Pietro che dalla antichissima chiesa collegiata prende il nome. Testimoni dell’antico splendore alcuni oggetti del Tesoro e tre altari di legno intagliato, di cui il maggiore è pregievole”.
La iglesia del Crucifijo, de los siglos XII y XIII, de origen templarios y perteneciente a la Orden de Malta, que es actualmente administrada por los Padres Reparadores, guarda en su interior una misteriosa talla con una original forma de Y griega.
Se trata de un crucificado en un tronco macizo, sin descortezar. En el cual el tronco forma el astil de la cruz y los brazos las ramas que crecen a cada lado.
Es de grandes dimensiones, cargado de leyenda y se cree que la procedencia de la imagen es de origen renano y podría haber sido traída a este lugar, en el siglo XIV, por algún peregrino de la Orden Teutónica, como regalo a lo templarios de Puente la Reina.
Es una de las más interesantes obras de la imaginería gótica que se conservan en España.
....................................................................SIGUIENTE
Hazme una cruz sencilla,
carpintero...
sin añadidos ni ornamentos...
que se vean desnudos
los maderos, desnudos
y decididamente rectos:
los brazos en abrazo hacia la tierra,
el astil disparándose a los cielos.
Que no haya un solo adorno
que distraiga este gesto:
este equilibrio humano
de los dos mandamientos...
sencilla, sencilla...
hazme una cruz sencilla, carpintero.
León Felipe.
Bernardo Daddi (Borgo San Lorenzo, about 1290 - Florence, 1348) - Processional Cross (1335 -1340) - tempera painting 58.9 x 33 cm. - Poldi Pezzoli Museum, Milan
L’opera è un capolavoro della maturità di Bernardo Daddi, pittore di scuola giottesca attivo a Firenze nel secondo quarto del Trecento. Questa tipologia di croce, con immagini sacre su entrambi i lati, è definita "astìle", in quanto veniva mostrata ai fedeli durante processioni e altre cerimonie pubbliche, sorretta da una lunga asta. Sul verso della tavola sono raffigurati tre santi decapitati, in ginocchio e a mani giunte: in alto, san Paolo, con la lunga barba nera a punta e la testa calva; a sinistra, san Giacomo Maggiore; a destra, san Giovanni Battista, con la capigliatura e la barba disordinate e incolte, e il volto emaciato e ascetico. La presenza, inconsueta in una croce, di queste macabre immagini, indica che la tavola era originariamente destinata al conforto dei condannati a morte: alcuni gruppi di individui, riuniti in confraternite laiche, nei secoli passati si assumevano il compito di portare il conforto religioso ai condannati all’esecuzione, per indurli a confessarsi e ad accettare con rassegnazione cristiana la morte, sull’esempio di Gesù e dei santi martiri. Su questo stesso lato della croce sono mostrati, in basso, due santi domenicani, san Pietro Martire e san Tommaso d’Aquino, a indicare che la confraternita che commissionò questo dipinto era promossa e sostenuta dall’ordine dei Frati predicatori. Sul recto, alle più tradizionali immagini della Vergine Maria, di san Giovanni Evangelista e del Redentore si accompagna, in basso, l’insolita figura di un cadavere scarnificato, probabilmente un’allusione allo stesso condannato, vestito con la tunica nera dell’esecuzione che lasciava il collo libero per la decapitazione. Questa croce è tra i primi esempi di dipinti destinati al conforto dei condannati a morte - che si siano conservati fino ai giorni nostri - una tipologia molto rara nel Trecento, ma che conobbe una diffusione assai maggiore nel XV e nel XVI secolo. A.D
The work is a masterpiece of the maturity of Bernardo Daddi, a painter of the Giotto school active in Florence in the second quarter of the fourteenth century. This type of cross, with sacred images on both sides, is called "astìle," because it was shown to the faithful during processions and other public ceremonies, supported by a long pole. On the back of the panel are three decapitated saints, kneeling and with joined hands: above, Saint Paul, with his long black pointed beard and bald head; on the left, Saint James the Greater; on the right, Saint John the Baptist, with his hair and beard untidy and unkempt, and his emaciated and ascetic face. The presence, unusual in a cross, of these macabre images, indicates that the table was originally intended for the comfort of those condemned to death. In past centuries, groups of individuals, united in lay confraternities, took on the task of bringing religious comfort to those condemned to execution, to induce them to confess and accept death with Christian resignation, following the example of Jesus and the holy martyrs. On this same side of the cross are shown, below, two Dominican saints, Saint Peter Martyr and Saint Thomas Aquinas, indicating that the confraternity that commissioned this painting was promoted and supported by the order of the Preaching Friars. On the front, the more traditional images of the Virgin Mary, Saint John the Evangelist, and the Redeemer are accompanied at the bottom by the unusual figure of a stripped corpse, probably an allusion to the condemned man himself, dressed in the black execution tunic that left his neck free for decapitation. This cross is among the earliest examples of paintings intended for the comfort of those condemned to death - which have been preserved to this day - a type that was very rare in the fourteenth century, but which became much more widespread in the fifteenth and sixteenth centuries. A.D
Una cruz de madera en el camino, ante la cual los peregrinos detienen su paso y depositan sus deseos y aspiraciones en forma de piedrecilla, o en una inscripción en el astil de la cruz, o los brazos de este símbolo cristiano.
Luego continúan su camino.
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Bernardo Daddi (Borgo San Lorenzo, about 1290 - Florence, 1348) - back of the processional cross (1335 -1340) - tempera painting 58.9 x 33 cm. - Poldi Pezzoli Museum, Milan
L’opera è un capolavoro della maturità di Bernardo Daddi, pittore di scuola giottesca attivo a Firenze nel secondo quarto del Trecento. Questa tipologia di croce, con immagini sacre su entrambi i lati, è definita "astìle", in quanto veniva mostrata ai fedeli durante processioni e altre cerimonie pubbliche, sorretta da una lunga asta. Sul verso della tavola sono raffigurati tre santi decapitati, in ginocchio e a mani giunte: in alto, san Paolo, con la lunga barba nera a punta e la testa calva; a sinistra, san Giacomo Maggiore; a destra, san Giovanni Battista, con la capigliatura e la barba disordinate e incolte, e il volto emaciato e ascetico. La presenza, inconsueta in una croce, di queste macabre immagini, indica che la tavola era originariamente destinata al conforto dei condannati a morte: alcuni gruppi di individui, riuniti in confraternite laiche, nei secoli passati si assumevano il compito di portare il conforto religioso ai condannati all’esecuzione, per indurli a confessarsi e ad accettare con rassegnazione cristiana la morte, sull’esempio di Gesù e dei santi martiri. Su questo stesso lato della croce sono mostrati, in basso, due santi domenicani, san Pietro Martire e san Tommaso d’Aquino, a indicare che la confraternita che commissionò questo dipinto era promossa e sostenuta dall’ordine dei Frati predicatori. Sul recto, alle più tradizionali immagini della Vergine Maria, di san Giovanni Evangelista e del Redentore si accompagna, in basso, l’insolita figura di un cadavere scarnificato, probabilmente un’allusione allo stesso condannato, vestito con la tunica nera dell’esecuzione che lasciava il collo libero per la decapitazione. Questa croce è tra i primi esempi di dipinti destinati al conforto dei condannati a morte - che si siano conservati fino ai giorni nostri - una tipologia molto rara nel Trecento, ma che conobbe una diffusione assai maggiore nel XV e nel XVI secolo. A.D
The work is a masterpiece of the maturity of Bernardo Daddi, a painter of the Giotto school active in Florence in the second quarter of the fourteenth century. This type of cross, with sacred images on both sides, is called "astìle," because it was shown to the faithful during processions and other public ceremonies, supported by a long pole. On the back of the panel are three decapitated saints, kneeling and with joined hands: above, Saint Paul, with his long black pointed beard and bald head; on the left, Saint James the Greater; on the right, Saint John the Baptist, with his hair and beard untidy and unkempt, and his emaciated and ascetic face. The presence, unusual in a cross, of these macabre images, indicates that the table was originally intended for the comfort of those condemned to death. In past centuries, groups of individuals, united in lay confraternities, took on the task of bringing religious comfort to those condemned to execution, to induce them to confess and accept death with Christian resignation, following the example of Jesus and the holy martyrs. On this same side of the cross are shown, below, two Dominican saints, Saint Peter Martyr and Saint Thomas Aquinas, indicating that the confraternity that commissioned this painting was promoted and supported by the order of the Preaching Friars. On the front, the more traditional images of the Virgin Mary, Saint John the Evangelist, and the Redeemer are accompanied at the bottom by the unusual figure of a stripped corpse, probably an allusion to the condemned man himself, dressed in the black execution tunic that left his neck free for decapitation. This cross is among the earliest examples of paintings intended for the comfort of those condemned to death - which have been preserved to this day - a type that was very rare in the fourteenth century, but which became much more widespread in the fifteenth and sixteenth centuries. A.D
Da Porta Trapani, uno degli accessi alla città, si giunge in via Vito Carvini e dunque alla Chiesa Madre. Di fronte ad essa, isolato, sorge un poderoso campanile a due ordini di bifore gotiche di tipo chiaramontano e coronato da merli. Si suppone sia stato fatto originariamente costruire come torre vedetta da Federico d'Aragona nel 1312 e solo successivamente sia stato adibito a campanile. La chiesa, eretta nel 1314, presenta all'esterno un pronao rettangolare del 1426 che precede la facciata principale. Sotto quattro arcate ogivali si apre un magnifico portale gotico con ornati a linee spezzate, più sopra è possibile ammirare un bel rosone. L'interno a tre navate, in stile gotico, custodisce opere di Domenico Gagini (1420-1492) e frammenti di affreschi della scuola catalana del XV secolo. Lungo la navata sinistra si aprono diverse cappelle. Nel tesoro spiccano un ostensorio del '600 su piede del '400 e una croce astile in lamina d'argento del '400.
Bernardo Daddi (Borgo San Lorenzo, about 1290 - Florence, 1348) - Processional Cross (1335 -1340) - tempera painting 58.9 x 33 cm. - Poldi Pezzoli Museum, Milan
L’opera è un capolavoro della maturità di Bernardo Daddi, pittore di scuola giottesca attivo a Firenze nel secondo quarto del Trecento. Questa tipologia di croce, con immagini sacre su entrambi i lati, è definita "astìle", in quanto veniva mostrata ai fedeli durante processioni e altre cerimonie pubbliche, sorretta da una lunga asta. Sul verso della tavola sono raffigurati tre santi decapitati, in ginocchio e a mani giunte: in alto, san Paolo, con la lunga barba nera a punta e la testa calva; a sinistra, san Giacomo Maggiore; a destra, san Giovanni Battista, con la capigliatura e la barba disordinate e incolte, e il volto emaciato e ascetico. La presenza, inconsueta in una croce, di queste macabre immagini, indica che la tavola era originariamente destinata al conforto dei condannati a morte: alcuni gruppi di individui, riuniti in confraternite laiche, nei secoli passati si assumevano il compito di portare il conforto religioso ai condannati all’esecuzione, per indurli a confessarsi e ad accettare con rassegnazione cristiana la morte, sull’esempio di Gesù e dei santi martiri. Su questo stesso lato della croce sono mostrati, in basso, due santi domenicani, san Pietro Martire e san Tommaso d’Aquino, a indicare che la confraternita che commissionò questo dipinto era promossa e sostenuta dall’ordine dei Frati predicatori. Sul recto, alle più tradizionali immagini della Vergine Maria, di san Giovanni Evangelista e del Redentore si accompagna, in basso, l’insolita figura di un cadavere scarnificato, probabilmente un’allusione allo stesso condannato, vestito con la tunica nera dell’esecuzione che lasciava il collo libero per la decapitazione. Questa croce è tra i primi esempi di dipinti destinati al conforto dei condannati a morte - che si siano conservati fino ai giorni nostri - una tipologia molto rara nel Trecento, ma che conobbe una diffusione assai maggiore nel XV e nel XVI secolo. A.D
The work is a masterpiece of the maturity of Bernardo Daddi, a painter of the Giotto school active in Florence in the second quarter of the fourteenth century. This type of cross, with sacred images on both sides, is called "astìle," because it was shown to the faithful during processions and other public ceremonies, supported by a long pole. On the back of the panel are three decapitated saints, kneeling and with joined hands: above, Saint Paul, with his long black pointed beard and bald head; on the left, Saint James the Greater; on the right, Saint John the Baptist, with his hair and beard untidy and unkempt, and his emaciated and ascetic face. The presence, unusual in a cross, of these macabre images, indicates that the table was originally intended for the comfort of those condemned to death. In past centuries, groups of individuals, united in lay confraternities, took on the task of bringing religious comfort to those condemned to execution, to induce them to confess and accept death with Christian resignation, following the example of Jesus and the holy martyrs. On this same side of the cross are shown, below, two Dominican saints, Saint Peter Martyr and Saint Thomas Aquinas, indicating that the confraternity that commissioned this painting was promoted and supported by the order of the Preaching Friars. On the front, the more traditional images of the Virgin Mary, Saint John the Evangelist, and the Redeemer are accompanied at the bottom by the unusual figure of a stripped corpse, probably an allusion to the condemned man himself, dressed in the black execution tunic that left his neck free for decapitation. This cross is among the earliest examples of paintings intended for the comfort of those condemned to death - which have been preserved to this day - a type that was very rare in the fourteenth century, but which became much more widespread in the fifteenth and sixteenth centuries. A.D
Bernardo Daddi (Borgo San Lorenzo, about 1290 - Florence, 1348) - Processional Cross (1335 -1340) - tempera painting 58.9 x 33 cm. - Poldi Pezzoli Museum, Milan
L’opera è un capolavoro della maturità di Bernardo Daddi, pittore di scuola giottesca attivo a Firenze nel secondo quarto del Trecento. Questa tipologia di croce, con immagini sacre su entrambi i lati, è definita "astìle", in quanto veniva mostrata ai fedeli durante processioni e altre cerimonie pubbliche, sorretta da una lunga asta. Sul verso della tavola sono raffigurati tre santi decapitati, in ginocchio e a mani giunte: in alto, san Paolo, con la lunga barba nera a punta e la testa calva; a sinistra, san Giacomo Maggiore; a destra, san Giovanni Battista, con la capigliatura e la barba disordinate e incolte, e il volto emaciato e ascetico. La presenza, inconsueta in una croce, di queste macabre immagini, indica che la tavola era originariamente destinata al conforto dei condannati a morte: alcuni gruppi di individui, riuniti in confraternite laiche, nei secoli passati si assumevano il compito di portare il conforto religioso ai condannati all’esecuzione, per indurli a confessarsi e ad accettare con rassegnazione cristiana la morte, sull’esempio di Gesù e dei santi martiri. Su questo stesso lato della croce sono mostrati, in basso, due santi domenicani, san Pietro Martire e san Tommaso d’Aquino, a indicare che la confraternita che commissionò questo dipinto era promossa e sostenuta dall’ordine dei Frati predicatori. Sul recto, alle più tradizionali immagini della Vergine Maria, di san Giovanni Evangelista e del Redentore si accompagna, in basso, l’insolita figura di un cadavere scarnificato, probabilmente un’allusione allo stesso condannato, vestito con la tunica nera dell’esecuzione che lasciava il collo libero per la decapitazione. Questa croce è tra i primi esempi di dipinti destinati al conforto dei condannati a morte - che si siano conservati fino ai giorni nostri - una tipologia molto rara nel Trecento, ma che conobbe una diffusione assai maggiore nel XV e nel XVI secolo. A.D
The work is a masterpiece of the maturity of Bernardo Daddi, a painter of the Giotto school active in Florence in the second quarter of the fourteenth century. This type of cross, with sacred images on both sides, is called "astìle," because it was shown to the faithful during processions and other public ceremonies, supported by a long pole. On the back of the panel are three decapitated saints, kneeling and with joined hands: above, Saint Paul, with his long black pointed beard and bald head; on the left, Saint James the Greater; on the right, Saint John the Baptist, with his hair and beard untidy and unkempt, and his emaciated and ascetic face. The presence, unusual in a cross, of these macabre images, indicates that the table was originally intended for the comfort of those condemned to death. In past centuries, groups of individuals, united in lay confraternities, took on the task of bringing religious comfort to those condemned to execution, to induce them to confess and accept death with Christian resignation, following the example of Jesus and the holy martyrs. On this same side of the cross are shown, below, two Dominican saints, Saint Peter Martyr and Saint Thomas Aquinas, indicating that the confraternity that commissioned this painting was promoted and supported by the order of the Preaching Friars. On the front, the more traditional images of the Virgin Mary, Saint John the Evangelist, and the Redeemer are accompanied at the bottom by the unusual figure of a stripped corpse, probably an allusion to the condemned man himself, dressed in the black execution tunic that left his neck free for decapitation. This cross is among the earliest examples of paintings intended for the comfort of those condemned to death - which have been preserved to this day - a type that was very rare in the fourteenth century, but which became much more widespread in the fifteenth and sixteenth centuries. A.D
Bernardo Daddi (Borgo San Lorenzo, about 1290 - Florence, 1348) - Processional Cross (1335 -1340) - tempera painting 58.9 x 33 cm. - Poldi Pezzoli Museum, Milan
L’opera è un capolavoro della maturità di Bernardo Daddi, pittore di scuola giottesca attivo a Firenze nel secondo quarto del Trecento. Questa tipologia di croce, con immagini sacre su entrambi i lati, è definita "astìle", in quanto veniva mostrata ai fedeli durante processioni e altre cerimonie pubbliche, sorretta da una lunga asta. Sul verso della tavola sono raffigurati tre santi decapitati, in ginocchio e a mani giunte: in alto, san Paolo, con la lunga barba nera a punta e la testa calva; a sinistra, san Giacomo Maggiore; a destra, san Giovanni Battista, con la capigliatura e la barba disordinate e incolte, e il volto emaciato e ascetico. La presenza, inconsueta in una croce, di queste macabre immagini, indica che la tavola era originariamente destinata al conforto dei condannati a morte: alcuni gruppi di individui, riuniti in confraternite laiche, nei secoli passati si assumevano il compito di portare il conforto religioso ai condannati all’esecuzione, per indurli a confessarsi e ad accettare con rassegnazione cristiana la morte, sull’esempio di Gesù e dei santi martiri. Su questo stesso lato della croce sono mostrati, in basso, due santi domenicani, san Pietro Martire e san Tommaso d’Aquino, a indicare che la confraternita che commissionò questo dipinto era promossa e sostenuta dall’ordine dei Frati predicatori. Sul recto, alle più tradizionali immagini della Vergine Maria, di san Giovanni Evangelista e del Redentore si accompagna, in basso, l’insolita figura di un cadavere scarnificato, probabilmente un’allusione allo stesso condannato, vestito con la tunica nera dell’esecuzione che lasciava il collo libero per la decapitazione. Questa croce è tra i primi esempi di dipinti destinati al conforto dei condannati a morte - che si siano conservati fino ai giorni nostri - una tipologia molto rara nel Trecento, ma che conobbe una diffusione assai maggiore nel XV e nel XVI secolo. A.D
The work is a masterpiece of the maturity of Bernardo Daddi, a painter of the Giotto school active in Florence in the second quarter of the fourteenth century. This type of cross, with sacred images on both sides, is called "astìle," because it was shown to the faithful during processions and other public ceremonies, supported by a long pole. On the back of the panel are three decapitated saints, kneeling and with joined hands: above, Saint Paul, with his long black pointed beard and bald head; on the left, Saint James the Greater; on the right, Saint John the Baptist, with his hair and beard untidy and unkempt, and his emaciated and ascetic face. The presence, unusual in a cross, of these macabre images, indicates that the table was originally intended for the comfort of those condemned to death. In past centuries, groups of individuals, united in lay confraternities, took on the task of bringing religious comfort to those condemned to execution, to induce them to confess and accept death with Christian resignation, following the example of Jesus and the holy martyrs. On this same side of the cross are shown, below, two Dominican saints, Saint Peter Martyr and Saint Thomas Aquinas, indicating that the confraternity that commissioned this painting was promoted and supported by the order of the Preaching Friars. On the front, the more traditional images of the Virgin Mary, Saint John the Evangelist, and the Redeemer are accompanied at the bottom by the unusual figure of a stripped corpse, probably an allusion to the condemned man himself, dressed in the black execution tunic that left his neck free for decapitation. This cross is among the earliest examples of paintings intended for the comfort of those condemned to death - which have been preserved to this day - a type that was very rare in the fourteenth century, but which became much more widespread in the fifteenth and sixteenth centuries. A.D
La iglesia dedicada a los Santos Justo y Pastor, martirizados en Alcalá de Henares y cuyos restos fueron trasladados a Huesca por San Úrbez; primero al lugar de Nocito (monasterio de San Úrbez) y luego a San Pedro el Viejo de Huesca, donde permanecen.
La iglesia de los Santos Justo y Pastor no hubiera pasado de ser un pequeño templo de arrabal, funcional y recoleto para uso de la comunidad de pañeros del barrio en que asentó.
La diferencia, son sus maravillosas y bien conservadas pinturas del último tercio del siglo XII. A causa de su abandono se hundió parte de su bóveda de yeso quedando a la vista una parte de las pinturas que su cabecera atesoraba. Una adecuada recuperación y restauración permite contemplar uno de los conjuntos románicos mejor conservados de España.
Antes de edificarse este templo, en el lugar había una modesta ermita en la que se albergaba el Cristo de los Gascones, actualmente ubicado en una capilla barroca adosada al lado norte del templo en el siglo XVII. Una pequeña portadita decorada con un magnífico tímpano permite el paso a la base de la torre, en cuyo espacio se veneraba el mencionado Cristo antes de la edificación de la capilla barroca.
El acceso a la capilla bajo la torre se decora con un tímpano ricamente decorado. Al igual que sucedió con las pinturas ocultas del ábside, este tímpano se hallaba tapiado junto con la portada. Al recuperarlo, surgió una escultura cuidadosa, detallista y adornada de buenos restos de su policromía original.
Bajo un guardapolvo de ajedrezado jaqués, lo enmarca una arquivolta dovelada de medio punto compuesta por nueve dovelas decoradas con motivos vegetales y geométricos. La dovela clave muestra una cabeza de fiera de la que surgen tallos vegetales de boca y orejas.
En el tímpano, comenzando por nuestra izquierda hallamos a un mitrado sentado en su cátedra de la que asoman las fieras que rematan sus extremos. Luego, tres figuras femeninas portando redomas, las dos primeras con idéntica vestimenta. a nuestra derecha, la tercera es diferente y se distingue de las otras por su tocado: luce una corona diademada y flordelisada y porta vestidura de mayor lujo. A la derecha de ella, hay un ángel turiferario pelirrojo con las alas explayadas incensando a una estructura que se alza sobre doble vano geminados de doble punto. Se compone de altar oculto y decorado por mantel delicadamente esculpido sobre el que se alza un vano cubierto por arco de herradura que proteje una cruz de brazos iguales alzada sobre astil.
El simbolismo de este tímpano desata todavía controversias. Sin duda muestra una exaltación del símbolo de la Cruz; pero el momento que describe se presta a interpretaciones. La más repetida apunta hacia Santa Elena, madre del emperador Constantino acompañada de dos mujeres en el momento de descubrir la Vera Cruz de Cristo. El mitrado sería el obispo Macario de Jerusalén. Otras opiniones apuntan hacia el episodio de las tres Marías ante el sepulcro de Cristo, opinión reforzada en que esa puerta daba paso a la capilla bajo la torre donde se guardaba la imagen articulada del Cristo de los Gascones.
Il centro storico sorge sulla sommità e sui fianchi orientali di una collina. Sopra l’insediamento antico e medioevale si è sviluppato l’abitato moderno, il quale, a causa di diverse calamità, conserva pochi resti delle precedenti costruzioni.
In alto si erge il Castello, molto rimaneggiato nel Settecento e poi adibito a carcere mandamentale. Attualmente è proprietà privata e si riconoscono le vestigia di una torre, forse la trasformazione di una delle torri o del mastio del più antico castello dei de Ceccano. Il precedente castello era molto complesso e gravitava su un’area fortificata oggi ridotta a una spianata, piazza Mancini, con alcuni palazzi che hanno inglobato la cinta muraria. Sulla piazza del comune si affacciano il Palazzo comunale, già Antonelli e la seicentesca Chiesa di San Sebastiano. Il Palazzo comunale, unione di diverse abitazioni, appartenne alla famiglia del celebre cardinale; l’edificio si affaccia sopra un giardino signorile, che ricorda per alcune sue caratteristiche il giardino all’italiana. All’interno, nelle parti basse e meno visibili, si conservano resti degli edifici più antichi, fra cui diversi archi di sostegno medioevali. La Chiesa di San Sebastiano fu eretta dal comune e affidata ai francescani, i quali l’abbandonarono dopo il 1652 a seguito della soppressione dei conventi minori. L’edificio fu adattato a sede di ospedale, qui trasferito dall’antica sede di via dell’Ospedale Vecchio.
Il circuito murario antico e medioevale inglobava l’area del castello superiore, e tutto il quartiere ad oriente, posto attorno alla Chiesa di San Giovanni; mura medioevali affiorano in diversi punti, anche se gran parte sono andate distrutte o ne sono stati reimpiegati i materiali. Alcune tracce sono rimaste nella toponomastica, nell’andamento delle strade e delle costruzioni.
Dalla piazza del comune si accede per una breve e stretta via alla Chiesa di San Giovanni Battista. L’attuale edificio è il prodotto di diversi rimaneggiamenti, che hanno mutato anche l’orientamento della facciata. L’antica chiesa medioevale fu bruciata nel 1182 e ricostruita più volte, anche nel Cinquecento. L’attuale è stata realizzata su progetto dell’architetto Giovanni Battista Nolli a partire dalla metà del Settecento. Recentemente sono state scoperte costruzioni in mura poligonali ed una cappella medioevale, con tracce di affreschi.
L’edificio sacro, così come si presenta, risale al Settecento. In quell’occasione venne invertita la direzione dell’intero complesso, rivolgendo la facciata a sud. L’interno è a tre navate, con altare centrale unico e altari nelle navate laterali; i lati della breve crociera sono stati trasformati in cappelle. Sugli altari campeggiano diversi dipinti, alcuni dei quali del Sette-Ottocento e di buona fattura. E conservato nel presbiterio, vicino all’altare maggiore, un grande crocefisso tardo medioevale. Nella sacrestia sono una piccola collezione di reperti archeologici e qualche altro dipinto di un certo pregio. La Chiesa di San Giovanni Battista conserva le uniche testimonianze di affreschi medioevali esistenti in Ceccano, dopo la scomparsa di quelli esistenti in Santa Maria a Fiume: si trovano nella cappella dedicata alla Madonna, basamento del campanile eretto nel secolo XVI. In un documento del 1754 la cappella si intitola alla Natività di Maria Santissima. Gli affreschi sono stati deturpati all’inizio di questo secolo, per lavori edilizi, e pertanto risultano di difficile lettura. Su due pareti della cappella si nota appena un ciclo di affreschi riguardanti la vita della Madonna. Si osservano una Crocefissione con la Madonna Addolorata, un’Annunciazione, un Dormitio Virginis, e l’Incoronazione della Vergine. Sembra che questo sia l’unico ciclo completo intorno alla vita della Madonna, esistente nella zona.
La medioevale Chiesa di San Nicola, già extraurbana, che sorgeva nel mezzo di una foresta, oggi si trova in pieno centro storico. Distrutta dai bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale, è stata ricostruita secondo Io stile ispirato all’architettura cistercense di Fossanova. Una primitiva chiesa fu abbattuta nel corso del XIII secolo e ricostruita, mecenati i de Ceccano, nel corso del Trecento, come attestano le iscrizioni incise sui pilastri fatti erigere da Tommaso il Giovane, Berardo e Tommaso il Vecchio. La pianta è irregolare e permangono tracce di affreschi per tutta la chiesa, anche se l’apparato pittorico è quasi del tutto sparito: l’unico affresco visibile è quello posto sopra l’arco trionfale. La chiesa è a tre navate rettangolari anche se irregolari, suddivisa da pilastri che sorreggono archi acuti. Rimangono le sei monofore della primitiva chiesa, collocate tre per parete. Sulla facciata campeggia un bel rosone e tutto l’edificio presenta diversi elementi decorativi medioevali e recenti. L’ingresso principale è posto sul fianco sinistro. Il portale presenta delle colonnine che sorreggono un arco decorato, la lunetta è affrescata, e la pittura rappresenta la Madonna della Foresta. La chiesa nel Medioevo non aveva cura d’anime e possedeva un ingente patrimonio nel quale si elencavano mulini e gualchiere. Diventò parrocchiale nel 1780 quando Ceccano aumentò considerevolmente la popolazione. Entro la chiesa si conservano alcune pale d’altare del Seicento e Settecento.
La Chiesa di Santa Maria a Fiume, distrutta a seguito dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, è stata ricostruita nella precedente posizione e con lo stesso stile, reimpiegando gran parte del materiale recuperato. L’edificio ha avuto la ventura di essere stato costruito e ricostruito ben quattro volte. La primitiva chiesa, sorta sopra i resti di edifici di epoca classica, non si sa con precisione se terme o tempio, era sicuramente romanica, ed esisteva già nel corso del secolo XII. Verso la fine di questo secolo, ad opera dei de Ceccano, i quali intendevano edificare una loro chiesa e il loro sacrario, l’edificio venne rimaneggiato. I portici laterali furono trasformati in navate e tutto il tempio venne adattato nuovo stile diffuso dai cistercensi di Fossanova. Altri lavori furono eseguiti verso la metà del Trecento, sempre ad opera dei ceccanesi; prodotto di tali interventi era un edificio sacro che appariva sostaizialmente un ibrido. Distrutto a causa della guerra, è stato ricostruito nelle forme preesistenti. Il monumento, dichiarato d’interesse nazionale alla fine del secolo scorso, è posto lungo il fiume Sacco, di sopra di un prato, staccato del tutto dalla città che sorgeva oltre il fiume, sopra la collina. Attualmente, a causa dell’espansione della città, si trova nel perimetro urbano. Conserva però il fascino del luogo, con un vasto prato verde attorno, isolato dalle moderne costruzioni della zona.
La costruzione è molto ampia, a tre navate con una facciata semplice ed essenziale. Il portale è composto da colonne rientranti e da un archivolto. Al di sopra del portale c’è un grande rosone fiorito a doppia ghiera. L’interno oggi è spoglio delle decorazioni parietali presenti fino alla distruzione recente. Vi era un notevole patrimonio di affreschi, attribuiti alla scuola di Giotto, dati i legami fra alcuni cardinali, i de Ceccano, i loro parenti, e il pittore. Gli affreschi non costituivano un ciclo, ma sembravano essere quadri staccati l’uno dall’altro, molti dei quali devozionali o dipinti a corredo di tombe. In questa chiesa si conserva oggi una Madonna lignea, tradizionalmente venerata dal popolo laziale. “La Madonna è grandezza naturale, regge in braccio il Santo Bambino ed è seduta su un rozzo( sedile di legno... Il gruppo... è collocato in una cornice di legno ancor esso di cedro del Libano, arieggiante, non sappiamo se per contemporaneità di esecuzione, o solo per imitazione posteriore lo stile della chiesa...” Così Giuseppe Marchetti Longhi, uno degli ultimi studiosi e testimone della chiesa avanti la distruzione, descrive la statua. Nel tempio c’è un imponente pergamo: un grande ambone elevato su quattro colonne composto da un piano circondato da altre colonne, alternativamente uguali. Sulla balaustra due leggii ed una colonna tortile per il cero pasquale. Alla base delle colonne del piano sono raffigurati due leoni che divorano la preda tenuta fra le zampe.
Sempre a proposito di Santa Maria a Fiume può essere interessante ricordare la consacrazione, avvenuta nel 1196, della chiesa ristrutturata dai de Ceccano e in particolare dal cardinale Giordano e dal fratello Giovanni, signore del luogo.
La fastosa cerimonia ci è descritta dagli “Annales Ceccanenses”, cronaca domestica dei signori di Ceccano. Alla presenza di una enorme folla, composta da laici e da chierici, sei vescovi, Berardo di Ferentino, Giovanni di Anagni, Oddone di Veroli, Pietro di Segni, Taddeo di Alatri e Tedelgario di Terracina consacrarono alla Madonna la chiesa, l’altare maggiore e gli altari delle due navate laterali. La sera precedente la festa religiosa, ci fu una processione notturna, illuminata da torce, durante la quale furono portate dodici croci astili d’argento, quattro evangelari, venti turiboli d’argento e quattro urne di reliquie, poste poi entro altrettanti padiglioni, custodite e vegliate per tutta la notte.
Alla cerimonia della consacrazione era assente il conte Giovanni perché malato. Improvvisamente comparve, subitamente guarito, e questo fece gridare la folla al miracolo. Al termine della cerimonia, vennero donate alla chiesa diverse regalìe, fra le quali gli arredi in opus theutonicus dati dal cardinale Giordano e la charta libertatis concessa da Giovanni, con la quale si davano privilegi ed il diritto d’asilo alla chiesa.
Especie de Ave #28 que he fotografiado y subido a Flikr
El momoto cejiazul (Eumomota superciliosa) es una especie de ave coraciforme de la familia Momotidae. Habita en Centroamérica desde la península de Yucatán hasta Costa Rica. Es común y no se considera amenazado de extinción.
En el Salvador es llamado comúnmente Torogoz ya que en su canto emula esa palabra además es el Ave Nacional de dicho país.
Un rasgo muy llamativo y característico es que de su cola sobresalen dos largas plumas con el raquis desnudo y largo y pluma ancha al final, simulando dos raquetas grandes, como las de muchos otros momotos, pero los astiles son más largos. Muchas veces, sobre todo cuando están alarmados, mueve su cola como un péndulo de un lado a otro, de allí su apodo yucateco "pájaro reloj".
El grito es un graznido nasal, "cwaw" o "cwaanh", algunas veces se repite y se puede oír de lejos.
Es pariente muy cercano del Momotus momota, en nuestro país llamado Talapo a pesar de su belleza es muy común en áreas boscosas y en áreas urbanas y permite el acercamiento del humano hasta una distancia bastante corta.
Bernardo Daddi (Borgo San Lorenzo, about 1290 - Florence, 1348) - back of the processional cross (1335 -1340) - tempera painting 58.9 x 33 cm. - Poldi Pezzoli Museum, Milan
L’opera è un capolavoro della maturità di Bernardo Daddi, pittore di scuola giottesca attivo a Firenze nel secondo quarto del Trecento. Questa tipologia di croce, con immagini sacre su entrambi i lati, è definita "astìle", in quanto veniva mostrata ai fedeli durante processioni e altre cerimonie pubbliche, sorretta da una lunga asta. Sul verso della tavola sono raffigurati tre santi decapitati, in ginocchio e a mani giunte: in alto, san Paolo, con la lunga barba nera a punta e la testa calva; a sinistra, san Giacomo Maggiore; a destra, san Giovanni Battista, con la capigliatura e la barba disordinate e incolte, e il volto emaciato e ascetico. La presenza, inconsueta in una croce, di queste macabre immagini, indica che la tavola era originariamente destinata al conforto dei condannati a morte: alcuni gruppi di individui, riuniti in confraternite laiche, nei secoli passati si assumevano il compito di portare il conforto religioso ai condannati all’esecuzione, per indurli a confessarsi e ad accettare con rassegnazione cristiana la morte, sull’esempio di Gesù e dei santi martiri. Su questo stesso lato della croce sono mostrati, in basso, due santi domenicani, san Pietro Martire e san Tommaso d’Aquino, a indicare che la confraternita che commissionò questo dipinto era promossa e sostenuta dall’ordine dei Frati predicatori. Sul recto, alle più tradizionali immagini della Vergine Maria, di san Giovanni Evangelista e del Redentore si accompagna, in basso, l’insolita figura di un cadavere scarnificato, probabilmente un’allusione allo stesso condannato, vestito con la tunica nera dell’esecuzione che lasciava il collo libero per la decapitazione. Questa croce è tra i primi esempi di dipinti destinati al conforto dei condannati a morte - che si siano conservati fino ai giorni nostri - una tipologia molto rara nel Trecento, ma che conobbe una diffusione assai maggiore nel XV e nel XVI secolo. A.D
The work is a masterpiece of the maturity of Bernardo Daddi, a painter of the Giotto school active in Florence in the second quarter of the fourteenth century. This type of cross, with sacred images on both sides, is called "astìle," because it was shown to the faithful during processions and other public ceremonies, supported by a long pole. On the back of the panel are three decapitated saints, kneeling and with joined hands: above, Saint Paul, with his long black pointed beard and bald head; on the left, Saint James the Greater; on the right, Saint John the Baptist, with his hair and beard untidy and unkempt, and his emaciated and ascetic face. The presence, unusual in a cross, of these macabre images, indicates that the table was originally intended for the comfort of those condemned to death. In past centuries, groups of individuals, united in lay confraternities, took on the task of bringing religious comfort to those condemned to execution, to induce them to confess and accept death with Christian resignation, following the example of Jesus and the holy martyrs. On this same side of the cross are shown, below, two Dominican saints, Saint Peter Martyr and Saint Thomas Aquinas, indicating that the confraternity that commissioned this painting was promoted and supported by the order of the Preaching Friars. On the front, the more traditional images of the Virgin Mary, Saint John the Evangelist, and the Redeemer are accompanied at the bottom by the unusual figure of a stripped corpse, probably an allusion to the condemned man himself, dressed in the black execution tunic that left his neck free for decapitation. This cross is among the earliest examples of paintings intended for the comfort of those condemned to death - which have been preserved to this day - a type that was very rare in the fourteenth century, but which became much more widespread in the fifteenth and sixteenth centuries. A.D
«Hermoso tronco»
Jiří Orten
Hermoso tronco,
talado en el albor,
entre astil y viento
tu voz prosigue
en el silbido del zorzal
y viajan las nubes todavía
sobre las alambradas
como gasas de oro,
cuidosos paños
para la nieve dura
del corazón humano.
Abracémonos
en lo invisible,
estrechemos los lazos
inmarcesibles del poema,
que a nada ajenos somos
aunque la nada
semeje nuestra calma:
amor que permanece
son tu canto y el mío,
y sé que no estás vivo
ni estoy viva.
Clara Janés
BM 526 - Croce astile
Provenienza: originaria
Soggetto: Cristo crocifisso, simboli degli evangelisti
Datazione: 1420-1430
Autore: bottega di Jean de Malines
Materia e tecnica: lamina di rame argentato e dorato,
sbalzata e incisa, argento dorato, cristalli
Misure in cm: 77x45x15
Bedford VAL14 Duple C52F at St Margaret's Bus Station Leicester. One of the few independent operators here where Midland Red and Leicester City Transport had a near monopoly of stage carriage services.
Proyecto "Abecedario" Abecedario es un proyecto fotográfico que comparto con Alejandro Gómez y María Juliana, juntos iremos haciendo una fotografía por cada letra del abecedario, para mostrar nuestra elocuencia fotográfica.
NOTA: MIL AGRADECIMIENTOS A JAVIER PEDROZA (MODELO) Y CARLOS ORTÍZ (POR SU PACIENCIA EN LAS CLASES VIRTUALES DE PHOTOSHOP)
O/OJO
(Del lat. ocŭlus).
1. m. Órgano de la vista en el hombre y en los animales.
2. m. Parte visible de este órgano en la cara.
3. m. Agujero que tiene la aguja para que entre el hilo.
4. m. Abertura o agujero que atraviesa de parte a parte alguna cosa.
5. m. Anillo que tienen las herramientas para que entren por él los dedos, el astil o mango con que se manejan para trabajar.
6. m. Cada uno de los anillos de la tijera en los que entran los dedos.
7. m. Anillo, generalmente elíptico, por donde se agarra y hace fuerza en la llave para mover el pestillo de la cerradura.
8. m. Agujero por donde se mete la llave en la cerradura.
9. m. Abertura que tienen algunas letras cuando en todo o en parte llevan una curva cerrada.
10. m. Manantial que surge en un llano.
11. m. Cada una de las gotas de aceite o grasa que nadan en otro líquido.
12. m. Círculo de colores que tiene el pavo real en la extremidad de cada una de las plumas de la cola.
13. m. Espacio entre dos estribos o pilas de un puente.
14. m. Boca abierta en el muro de ciertos molinos para dar entrada al agua que pone en movimiento la rueda.
15. m. Mano que se da a la ropa con el jabón cuando se lava.
16. m. Palabra que se pone como señal al margen de manuscritos o impresos para llamar la atención hacia algo.
17. m. Cada uno de los huecos o cavidades que tienen dentro de sí el pan, el queso y otras cosas esponjosas.
18. m. Agujero redondo o alargado que en la parte superior del pie tienen algunas balanzas para ver al través si el fiel está perpendicular o caído.
19. m. Cada uno de los espacios de la red de mallas.
20. m. Aptitud singular para apreciar certera y fácilmente las circunstancias que concurren en algún caso o para calcular magnitudes. Tener ojo para tratar con los subordinados Tener buen ojo para las distancias
21. m. Atención, cuidado o advertencia que se pone en algo.
22. m. Impr. Grueso en los caracteres tipográficos, que puede ser distinto en los de un mismo cuerpo.
23. m. Impr. Relieve de los tipos, que impregnado en tinta produce la impresión.
24. m. pl. U. por expresión de gran cariño o por el objeto de él. Mis ojos Sus ojos Ojos míos
Pieza del ajuar litúrgico, normalmente de material precioso y por lo general de plata dorada, cuya misión es la de servir de marco y soporte a la hostia consagrada o Corpus Christi , para exposición y adoración de los fieles. Es Urbano IV, en 1263, quien instituye la festividad del Corpus Christi, el jueves siguiente al domingo de la Santísima Trinidad, pero sólo se afianza esta celebración a partir de 1311, con Clemente V, y con Juan XXII, quien en 1316 añade la obligación de llevar en procesión el Santísimo Sacramento. Al adquirir nueva solemnidad se estimula la creación de nuevas piezas para ello.
La forma de la custodia arranca en primer momento del hostiario gótico en forma de pyxis, muchos de los cuales se acondicionan como custodias con la colocación de un viril o manifestador en la parte superior; ésta será la forma más extendida en el siglo XV, pero llega incluso a los primeros años del siglo XVII. La custodia como pieza original la encontramos en el siglo XV: son los llamados ciprés, que es una custodia portátil en forma de retablito, al modo de los de la época, soportado por un pie arquitectónico. A partir del siglo XV se labran también en España custodias de asiento, obras de gran tamaño en forma de torre, que se inspiraron en principio en los sagrarios de madera de los retablos de la época. A partir del siglo XVII la forma casi exclusiva de custodia es la de tipo sol: consiste en un manifestador radiado, soportado por un astil normalmente abalaustrado, y un pie o peana.
La pieza más antigua que en Aragón se encuentra es la custodia de los Corporales de Daroca , obra de Pedro Moragues labrada en Zaragoza entre 1384-86; pero en realidad se trata de un relicario a modo de retablo acondicionado para expositor con un viril sobrepuesto.
De tipo píxide son las de Tronchón y la desaparecida de Cuevas de Cañart , adornadas con esmaltes traslúcidos, piezas extraordinarias fruto de los talleres de Morella (Castellón) a principios del siglo XV. De la misma época es la de Balconchán , de taller darocense; las de Cella y Cutanda son de finales del siglo; de la primera mitad del siglo XVI es la de Villanueva de Jiloca , labrada en Daroca , y la de Ejulve ; de la segunda mitad del quinientos son las de Burbáguena y Undués de Lerda ; de principios del siglo XVII, pero según modelos del XV, es la de Retascón .
Del tipo de ciprés y obras de taller zaragozano en el siglo XV son las de la catedral de Tarazona , la sorprendente del convento de San Francisco en la misma ciudad, y la de Aranda del Moncayo ; de la primera mitad del siglo XVI son las de Aniñón y Torrijo de la Cañada , labradas en Calatayud , también las de Fuentes de Jiloca y Villarroya de la Sierra .
En la mitad del siglo XVI la custodia de pie o portátil, aunque sigue esencialmente la misma forma que la anterior de ciprés, deja de recibir este nombre por adoptar elementos renacentistas en todas sus partes y configurarse como un pequeño baldaquino soportado por astil y pie. Las mejores piezas son la custodia del monasterio de Alaón , en Sopeira, obra del zaragozano Juan de Ansá en 1548; la de Villalengua , realizada por Jerónimo de la Mata , contratada en Calatayud en 1565 y vuelta a contratar en Zaragoza en 1566; la de la catedral de Teruel , algo más rica y obra de taller turolense; la de Luna , realizada en el último tercio del siglo XVI en Zaragoza.
La más importante custodia de asiento aragonesa, y una de las obras capitales de toda la platería , es la gran custodia de La Seo , obra del famoso Pedro Lamaison entre 1537-41; consta de cinco cuerpos, en los que se cuidaron hasta la exquisitez los detalles, tanto en el diseño y proporciones como en el acabado. El archivo del Pilar guarda un diseño de custodia fechado en 1555 por Miguel Sánchez.
Otra custodia de asiento es la de San Felipe de Zaragoza, obra realizada entre 1586 y 1600, que consta de un basamento y tres pisos, y sigue, en sus proporciones armónicas, la más frecuente en la época, sesquiáltera (5/3), que sin embargo era totalmente extraña en este tipo de piezas; de toda su ornamentación destacan las figuras fundidas y los relieves del basamento. También la custodia de la catedral de Huesca, realizada por el platero de Pamplona, José Velázquez Medrano, entre 1596 y 1601; con cuatro pisos, maravilla por su correcta arquitectura, su carencia ornamental, y un perfecto estudio del diseño que la hace una de las piezas más estimables dentro de la austera moda de finales del siglo XVI. Del mismo platero es el templete o andas para la custodia de la catedral de Tarazona realizado en 1595; es una construcción a modo de baldaquino de planta cuadrada con esquinas achaflanadas de orden toscano, cubierto con cúpula y frontones curvos partidos; además de su arquitectura, lo que verdaderamente admira es la perfección y gracia escultórica en sus figuras, y sobre todo en los relieves de temas eucarísticos, tomados de Biblias italianas de la época.
En el siglo XVII y XVIII escasean las custodias de asiento; la de la catedral de Jaca está fechada en 1645; la de la iglesia de San Pablo de Zaragoza, muy airosa, en su parte primitiva fue realizada en la primera mitad del siglo XVII, y a principios del siglo XVIII se le hizo un cuerpo inferior con cuidado de no alterar el sistema proporcional y el diseño de conjunto. En la custodia mayor de la catedral de Teruel se ha vuelto a la riqueza decorativa, pues fue realizada en 1742 por el platero cordobés Bernabé García de los Reyes.
A partir del siglo XVII, el tipo difundido es el de custodia sol, destacando por su especial belleza los de Embid de la Ribera , el de Aniñón de taller bilbilitano, ambos de primer tercio del siglo XVII. El de la iglesia de San Gil de Zaragoza, de taller local, en torno a 1700; la custodia de Ayerbe, realizada por Francisco Clúa en 1727. De gran riqueza de pedrería y fino trabajo es el viril de La Seo, obra de la primera mitad del siglo XVIII, cuya atribución al famoso platero Domingo Estrada es dudosa. La custodia de San Lorenzo de Huesca es obra napolitana fechada en 1733.
• Bibliog.: Gascón de Gotor, Anselmo: El Corpus Christi y las custodias procesionales de España; Barcelona, 1916. Tremps, Manuel: Las custodias españolas; Madrid, 1952.
Pieza del ajuar litúrgico, normalmente de material precioso y por lo general de plata dorada, cuya misión es la de servir de marco y soporte a la hostia consagrada o Corpus Christi , para exposición y adoración de los fieles. Es Urbano IV, en 1263, quien instituye la festividad del Corpus Christi, el jueves siguiente al domingo de la Santísima Trinidad, pero sólo se afianza esta celebración a partir de 1311, con Clemente V, y con Juan XXII, quien en 1316 añade la obligación de llevar en procesión el Santísimo Sacramento. Al adquirir nueva solemnidad se estimula la creación de nuevas piezas para ello.
La forma de la custodia arranca en primer momento del hostiario gótico en forma de pyxis, muchos de los cuales se acondicionan como custodias con la colocación de un viril o manifestador en la parte superior; ésta será la forma más extendida en el siglo XV, pero llega incluso a los primeros años del siglo XVII. La custodia como pieza original la encontramos en el siglo XV: son los llamados ciprés, que es una custodia portátil en forma de retablito, al modo de los de la época, soportado por un pie arquitectónico. A partir del siglo XV se labran también en España custodias de asiento, obras de gran tamaño en forma de torre, que se inspiraron en principio en los sagrarios de madera de los retablos de la época. A partir del siglo XVII la forma casi exclusiva de custodia es la de tipo sol: consiste en un manifestador radiado, soportado por un astil normalmente abalaustrado, y un pie o peana.
La pieza más antigua que en Aragón se encuentra es la custodia de los Corporales de Daroca , obra de Pedro Moragues labrada en Zaragoza entre 1384-86; pero en realidad se trata de un relicario a modo de retablo acondicionado para expositor con un viril sobrepuesto.
De tipo píxide son las de Tronchón y la desaparecida de Cuevas de Cañart , adornadas con esmaltes traslúcidos, piezas extraordinarias fruto de los talleres de Morella (Castellón) a principios del siglo XV. De la misma época es la de Balconchán , de taller darocense; las de Cella y Cutanda son de finales del siglo; de la primera mitad del siglo XVI es la de Villanueva de Jiloca , labrada en Daroca , y la de Ejulve ; de la segunda mitad del quinientos son las de Burbáguena y Undués de Lerda ; de principios del siglo XVII, pero según modelos del XV, es la de Retascón .
Del tipo de ciprés y obras de taller zaragozano en el siglo XV son las de la catedral de Tarazona , la sorprendente del convento de San Francisco en la misma ciudad, y la de Aranda del Moncayo ; de la primera mitad del siglo XVI son las de Aniñón y Torrijo de la Cañada , labradas en Calatayud , también las de Fuentes de Jiloca y Villarroya de la Sierra .
En la mitad del siglo XVI la custodia de pie o portátil, aunque sigue esencialmente la misma forma que la anterior de ciprés, deja de recibir este nombre por adoptar elementos renacentistas en todas sus partes y configurarse como un pequeño baldaquino soportado por astil y pie. Las mejores piezas son la custodia del monasterio de Alaón , en Sopeira, obra del zaragozano Juan de Ansá en 1548; la de Villalengua , realizada por Jerónimo de la Mata , contratada en Calatayud en 1565 y vuelta a contratar en Zaragoza en 1566; la de la catedral de Teruel , algo más rica y obra de taller turolense; la de Luna , realizada en el último tercio del siglo XVI en Zaragoza.
La más importante custodia de asiento aragonesa, y una de las obras capitales de toda la platería , es la gran custodia de La Seo , obra del famoso Pedro Lamaison entre 1537-41; consta de cinco cuerpos, en los que se cuidaron hasta la exquisitez los detalles, tanto en el diseño y proporciones como en el acabado. El archivo del Pilar guarda un diseño de custodia fechado en 1555 por Miguel Sánchez.
Otra custodia de asiento es la de San Felipe de Zaragoza, obra realizada entre 1586 y 1600, que consta de un basamento y tres pisos, y sigue, en sus proporciones armónicas, la más frecuente en la época, sesquiáltera (5/3), que sin embargo era totalmente extraña en este tipo de piezas; de toda su ornamentación destacan las figuras fundidas y los relieves del basamento. También la custodia de la catedral de Huesca, realizada por el platero de Pamplona, José Velázquez Medrano, entre 1596 y 1601; con cuatro pisos, maravilla por su correcta arquitectura, su carencia ornamental, y un perfecto estudio del diseño que la hace una de las piezas más estimables dentro de la austera moda de finales del siglo XVI. Del mismo platero es el templete o andas para la custodia de la catedral de Tarazona realizado en 1595; es una construcción a modo de baldaquino de planta cuadrada con esquinas achaflanadas de orden toscano, cubierto con cúpula y frontones curvos partidos; además de su arquitectura, lo que verdaderamente admira es la perfección y gracia escultórica en sus figuras, y sobre todo en los relieves de temas eucarísticos, tomados de Biblias italianas de la época.
En el siglo XVII y XVIII escasean las custodias de asiento; la de la catedral de Jaca está fechada en 1645; la de la iglesia de San Pablo de Zaragoza, muy airosa, en su parte primitiva fue realizada en la primera mitad del siglo XVII, y a principios del siglo XVIII se le hizo un cuerpo inferior con cuidado de no alterar el sistema proporcional y el diseño de conjunto. En la custodia mayor de la catedral de Teruel se ha vuelto a la riqueza decorativa, pues fue realizada en 1742 por el platero cordobés Bernabé García de los Reyes.
A partir del siglo XVII, el tipo difundido es el de custodia sol, destacando por su especial belleza los de Embid de la Ribera , el de Aniñón de taller bilbilitano, ambos de primer tercio del siglo XVII. El de la iglesia de San Gil de Zaragoza, de taller local, en torno a 1700; la custodia de Ayerbe, realizada por Francisco Clúa en 1727. De gran riqueza de pedrería y fino trabajo es el viril de La Seo, obra de la primera mitad del siglo XVIII, cuya atribución al famoso platero Domingo Estrada es dudosa. La custodia de San Lorenzo de Huesca es obra napolitana fechada en 1733.
• Bibliog.: Gascón de Gotor, Anselmo: El Corpus Christi y las custodias procesionales de España; Barcelona, 1916. Tremps, Manuel: Las custodias españolas; Madrid, 1952.
Pieza del ajuar litúrgico, normalmente de material precioso y por lo general de plata dorada, cuya misión es la de servir de marco y soporte a la hostia consagrada o Corpus Christi , para exposición y adoración de los fieles. Es Urbano IV, en 1263, quien instituye la festividad del Corpus Christi, el jueves siguiente al domingo de la Santísima Trinidad, pero sólo se afianza esta celebración a partir de 1311, con Clemente V, y con Juan XXII, quien en 1316 añade la obligación de llevar en procesión el Santísimo Sacramento. Al adquirir nueva solemnidad se estimula la creación de nuevas piezas para ello.
La forma de la custodia arranca en primer momento del hostiario gótico en forma de pyxis, muchos de los cuales se acondicionan como custodias con la colocación de un viril o manifestador en la parte superior; ésta será la forma más extendida en el siglo XV, pero llega incluso a los primeros años del siglo XVII. La custodia como pieza original la encontramos en el siglo XV: son los llamados ciprés, que es una custodia portátil en forma de retablito, al modo de los de la época, soportado por un pie arquitectónico. A partir del siglo XV se labran también en España custodias de asiento, obras de gran tamaño en forma de torre, que se inspiraron en principio en los sagrarios de madera de los retablos de la época. A partir del siglo XVII la forma casi exclusiva de custodia es la de tipo sol: consiste en un manifestador radiado, soportado por un astil normalmente abalaustrado, y un pie o peana.
La pieza más antigua que en Aragón se encuentra es la custodia de los Corporales de Daroca , obra de Pedro Moragues labrada en Zaragoza entre 1384-86; pero en realidad se trata de un relicario a modo de retablo acondicionado para expositor con un viril sobrepuesto.
De tipo píxide son las de Tronchón y la desaparecida de Cuevas de Cañart , adornadas con esmaltes traslúcidos, piezas extraordinarias fruto de los talleres de Morella (Castellón) a principios del siglo XV. De la misma época es la de Balconchán , de taller darocense; las de Cella y Cutanda son de finales del siglo; de la primera mitad del siglo XVI es la de Villanueva de Jiloca , labrada en Daroca , y la de Ejulve ; de la segunda mitad del quinientos son las de Burbáguena y Undués de Lerda ; de principios del siglo XVII, pero según modelos del XV, es la de Retascón .
Del tipo de ciprés y obras de taller zaragozano en el siglo XV son las de la catedral de Tarazona , la sorprendente del convento de San Francisco en la misma ciudad, y la de Aranda del Moncayo ; de la primera mitad del siglo XVI son las de Aniñón y Torrijo de la Cañada , labradas en Calatayud , también las de Fuentes de Jiloca y Villarroya de la Sierra .
En la mitad del siglo XVI la custodia de pie o portátil, aunque sigue esencialmente la misma forma que la anterior de ciprés, deja de recibir este nombre por adoptar elementos renacentistas en todas sus partes y configurarse como un pequeño baldaquino soportado por astil y pie. Las mejores piezas son la custodia del monasterio de Alaón , en Sopeira, obra del zaragozano Juan de Ansá en 1548; la de Villalengua , realizada por Jerónimo de la Mata , contratada en Calatayud en 1565 y vuelta a contratar en Zaragoza en 1566; la de la catedral de Teruel , algo más rica y obra de taller turolense; la de Luna , realizada en el último tercio del siglo XVI en Zaragoza.
La más importante custodia de asiento aragonesa, y una de las obras capitales de toda la platería , es la gran custodia de La Seo , obra del famoso Pedro Lamaison entre 1537-41; consta de cinco cuerpos, en los que se cuidaron hasta la exquisitez los detalles, tanto en el diseño y proporciones como en el acabado. El archivo del Pilar guarda un diseño de custodia fechado en 1555 por Miguel Sánchez.
Otra custodia de asiento es la de San Felipe de Zaragoza, obra realizada entre 1586 y 1600, que consta de un basamento y tres pisos, y sigue, en sus proporciones armónicas, la más frecuente en la época, sesquiáltera (5/3), que sin embargo era totalmente extraña en este tipo de piezas; de toda su ornamentación destacan las figuras fundidas y los relieves del basamento. También la custodia de la catedral de Huesca, realizada por el platero de Pamplona, José Velázquez Medrano, entre 1596 y 1601; con cuatro pisos, maravilla por su correcta arquitectura, su carencia ornamental, y un perfecto estudio del diseño que la hace una de las piezas más estimables dentro de la austera moda de finales del siglo XVI. Del mismo platero es el templete o andas para la custodia de la catedral de Tarazona realizado en 1595; es una construcción a modo de baldaquino de planta cuadrada con esquinas achaflanadas de orden toscano, cubierto con cúpula y frontones curvos partidos; además de su arquitectura, lo que verdaderamente admira es la perfección y gracia escultórica en sus figuras, y sobre todo en los relieves de temas eucarísticos, tomados de Biblias italianas de la época.
En el siglo XVII y XVIII escasean las custodias de asiento; la de la catedral de Jaca está fechada en 1645; la de la iglesia de San Pablo de Zaragoza, muy airosa, en su parte primitiva fue realizada en la primera mitad del siglo XVII, y a principios del siglo XVIII se le hizo un cuerpo inferior con cuidado de no alterar el sistema proporcional y el diseño de conjunto. En la custodia mayor de la catedral de Teruel se ha vuelto a la riqueza decorativa, pues fue realizada en 1742 por el platero cordobés Bernabé García de los Reyes.
A partir del siglo XVII, el tipo difundido es el de custodia sol, destacando por su especial belleza los de Embid de la Ribera , el de Aniñón de taller bilbilitano, ambos de primer tercio del siglo XVII. El de la iglesia de San Gil de Zaragoza, de taller local, en torno a 1700; la custodia de Ayerbe, realizada por Francisco Clúa en 1727. De gran riqueza de pedrería y fino trabajo es el viril de La Seo, obra de la primera mitad del siglo XVIII, cuya atribución al famoso platero Domingo Estrada es dudosa. La custodia de San Lorenzo de Huesca es obra napolitana fechada en 1733.
• Bibliog.: Gascón de Gotor, Anselmo: El Corpus Christi y las custodias procesionales de España; Barcelona, 1916. Tremps, Manuel: Las custodias españolas; Madrid, 1952.
Al encontrarse generalmente en la superficie de los terrenos, no cuentan con un contexto arqueológico claro, sin embargo, constituyen piezas de gran valor al ser representativas de grupos que poblaron distintas áreas de nuestro territorio entre el período Arcaico (8.000-5.000 años antes de Cristo) hasta la llegada de los españoles (1.536-1.600 años después de Cristo)
A pesar de estar presentes en gran abundancia a lo largo de todo el país, no se conocen muy bien sus usos e importancia para las poblaciones que habitaron el territorio, su principal característica es presentar un orificio central que le da la forma de una argolla de piedra, o más coloquialmente, de "picarón" o "rosca", lo que le otorga su carácter de artefacto multiuso, es decir, que servía para diferentes funciones.
Un probable uso podría haber sido de herramienta estilo martillo, mazo, herramienta para arar la tierra e incluso como arma de defensa a modo de garrote, ya que a través de su perforación se puede introducir un astil o mango, tal como muestra la ilustración.
En algunos estudios etno-arqueológicos se ha colocado una rama de árbol como mástil de madera en el orificio de la piedra horadada dejándola bajo las aguas de un río por uno o dos meses, durante ese período la madera desarrolla nudos que la afirman naturalmente a la piedra, esto podría corresponder a una de las formas cómo se fabricaban las herramientas con las piedras horadadas y nos muestra la maestría con que nuestros antepasados trabajaron la piedra y entendían el uso armónico con su entorno.
Los indígenas mapuche, muy posteriores a la Cultura de las Piedras Horadadas que las encontraban también en sus territorios, las empleaban como armas, amarrándolas a tiras de soga o cuero para emplearlas como boleadoras.
Diego de Rosales las vio siendo usadas como armas, según lo que anota en su "Historia de Chile. Flandes Indiano", hacia 1655:
"Sin esto llevan a la guerra pedreros que van de vanguardia, y unos que llevan algunos garrotillos arrojadizos, que unos y otros sirven de desbaratar la caballería. Otros usan de unas bolas de piedra atadas con nervios, que tirándolas traban un caballo o un hombre, que no se puede menear".
Criss Salazar nos contó que también las emplearon los indígenas posteriores para ritos mágicos, llamándolas “katarkuras” o "catancuras" en mapudungún, aunque el uso que le asignaron no era necesariamente el mismo para el que fueron creadas, se entiende. Aún constituyendo una de las piezas arqueológicas más abundantes y comunes especialmente en la Zona Central de Chile, nadie tiene certeza sobre cuál era su utilidad ni por qué los antiguos habitantes del territorio las fabricaban casi en serie, en una activa industria lítica prehistórica. Se estima que fueron confeccionadas entre 3000 a 10000 años antes de Cristo.
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Para Caminantek, porque no podía publicar unos poemas de Yves Bonnefoy sin dedicártelos...
Gracias por descubrírmelo!
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Temprano, esta mañana, la primera nevada. El ocre, el verde
Se refugian debajo de los árboles.
La segunda, a las doce. Del color
sólo quedan
Las agujas de pino
Que caen, también ellas, más tupidas a ratos que la nieve.
Luego, de atardecida,
El astil de la luz se inmoviliza,
Las sombras y los sueños tienen el mismo peso.
Sólo un poco de viento
Escribe una palabra con la punta del pie
Fuera del mundo.
Yves Bonnefoy
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Prémiere neige tôt ce matin. L'ocre, le vert
Se réfugient sous les arbres.
Seconde, vers midi. Ne demeure
De la couleur
Que les aiguilles de pins
Qui tombent elles aussi plus dru parfois que la neige.
Puis, vers le soir,
Le fléau de la lumière s'immobilise.
Les ombres et les rêves ont même poids.
Un peau de vent
Écrit du bout du piel un mot hors du monde.
Yves Bonnefoy
La cabecera está compuesta por tres ábsides de testero plano, el central más alto y saliente. Cada uno presenta una ventana con arquivoltas y columnas, la de la capilla Mayor de vano más desarrollado, tiene dos arquivoltas molduradas con bocel que apean sobre sendos pares de columnas, al tiempo que está protegida por una reja del siglo XIII formada por astil vertical y dobles espirales. Las ventanas de las capillas laterales son de vano menor y un arco de medio punto sostenido por una sola columna a cada lado, con capiteles vegetales.
La iglesia de Santiago del Burgo de Zamora se construyó a extramuros del primer recinto, en el nuevo burgo ya rodeado por la segunda muralla, desde la segunda mitad del siglo XII hasta principios del siglo XIII. Es la iglesia románica mejor conservada de la ciudad. Tiene tres naves de cuatro tramos, la central más ancha y más alta, con cabecera formada por ábsides de planta rectangular, sin transepto, con una torre cuadrangular situada en el ángulo suroeste, y con tres portadas sencillas y de gran belleza. Los dos últimos tramos de la nave central se cubren con bóvedas de cañón, mientas que las de los dos primeros tramos y el presbiterio son de crucería (reconstruidas después del derrumbe de 1819) y las de las naves laterales son de bóveda de arista.
Más fotografías en el álbum Santiago del Burgo, Zamora
175209
Astil & Jordan of Ratby KCH 133, a Weymann bodied Leyland PD2/12 ex Trent at St Margarets bus station, Leicester 10/4/69
Esta foto participó en el juego En otro lugar de Flickr.
La iglesia dedicada a los Santos Justo y Pastor, martirizados en Alcalá de Henares y cuyos restos fueron trasladados a Huesca por San Úrbez; primero al lugar de Nocito (monasterio de San Úrbez) y luego a San Pedro el Viejo de Huesca, donde permanecen.
La iglesia de los Santos Justo y Pastor no hubiera pasado de ser un pequeño templo de arrabal, funcional y recoleto para uso de la comunidad de pañeros del barrio en que asentó.
La diferencia, son sus maravillosas y bien conservadas pinturas del último tercio del siglo XII. A causa de su abandono se hundió parte de su bóveda de yeso quedando a la vista una parte de las pinturas que su cabecera atesoraba. Una adecuada recuperación y restauración permite contemplar uno de los conjuntos románicos mejor conservados de España.
Antes de edificarse este templo, en el lugar había una modesta ermita en la que se albergaba el Cristo de los Gascones, actualmente ubicado en una capilla barroca adosada al lado norte del templo en el siglo XVII. Una pequeña portadita decorada con un magnífico tímpano permite el paso a la base de la torre, en cuyo espacio se veneraba el mencionado Cristo antes de la edificación de la capilla barroca.
El acceso a la capilla bajo la torre se decora con un tímpano ricamente decorado. Al igual que sucedió con las pinturas ocultas del ábside, este tímpano se hallaba tapiado junto con la portada. Al recuperarlo, surgió una escultura cuidadosa, detallista y adornada de buenos restos de su policromía original.
Bajo un guardapolvo de ajedrezado jaqués, lo enmarca una arquivolta dovelada de medio punto compuesta por nueve dovelas decoradas con motivos vegetales y geométricos. La dovela clave muestra una cabeza de fiera de la que surgen tallos vegetales de boca y orejas.
En el tímpano, comenzando por nuestra izquierda hallamos a un mitrado sentado en su cátedra de la que asoman las fieras que rematan sus extremos. Luego, tres figuras femeninas portando redomas, las dos primeras con idéntica vestimenta. a nuestra derecha, la tercera es diferente y se distingue de las otras por su tocado: luce una corona diademada y flordelisada y porta vestidura de mayor lujo. A la derecha de ella, hay un ángel turiferario pelirrojo con las alas explayadas incensando a una estructura que se alza sobre doble vano geminados de doble punto. Se compone de altar oculto y decorado por mantel delicadamente esculpido sobre el que se alza un vano cubierto por arco de herradura que proteje una cruz de brazos iguales alzada sobre astil.
El simbolismo de este tímpano desata todavía controversias. Sin duda muestra una exaltación del símbolo de la Cruz; pero el momento que describe se presta a interpretaciones. La más repetida apunta hacia Santa Elena, madre del emperador Constantino acompañada de dos mujeres en el momento de descubrir la Vera Cruz de Cristo. El mitrado sería el obispo Macario de Jerusalén. Otras opiniones apuntan hacia el episodio de las tres Marías ante el sepulcro de Cristo, opinión reforzada en que esa puerta daba paso a la capilla bajo la torre donde se guardaba la imagen articulada del Cristo de los Gascones.
«Hermoso tronco»
Jiří Orten
Hermoso tronco,
talado en el albor,
entre astil y viento
tu voz prosigue
en el silbido del zorzal
y viajan las nubes todavía
sobre las alambradas
como gasas de oro,
cuidosos paños
para la nieve dura
del corazón humano.
Abracémonos
en lo invisible,
estrechemos los lazos
inmarcesibles del poema,
que a nada ajenos somos
aunque la nada
semeje nuestra calma:
amor que permanece
son tu canto y el mío,
y sé que no estás vivo
ni estoy viva.
Clara Janés
Foto por Cortesia de José Prieto
La Iglesia de Santa María de la Asunción de Guadalcanal responde en parte a la corriente mudéjar propia de la época de su construcción y a la tendencia que se siguió en esta zona de la Sierra Norte sevillana, en la que el gótico de los vencedores y el almohade de los vencidos se unieron dando lugar a nuevas fórmulas arquitectónicas.
Se trata de un templo de planta basilical y tres naves, que primitivamente estuvieron cubiertas con armadura de madera, siendo la central de cabecera poligonal y las laterales de cabeceras planas, en cuya parte superior una de ellas conserva un óculo de cinco lóbulos.
La iglesia se levanta sobre parte de la antigua muralla defensiva de la población, y de ahí la extraña orientación de su fachada Norte, y el arco de herradura que describe la puerta de la Sacristía.
En su interior presenta arcos transversales, siendo apuntados los del centro, descansando éstos sobre pilares cruciformes, que, salvo el alicatado de la parte inferior, no ha sufrido modificación alguna. Como suele ocurrir en las iglesias gótico-mudéjares de la zona, es en el presbiterio donde predomina el estilo gótico, pues se cubre con bóveda de crucería octogonal u ochavada, con un tramo previo sexpartito mediante un nervio central en espinazo decorado con dientes de sierra.
Pertenecen también, a este período constructivo los capiteles de los baquetones en forma de tronco de pirámide invertida con figuras de gran tosquedad; un decorado de estrellas próximo a la escalera del coro y algunos ventanales, destacando el que se encuentra oculto por el Retablo Mayor y el que hay al lado de la Epístola, formado por un óculo central y dos arcos unidos por un parteluz.
La iglesia estuvo en un principio aislada y no adosada a la manzana, como hoy se encuentra; así lo demuestran unas pequeñas ventanas con arcos de herradura que advertimos en dependencias del lado de la Epístola y que debieron corresponder a la fachada Sur. Una interesante portada, de espléndida composición, en la que persisten numerosos elementos del goticismo decadente, da acceso a este templo. Muy importante es también su torre, de base rectangular, alta y robusta, que se sitúa a los pies de la nave izquierda, levantándose sobre la primitiva muralla almohade.
La pila bautismal es mudéjar, con decoración de arcos de herradura apuntados, del siglo XIV.
A principio del siglo XVI se levanta el frontal del altar mayor, a base de azulejos de cuenca del tipo de bordados y reflejos dorados y azules. De traza gótica son la bóveda y la reja de la Capilla del Sagrario. Poco después se realizan la bóveda rebajada y casetonada de la Capilla del Cristo Amarrado y la oval del testero de La Milagrosa, ambas renacentistas. De la misma época y estilo son las rejas que comunican estas capillas con el presbiterio, compuestas por dos cuerpos de balaustres y barrotes entorchados con rica crestería y cruz; ángeles, grifos y otros elementos decorativos, semejantes a los que separan ambas naves colaterales y a la que -aunque algo más simplificada- se halla en la Capilla de Nuestro Padre Jesús Nazareno.
En el lado de la Epístola de la capilla mayor existe una puerta que sale a la sacristía rematada por un frontón semicircular, en cuyo friso una inscripción nos informa que "ESTA SACRISTÍA SE HIZO SIENDO MAYORDOMO FRANCISCO XIMENEZ SOTOMAYOR, REGIDOR PERPETUO. LA GLORIA SEA A DIOS". Y en la misma época se ejecutó asimismo el frontal del lado opuesto de este altar, a base de azulejos planos con motivos florales, en cuyo centro se halla una gran cartera con un escudo cardenalicio.
Uno de los más remotos vestigios sepulcrales se encuentra en el muro de la nave del Evangelio, junto a la verja de la Capilla de La Milagrosa, consistente en una lápida de caracteres monacales y cenefa gótica, que reza:
AQI JAZ LOURENÇO MORIS CLERICO SERVUS D DIOS NATURAL DE ESENABRIA E FINO EL POSTREMERO DIA DE N OVEMBRO E DE MCCC VI ANNOS REQISCAT I PACE
El único resto romano de que se tiene constancia en la población se halla a la entrada de este templo. Se trata de un capitel compuesto, de mármol blanco, ahuecado para servir de pila de agua bendita.
Entre sus bienes muebles, existen numerosos elementos de orfebrería de valor en esta iglesia, como son:
* Un ostensorio de plata dorada y cincelada, formado por una base lobulada decorada con relieves de bustos de guerreros que soportan un templete de dos cuerpos, fechable en el último tercio del siglo XVI.
* Ostensorio de plata repujada y dorada, de estilo imperio, fechable hacia 1800.
* Cruz parroquial de plata cincelada y dorada. Nudo de forma arquitectónica decorado con figuras de los evangelistas y en la cruz relieves de la Asunción de la Virgen, San Pedro, San Pablo, Santa Catalina, San Lorenzo, Santiago y María Magdalena. Es fechable hacia 1600.
* Copón de plata dorada con decoración de gallones y punteado en la copa de temas vegetales, del primer cuarto de siglo XVII.
* Copón de plata dorada con gallones y astil torneado del siglo XVIII. Lleva el punzón de la ciudad de México.
* Hostiario de plata en forma de caja circular cubierta por tapa cónica de gallones, decorado con una inscripción en caracteres góticos que dice "Pange Lingua" y una banda calada gótica en la base. Fechable en el segundo cuarto del siglo XVI.
* Cáliz de plata cincelada y dorada con decoración manierista de cintas planas, carteras y querubes, del último cuarto del siglo XVI.
* Cáliz de plata lisa fechable en la primera mitad del siglo XVII.
* Cáliz de plata repujada y dorada con decoración de fines del rococó, de hacia 1800, con los punzones Luque/Martínez y la marca de Córdoba.
* Portapaz de metal dorado con un relieve de la Resurrección. Fechable hacia 1600.
* Dos navetas de plata repujada con decoración de estilo imperio de principios del siglo XIX, con la marca de Sevilla y el punzón de Flores.
* Naveta de plata repujada con decoración de fines del rococó, fechable en los últimos años del siglo XVIII.
* Vaso de óleos de plata grabada con decoración de cintas planas y carteras, fechable a finales del siglo XVI. Crismeras de plata lisa, de principios del siglo XVII.
* Lámpara de plata repujada de estilo imperio, de principios del siglo XIX.
* Incensario de plata repujada de estilo imperio, de hacia 1800.
* Dos ciriales de plata de principios del siglo XIX.
Esta iglesia de Santa María la Mayor o de la Asunción es Filial Perpetua de la Basílica Patriarcal Liberiana de Roma.
La chiesa di San Nicolao è il monumento in stile romanico più importante del Canton Ticino. L'edificazione della chiesa con un monastero benedettino soppresso nel secolo XV era già attestata nel 1202 (stante quanto si legge in una pergamena proveniente della Parrocchia di Chironico) e fu completata nel 1210. Nel 1298 la chiesa viene menzionata come pertinenza dell'ordine benedettino, dipendente direttamente dalla potente Abbazia di Fruttuaria, nel territorio di San Benigno Canavese. È molto verosimile dunque che essa fungesse da chiesa di un attiguo convento del quale non rimane oggi alcuna traccia.
Già al momento della visita pastorale di san Carlo Borromeo nel 1570, del cenobio non si sapeva più di quanto venisse tramandato dalla voce popolare. L'edificio è databile al secondo decennio del secolo XII. Negli anni 1940-1945 fu eseguito un restauro diretto da Paolo Mariotta (1905-1971), nel corso del quale furono in particolare cancellati gli affreschi del 1587 nella cripta, demolito il soffitto ligneo piano del secolo XVIII, tamponata l'apertura settecentesca in facciata.
La Chiesa di San Nicolao
Si presenta come un edificio rettangolare in conci di granito regolarmente e accuratamente disposti, concluso da un coro quadrato e da un'abside semicircolare. Lo stile architettonico della chiesa, a navata unica, interpreta fedelmente i canoni del romanico lombardo.
La facciata, divisa in tre assi, presenta la tipica forma a capanna, con due alte lesene, unite in alto da arcate cieche binate, che inquadrano il portale ed archetti pensili che danno slancio all'edificio; il timpano presenta una bifora e una finestra cruciforme. Sulla facciata, il portale centrale è impreziosito da due leoni stilofori e da capitelli scolpiti.
Ambedue i portali ovest e sud hanno un architrave e archivolti graduati compresi in un arco cieco rialzato che a sud sviluppa un'edicola aggettante. In basso, sempre sulla facciata, trovano posto robuste sculture in pietra di forma zoomorfa e fantastica, tipici del gusto ispirato dai bestiari medievali .
Le decorazioni realizzate con conci di pietra che disegnano gli archetti pensili, corrono lungo tutta la chiesa, sulle pareti laterali e lungo l'abside semicircolare. Un secondo portale, che si apre nella parete sud, presenta anch'esso interessanti elementi scultorei, come le barbute teste virili ricavate nelle mensole decorative che sorreggono l'architrave. Nell'angolo nord-est della navata il campanile pensile della chiesa presenta, ai vari piani, la consueta successione di monofore nei primi due piani e bifore in quelli superiori ed è coperto da tetto a padiglione.
La cripta
L'interno della chiesa si presenta con un'unica navata, con soffitto del 1945 a capriate scoperte, che conduce al presbiterio posto in posizione alquanto sopraelevata, al quale si accede per mezzo di una settencentesca scala a due rampe (tracce dell'originale non sono state reperite durante il restauro). Al centro delle pareti laterali della navata sono visibili due semipilastri a sezione rettangolare che forse un tempo sostenevano un'arcata divisoria tra lo spazio dedicato ai fedeli e quello riservato ai monaci. L'aula presbiteriale ha forma quadrata e termina con l'abside semicircolare che prende luce da due monofore.
Al di sotto del presbiterio è subito visibile (stante una soluzione architettonica alquanto inconsueta nelle chiese romaniche) l'elegante cripta; ad essa si accede scendendo pochi gradini. È divisa in tre piccole navate mediante otto colonne e semicolonne addossate con capitelli riccamente scolpiti, tutti diversi tra loro, che ripropongono, nella varietà dei motivi vegetali, geometrici e zoomorfi (leoni, lepri, capre,...): la suggestione del simbolismo medievale.
Subito dopo l'ingresso, a sinistra, è posta una preziosa vasca battesimale romanica del XII secolo, proveniente dalla vicina chiesa parrocchiale di San Michele, usata a lungo come fontana nel villaggio. Si tratta di una vasca di inconsueta forma esagonale ricavata da un blocco unico di pietra, decorata con bassorilievi con simboli legati al sacramento del battesimo. Essa presenta colonnine variamente sagomate sugli spigoli e bassorilevi con animali simbolici sui quattro lati, una croce astile e nove rosette.
Gli affreschi dell'abside
La chiesa è ornata al suo interno da interessanti cicli di affreschi. Sulla parete sinistra della navata si trovano frammenti di dipinti romanici (XIII secolo(?) tra i quali è ancora ben riconoscibile una Ultima Cena.
Sulla parete sud: resti di una teoria di Santi di cui rimangono solo le figure di un monaco e di un Santo vescovo, e un San Cristoforo.
L'abside è interamente ricoperta da affreschi tardogotici datati (1478) e firmati da Nicolao da Seregno, artista soprattutto attivo nel Canton Ticino, che si attarda su un linguaggio pittorico ancora di gusto marcatamente gotico. Gli affreschi in questione hanno ritrovato piena leggibilità dopo un accurato restauro che ne ha restituito la brillantezza dei colori.
Iniziando dal catino absidale, troviamo il Cristo in maestà posto in una mandorla di luce ed attorniato dai simboli degli Evangelisti in Tetramorfo. Nella fascia inferiore troviamo la raffigurazione di una serie di Santi che dovevano essere particolarmente cari alla religiosità popolare. Da sinistra verso destra sono riconoscibili San Gottardo di Hildesheim Vescovo, San Vittore, San Pietro apostolo (ritratto come primo pontefice), San Nicola di Bari (con a fianco i tre bambini posti nella tinozza sulla quale il Santo compì il suo celebre miracolo); troviamo poi, dopo la monofora centrale, una Crocifissione con la Madonna e San Giovanni, e poi ancora, dopo una seconda monofora, le figure di Santa Margherita e Santa Maria Maddalena.
Colpisce l'attenzione, sopra la monofora centrale, un'inconsueta raffigurazione della Trinità. Si tratta dell'immagine iconografica del vultus trifrons o Trivultus (che si presenta come figura con tre teste e quattro soli occhi), immagine che fu in seguito - per la sua natura mostruosa - proibita dalla Chiesa.
Ai lati del coro troviamo altri affreschi eseguiti anch'essi da Nicolao da Seregno: una Natività sull'altare, un Santo Vescovo (verosimilmente San Nicola di Bari), una elegante Madonna in trono, e l'Agnello di Dio sulla volta del coro.
La Chiesa parrocchiale di Mutignano ha il raro privilegio di possedere un dipinto del '400 di eccezionale valore artistico,opera tra le piu' celebri del pittore Andrea De Litio,nativo di Lecce Marsicana o di Guardiagrele.Si tratta dello stesso ammirato autore degli affreschi della Cattedrale di Atri,del S.Sebastiano all'Isola del Gran Sasso e di alcuni magnifici affreschi della Collegiata di Guardiagrele. (da RASSEGNA ABRUZZESE N.,5-6 del 1899 Emile Bertaux).Il dipinto eseguito su tavola a forma di trittico,è diviso in tre settori rettangolari.Tutto il settore centrale è occupato dalla maestosa di S.Silvestro assiso in Trono con la mano destra alzata in atto di benedire,mentre con la sinistra sorregge la croce astile.I due settori laterali sono a loro volta suddivisi in due quadri ciascuno e rappresentano quattro noti episodi della vita di S.Silvestro primo Papa della Chiesa liberata da Costantino(314-335). Cominciando dal basso, abbiamo:
a destra: due episodi riguardanti l'Imperatore e sua madre Elena:
1 ) S.Silvestro battezza Costantino che viene liberato anche dalla lebbra;
2) S.Silvestro sostiene una disputa coi Rabbini ebrei sulla vera Religione.La disputa fu provocata da Elena,madre di Costantino,la quale,convinta e illuminata dal Santo Pontefice,abbraccio' il Cristianesimo e ando' in Oriente,dove ritrovo' la Croce di Cristo;
a sinistra: due miracoli con i quali Dio confermo' l'autorità di S.Silvestro:
1) Un toro ucciso per sfida a S.Silvestro,si drizza su gli arti anteriori richiamato nuovamente alla vita dal Santo Pontefice:.
2) Un terribile dragone che menava strage dappertutto,viene tranquillamente avvicinato dal Santo Pontefice che riesce a renderlo innocuo,legandone la prominente bocca vorace.
Questo dipinto del De Litio è ritenuto uno dei migliori quadri usciti dai pennelli del 400.A donarlo a Mutignano fu Andrea Matteo III Acquaviva che chiamo'(1450-1460) il De Litio a dipingere l'Abside della Cattedrale di Atri e contemporaneamente il S.Silvestro di Mutignano.
Nel 1776 le tavole di legno furono restaurate e la cornice completamente rinnovata,ma il dipinto non fu toccato.
Nel 1913 ,per disposizione ministeriale,il Pittore aretino Gualtieri De Bacci ne riparo' i difetti del tempo,ridonando ai colori originalità e freschezza,con maestria e competenza non comuni.
tratto da:
xoomer.virgilio.it/udgio/De Litio.htm
La chiesa di San Nicolao è il monumento in stile romanico più importante del Canton Ticino. L'edificazione della chiesa con un monastero benedettino soppresso nel secolo XV era già attestata nel 1202 (stante quanto si legge in una pergamena proveniente della Parrocchia di Chironico) e fu completata nel 1210. Nel 1298 la chiesa viene menzionata come pertinenza dell'ordine benedettino, dipendente direttamente dalla potente Abbazia di Fruttuaria, nel territorio di San Benigno Canavese. È molto verosimile dunque che essa fungesse da chiesa di un attiguo convento del quale non rimane oggi alcuna traccia.
Già al momento della visita pastorale di san Carlo Borromeo nel 1570, del cenobio non si sapeva più di quanto venisse tramandato dalla voce popolare. L'edificio è databile al secondo decennio del secolo XII. Negli anni 1940-1945 fu eseguito un restauro diretto da Paolo Mariotta (1905-1971), nel corso del quale furono in particolare cancellati gli affreschi del 1587 nella cripta, demolito il soffitto ligneo piano del secolo XVIII, tamponata l'apertura settecentesca in facciata.
La Chiesa di San Nicolao
Si presenta come un edificio rettangolare in conci di granito regolarmente e accuratamente disposti, concluso da un coro quadrato e da un'abside semicircolare. Lo stile architettonico della chiesa, a navata unica, interpreta fedelmente i canoni del romanico lombardo.
La facciata, divisa in tre assi, presenta la tipica forma a capanna, con due alte lesene, unite in alto da arcate cieche binate, che inquadrano il portale ed archetti pensili che danno slancio all'edificio; il timpano presenta una bifora e una finestra cruciforme. Sulla facciata, il portale centrale è impreziosito da due leoni stilofori e da capitelli scolpiti.
Ambedue i portali ovest e sud hanno un architrave e archivolti graduati compresi in un arco cieco rialzato che a sud sviluppa un'edicola aggettante. In basso, sempre sulla facciata, trovano posto robuste sculture in pietra di forma zoomorfa e fantastica, tipici del gusto ispirato dai bestiari medievali .
Le decorazioni realizzate con conci di pietra che disegnano gli archetti pensili, corrono lungo tutta la chiesa, sulle pareti laterali e lungo l'abside semicircolare. Un secondo portale, che si apre nella parete sud, presenta anch'esso interessanti elementi scultorei, come le barbute teste virili ricavate nelle mensole decorative che sorreggono l'architrave. Nell'angolo nord-est della navata il campanile pensile della chiesa presenta, ai vari piani, la consueta successione di monofore nei primi due piani e bifore in quelli superiori ed è coperto da tetto a padiglione.
La cripta
L'interno della chiesa si presenta con un'unica navata, con soffitto del 1945 a capriate scoperte, che conduce al presbiterio posto in posizione alquanto sopraelevata, al quale si accede per mezzo di una settencentesca scala a due rampe (tracce dell'originale non sono state reperite durante il restauro). Al centro delle pareti laterali della navata sono visibili due semipilastri a sezione rettangolare che forse un tempo sostenevano un'arcata divisoria tra lo spazio dedicato ai fedeli e quello riservato ai monaci. L'aula presbiteriale ha forma quadrata e termina con l'abside semicircolare che prende luce da due monofore.
Al di sotto del presbiterio è subito visibile (stante una soluzione architettonica alquanto inconsueta nelle chiese romaniche) l'elegante cripta; ad essa si accede scendendo pochi gradini. È divisa in tre piccole navate mediante otto colonne e semicolonne addossate con capitelli riccamente scolpiti, tutti diversi tra loro, che ripropongono, nella varietà dei motivi vegetali, geometrici e zoomorfi (leoni, lepri, capre,...): la suggestione del simbolismo medievale.
Subito dopo l'ingresso, a sinistra, è posta una preziosa vasca battesimale romanica del XII secolo, proveniente dalla vicina chiesa parrocchiale di San Michele, usata a lungo come fontana nel villaggio. Si tratta di una vasca di inconsueta forma esagonale ricavata da un blocco unico di pietra, decorata con bassorilievi con simboli legati al sacramento del battesimo. Essa presenta colonnine variamente sagomate sugli spigoli e bassorilevi con animali simbolici sui quattro lati, una croce astile e nove rosette.
Gli affreschi dell'abside
La chiesa è ornata al suo interno da interessanti cicli di affreschi. Sulla parete sinistra della navata si trovano frammenti di dipinti romanici (XIII secolo(?) tra i quali è ancora ben riconoscibile una Ultima Cena.
Sulla parete sud: resti di una teoria di Santi di cui rimangono solo le figure di un monaco e di un Santo vescovo, e un San Cristoforo.
L'abside è interamente ricoperta da affreschi tardogotici datati (1478) e firmati da Nicolao da Seregno, artista soprattutto attivo nel Canton Ticino, che si attarda su un linguaggio pittorico ancora di gusto marcatamente gotico. Gli affreschi in questione hanno ritrovato piena leggibilità dopo un accurato restauro che ne ha restituito la brillantezza dei colori.
Iniziando dal catino absidale, troviamo il Cristo in maestà posto in una mandorla di luce ed attorniato dai simboli degli Evangelisti in Tetramorfo. Nella fascia inferiore troviamo la raffigurazione di una serie di Santi che dovevano essere particolarmente cari alla religiosità popolare. Da sinistra verso destra sono riconoscibili San Gottardo di Hildesheim Vescovo, San Vittore, San Pietro apostolo (ritratto come primo pontefice), San Nicola di Bari (con a fianco i tre bambini posti nella tinozza sulla quale il Santo compì il suo celebre miracolo); troviamo poi, dopo la monofora centrale, una Crocifissione con la Madonna e San Giovanni, e poi ancora, dopo una seconda monofora, le figure di Santa Margherita e Santa Maria Maddalena.
Colpisce l'attenzione, sopra la monofora centrale, un'inconsueta raffigurazione della Trinità. Si tratta dell'immagine iconografica del vultus trifrons o Trivultus (che si presenta come figura con tre teste e quattro soli occhi), immagine che fu in seguito - per la sua natura mostruosa - proibita dalla Chiesa.
Ai lati del coro troviamo altri affreschi eseguiti anch'essi da Nicolao da Seregno: una Natività sull'altare, un Santo Vescovo (verosimilmente San Nicola di Bari), una elegante Madonna in trono, e l'Agnello di Dio sulla volta del coro.
POLITTICO DI VITTORE CRIVELLI
Il polittico di Vittore Crivelli fu commissionato dal Priore degli Agostiniani e realizzato per la chiesa di S. Agostino negli anni ottanta del Quattrocento; fino al 1900 fu attribuito al fratello Carlo e soltanto in seguito fu Rushforth a rivendicarne la paternità a Vittore. Esso è composto da 25 figure, 12 grandi e 13 piccole (nella predella) e realizzato con tecnica a tempera su tavole di olmo con gusto tardo-gotico e citazioni bizantine, sintomo dell’influsso subito dai Crivelli nel loro soggiorno a Zara, in Dalmazia; è di grandi dimensioni: m. 2,37 di altezza e m. 2,50 di larghezza. Il concetto guida dell’opera si espleta attraverso i molteplici tessuti simbolici: il peccato originale (la mela e la pera poste all’altezza della testa della Madonna) esige la Redenzione dell’umanità; Maria, strumento privo del peccato originale perché concepita Immacolata, dà alla luce il Redentore (Divino Bambino seduto sulle ginocchia nell’atto di impartire la trina benedizione) che salva l’umanità con la sua passione, morte e risurrezione (pannello centrale in alto sul tabernacolo). Il Cristo versa ancora dal costato del sangue, raccolto in basso a sinistra in un calice; alle sue spalle il cencio di porpora, simbolo di passione e cinto sulla vita il sudario del sepolcro, indice di risurrezione. Ai lati del pannello due angeli che annunziano all’umanità redenta l’avvenuta sconfitta della morte ad opera del Risorto. Nel registro inferiore, da sinistra verso destra, sono rappresentati i seguenti santi: S. Giovanni Battista, abbigliato in qualità di abitante del deserto e riconosciuto come Precursore dell’Unto (cartiglio che pende dalla croce astile con su scritto “Ecce Agnus Dei”; S. Pietro con le vesti di primo Pontefice e la tiara sul capo (cappello dei Pontefici oggi non più utilizzato); S. Paolo, Apostolo delle Genti e primo evangelizzatore (libro delle Scritture in mano), con la spada, segno tangibile del martirio subito per decapitazione; S. Agostino, Padre della Chiesa (col tempio in mano) e abbigliato come vescovo di Ippona (munito di mitria, pastorale e piviale) nonché come fondatore dell’Ordine Agostiniano (saio e bavero scuro). Nel registro superiore, da sinistra verso destra, sono invece effigiati, nell’ordine: S. Sebastiano, legato alla colonna e trafitto dalle frecce, martirizzato durante le persecuzioni dell’Imperatore Diocleziano; S. Girolamo, abbigliato con abiti cardinalizi, sebbene non fu mai cardinale ma semplice segretario di Papa Damaso (IV secolo), Dottore della Chiesa anch’egli (col tempio in mano come S. Agostino) e redattore della Vulgata (I edizione della Bibbia in latino, tradotta dal greco); S. Nicola da Tolentino, appartenente all’ordine degli Eremitani di S. Agostino, veste l’abito nero proprio dell’ordine, ha in una mano il libro della Regola e nell’altra il sole, simbolo legato ad una leggenda della vita del santo; S. Caterina d’Alessandria (II-III secolo) regge la palma, simbolo del martirio, e con l’altra mano la ruota dentata con la quale fu martirizzata. Nella predella, oggi mutila di quattro formelle, il Cristo Risorto, col vessillo crocifero, tra i Dodici Apostoli; le quattro formelle mancanti non furono mai ritrovate dopo il furto dell’intera opera avvenuto il 12 febbraio del 1972: il 12 marzo dello stesso anno, infatti, le restanti tavole furono fortunatamente ritrovate in una chiesa abbandonata, nei pressi del cimitero di Cupra Marittima, e grazie ad un attento restauro il polittico fu ricomposto.
La chiesa di San Nicolao è il monumento in stile romanico più importante del Canton Ticino. L'edificazione della chiesa con un monastero benedettino soppresso nel secolo XV era già attestata nel 1202 (stante quanto si legge in una pergamena proveniente della Parrocchia di Chironico) e fu completata nel 1210. Nel 1298 la chiesa viene menzionata come pertinenza dell'ordine benedettino, dipendente direttamente dalla potente Abbazia di Fruttuaria, nel territorio di San Benigno Canavese. È molto verosimile dunque che essa fungesse da chiesa di un attiguo convento del quale non rimane oggi alcuna traccia.
Già al momento della visita pastorale di san Carlo Borromeo nel 1570, del cenobio non si sapeva più di quanto venisse tramandato dalla voce popolare. L'edificio è databile al secondo decennio del secolo XII. Negli anni 1940-1945 fu eseguito un restauro diretto da Paolo Mariotta (1905-1971), nel corso del quale furono in particolare cancellati gli affreschi del 1587 nella cripta, demolito il soffitto ligneo piano del secolo XVIII, tamponata l'apertura settecentesca in facciata.
La Chiesa di San Nicolao
Si presenta come un edificio rettangolare in conci di granito regolarmente e accuratamente disposti, concluso da un coro quadrato e da un'abside semicircolare. Lo stile architettonico della chiesa, a navata unica, interpreta fedelmente i canoni del romanico lombardo.
La facciata, divisa in tre assi, presenta la tipica forma a capanna, con due alte lesene, unite in alto da arcate cieche binate, che inquadrano il portale ed archetti pensili che danno slancio all'edificio; il timpano presenta una bifora e una finestra cruciforme. Sulla facciata, il portale centrale è impreziosito da due leoni stilofori e da capitelli scolpiti.
Ambedue i portali ovest e sud hanno un architrave e archivolti graduati compresi in un arco cieco rialzato che a sud sviluppa un'edicola aggettante. In basso, sempre sulla facciata, trovano posto robuste sculture in pietra di forma zoomorfa e fantastica, tipici del gusto ispirato dai bestiari medievali .
Le decorazioni realizzate con conci di pietra che disegnano gli archetti pensili, corrono lungo tutta la chiesa, sulle pareti laterali e lungo l'abside semicircolare. Un secondo portale, che si apre nella parete sud, presenta anch'esso interessanti elementi scultorei, come le barbute teste virili ricavate nelle mensole decorative che sorreggono l'architrave. Nell'angolo nord-est della navata il campanile pensile della chiesa presenta, ai vari piani, la consueta successione di monofore nei primi due piani e bifore in quelli superiori ed è coperto da tetto a padiglione.
La cripta
L'interno della chiesa si presenta con un'unica navata, con soffitto del 1945 a capriate scoperte, che conduce al presbiterio posto in posizione alquanto sopraelevata, al quale si accede per mezzo di una settencentesca scala a due rampe (tracce dell'originale non sono state reperite durante il restauro). Al centro delle pareti laterali della navata sono visibili due semipilastri a sezione rettangolare che forse un tempo sostenevano un'arcata divisoria tra lo spazio dedicato ai fedeli e quello riservato ai monaci. L'aula presbiteriale ha forma quadrata e termina con l'abside semicircolare che prende luce da due monofore.
Al di sotto del presbiterio è subito visibile (stante una soluzione architettonica alquanto inconsueta nelle chiese romaniche) l'elegante cripta; ad essa si accede scendendo pochi gradini. È divisa in tre piccole navate mediante otto colonne e semicolonne addossate con capitelli riccamente scolpiti, tutti diversi tra loro, che ripropongono, nella varietà dei motivi vegetali, geometrici e zoomorfi (leoni, lepri, capre,...): la suggestione del simbolismo medievale.
Subito dopo l'ingresso, a sinistra, è posta una preziosa vasca battesimale romanica del XII secolo, proveniente dalla vicina chiesa parrocchiale di San Michele, usata a lungo come fontana nel villaggio. Si tratta di una vasca di inconsueta forma esagonale ricavata da un blocco unico di pietra, decorata con bassorilievi con simboli legati al sacramento del battesimo. Essa presenta colonnine variamente sagomate sugli spigoli e bassorilevi con animali simbolici sui quattro lati, una croce astile e nove rosette.
Gli affreschi dell'abside
La chiesa è ornata al suo interno da interessanti cicli di affreschi. Sulla parete sinistra della navata si trovano frammenti di dipinti romanici (XIII secolo(?) tra i quali è ancora ben riconoscibile una Ultima Cena.
Sulla parete sud: resti di una teoria di Santi di cui rimangono solo le figure di un monaco e di un Santo vescovo, e un San Cristoforo.
L'abside è interamente ricoperta da affreschi tardogotici datati (1478) e firmati da Nicolao da Seregno, artista soprattutto attivo nel Canton Ticino, che si attarda su un linguaggio pittorico ancora di gusto marcatamente gotico. Gli affreschi in questione hanno ritrovato piena leggibilità dopo un accurato restauro che ne ha restituito la brillantezza dei colori.
Iniziando dal catino absidale, troviamo il Cristo in maestà posto in una mandorla di luce ed attorniato dai simboli degli Evangelisti in Tetramorfo. Nella fascia inferiore troviamo la raffigurazione di una serie di Santi che dovevano essere particolarmente cari alla religiosità popolare. Da sinistra verso destra sono riconoscibili San Gottardo di Hildesheim Vescovo, San Vittore, San Pietro apostolo (ritratto come primo pontefice), San Nicola di Bari (con a fianco i tre bambini posti nella tinozza sulla quale il Santo compì il suo celebre miracolo); troviamo poi, dopo la monofora centrale, una Crocifissione con la Madonna e San Giovanni, e poi ancora, dopo una seconda monofora, le figure di Santa Margherita e Santa Maria Maddalena.
Colpisce l'attenzione, sopra la monofora centrale, un'inconsueta raffigurazione della Trinità. Si tratta dell'immagine iconografica del vultus trifrons o Trivultus (che si presenta come figura con tre teste e quattro soli occhi), immagine che fu in seguito - per la sua natura mostruosa - proibita dalla Chiesa.
Ai lati del coro troviamo altri affreschi eseguiti anch'essi da Nicolao da Seregno: una Natività sull'altare, un Santo Vescovo (verosimilmente San Nicola di Bari), una elegante Madonna in trono, e l'Agnello di Dio sulla volta del coro.
POLITTICO DI VITTORE CRIVELLI
Il polittico di Vittore Crivelli fu commissionato dal Priore degli Agostiniani e realizzato per la chiesa di S. Agostino negli anni ottanta del Quattrocento; fino al 1900 fu attribuito al fratello Carlo e soltanto in seguito fu Rushforth a rivendicarne la paternità a Vittore. Esso è composto da 25 figure, 12 grandi e 13 piccole (nella predella) e realizzato con tecnica a tempera su tavole di olmo con gusto tardo-gotico e citazioni bizantine, sintomo dell’influsso subito dai Crivelli nel loro soggiorno a Zara, in Dalmazia; è di grandi dimensioni: m. 2,37 di altezza e m. 2,50 di larghezza. Il concetto guida dell’opera si espleta attraverso i molteplici tessuti simbolici: il peccato originale (la mela e la pera poste all’altezza della testa della Madonna) esige la Redenzione dell’umanità; Maria, strumento privo del peccato originale perché concepita Immacolata, dà alla luce il Redentore (Divino Bambino seduto sulle ginocchia nell’atto di impartire la trina benedizione) che salva l’umanità con la sua passione, morte e risurrezione (pannello centrale in alto sul tabernacolo). Il Cristo versa ancora dal costato del sangue, raccolto in basso a sinistra in un calice; alle sue spalle il cencio di porpora, simbolo di passione e cinto sulla vita il sudario del sepolcro, indice di risurrezione. Ai lati del pannello due angeli che annunziano all’umanità redenta l’avvenuta sconfitta della morte ad opera del Risorto. Nel registro inferiore, da sinistra verso destra, sono rappresentati i seguenti santi: S. Giovanni Battista, abbigliato in qualità di abitante del deserto e riconosciuto come Precursore dell’Unto (cartiglio che pende dalla croce astile con su scritto “Ecce Agnus Dei”; S. Pietro con le vesti di primo Pontefice e la tiara sul capo (cappello dei Pontefici oggi non più utilizzato); S. Paolo, Apostolo delle Genti e primo evangelizzatore (libro delle Scritture in mano), con la spada, segno tangibile del martirio subito per decapitazione; S. Agostino, Padre della Chiesa (col tempio in mano) e abbigliato come vescovo di Ippona (munito di mitria, pastorale e piviale) nonché come fondatore dell’Ordine Agostiniano (saio e bavero scuro). Nel registro superiore, da sinistra verso destra, sono invece effigiati, nell’ordine: S. Sebastiano, legato alla colonna e trafitto dalle frecce, martirizzato durante le persecuzioni dell’Imperatore Diocleziano; S. Girolamo, abbigliato con abiti cardinalizi, sebbene non fu mai cardinale ma semplice segretario di Papa Damaso (IV secolo), Dottore della Chiesa anch’egli (col tempio in mano come S. Agostino) e redattore della Vulgata (I edizione della Bibbia in latino, tradotta dal greco); S. Nicola da Tolentino, appartenente all’ordine degli Eremitani di S. Agostino, veste l’abito nero proprio dell’ordine, ha in una mano il libro della Regola e nell’altra il sole, simbolo legato ad una leggenda della vita del santo; S. Caterina d’Alessandria (II-III secolo) regge la palma, simbolo del martirio, e con l’altra mano la ruota dentata con la quale fu martirizzata. Nella predella, oggi mutila di quattro formelle, il Cristo Risorto, col vessillo crocifero, tra i Dodici Apostoli; le quattro formelle mancanti non furono mai ritrovate dopo il furto dell’intera opera avvenuto il 12 febbraio del 1972: il 12 marzo dello stesso anno, infatti, le restanti tavole furono fortunatamente ritrovate in una chiesa abbandonata, nei pressi del cimitero di Cupra Marittima, e grazie ad un attento restauro il polittico fu ricomposto.
Una balanza granataria de dos platillos que, basada en el mecanismo de Roverbal, se utilizaba para medir masas por comparación de patrones de peso conocido. La disposición de los astiles hacía que no influyese de manera significativa la disposición en los platillos ni de los patrones ni de los reactivos u objetos a pesar.
Era un accesorio imprescindible en tiempos cuando el fotógrafo no solo debía saber de composición y enfoque sino que debía tener conocimientos de química para hacer mezclas apropiadas.
En el centro y debajo del fiel se puede ver una placa de acero con el antiguo logotipo "EKC" ( Eastman Kodak Company) y, sobre la base, en su parte anterior, dispone de unos orificios para conservar en orden las 6 pesas o patrones grabados con sus respectivas escalas que van, desde los 50 grains hasta 2 onzas (64,7 mg a 56,7 g)..
Las balanzas de Kodak estaban hechas con acero inoxidable y una base de genuina madera de caoba. Las mantuvo en el mercado desde aproximadamente 1910 hasta algo después de terminada la Segunda Guerra Mundial cuando su demanda en el ámbito fotográfico bajo sensiblemente.
ASTIL & JORDEN, RATBY
Seen in the old St. Margaret's Bus Station, 82 HBC, is a Leyland Titan PD3A/1 with East Lancs H41/33R, body.
It was new to Leicester City Transport, in March, 1964, and acquired from them, earlier in the year.
Ávila - Navarredonda de Gredos - Iglesia de Nuestra Señora de la Asunción
www.navarredondadegredos.net/iglesianava.html
Templo del Siglo XVI, es obra del gótico tardío con fábrica de sillería. En el lienzo sur, enlucido, se abre una puerta de arco de medio punto, retraída respecto a un pequeño atrio encuadrado por dos machones y cubierta de doble vertiente.
La cabecera es poligonal, de cinco lados con grandes contrafuertes, típicos del gótico final.
En el lienzo norte, el templo esta unido a una cerca de piedra. Por último, a los pies, en el lado meridional, se yergue la torre-campanario, compuesto por dos cuerpos de sillería y con ocho vanos en el superior. Al campanario se accede por una puerta, desde el exterior de la iglesia, pues la torre es exenta, aunque luego se haya unido a la iglesia mediante un muro que se pretende derribar en la actualidad.
El templo consta de tres naves, marcadas en el exterior. Los formeros, de medio punto, se apoyan sobre grandes columnas tipo toscano. El arco de triunfo, por su parte, apoya sobre semicolumnas de la misma tipología que las columnas de las naves.
El presbiterio se cubre con bóveda gótica de combados, mientras la nave central luce un alfarje nuevo con somera decoración de gramiles en las jácenas, geométrica en los tirantes, canes y arrocabe. Data de los '80 según restauración de Gerardo Luciano; las naves laterales, en cambio, se cubren con armadura de ladrillo encalado y vigas de hierro.
A los pies de la iglesia se alza un coro de madera, sobre tres columnas rústicas tipo jónico. Con remate de balaustrada sobre canes lobulados, la decoración se reduce a motivos geométricos en el frente.
En el extremo derecho del coro se encuentra el baptisterio, cubierto con el alfarje que forma el sotocoro.
Una pequeña puerta abierta en el lado de la epístola, da acceso a la sacristía, cubierta con bóveda muy rebajada.
Por último, una mención a una imposta de madera dorada que recorre el presbiterio a gran altura, con decoración muy barroca del S. XVII.Capítulo aparte son las lápidas que se encuentran en el interior de la iglesia. En el presbiterio se conserva una lápida casi ilegible, en la que aparece un escudo, una pequeña inscripción "ION FDZ CORANZ", y la sol y la luna.
En la nave hay un buen número de lápidas. Dos de ellas son casi idénticas, con el mismo motivo de crátera con ramos, y bajo ellas, una corona, ambas se enmarcan con cinta sogueada.
Una cuarta lápida, también en la nave, presenta una inscripción que dice "ES DE DON JULIO HERNANDEZ CARRETERO Y DE SUS HERMANOS"; bajo esta inscripción aparece el motivo decorativo de una doble voluta.
ESCULTURA
Presbiterio
En el presbiterio, adaptado a la forma poligonal del testero, hay un retablo del siglo XVII, compuesto por dos cuerpos y ático, todo en tres calles, separadas entre sí por pares de columnas corintias, además de las columnas, también entorchadas de los extremos. Los cuerpos se separan mediante bandas de decoración floral tallada policromada.
En el centro del retablo, un tabernáculo en madera dorada, con abundante decoración a base de querubines, alerones, rocallas y pequeñas columnas corintias que enmarcan el Sagrario propiamente dicho. Este luce cristalera entre retícula de madera dorada.
A la izquierda, se sitúa una talla estofada y policromada de La Inmaculada según el tipo iconográfico corriente, le cobija una hornacina avenerada con decoración vegetal y fondo de pintura.
En la calle derecha de este primer cuerpo hay una talla de un santo no identificado.En el segundo cuerpo, en la calle derecha se representa a Sta. Teresa de Jesús con un libro y un águila, en una talla policromada.
En el centro aparece la talla de la Asunción. Representa a la Virgen sobre media luna con los brazos abierto sobre cabezas de querubines.
A la izquierda, San Juan Bautista con sus atributos iconográficos característicos. Y en el ático, Santiago sobre el caballo blanco, el Crucificado rematado por un frontón con el busto del Padre Eterno; y San Miguel de guerrero, matando a un demonio, de derecha a izquierda.
El frontal del retablo es de madera dorada y decorado con el sol, la luna y pájaros que picotean racimos.Junto al altar hay un cirial de madera con base triangular y ástil anillado con nudo de formas vegetales.
NAVE EPISTOLA
En el frontispicio de la nave hay un retablo del siglo XVII, en madera dorada deteriorado. Es de un sólo cuerpo de tres calles y remate a modo de entablamento con roleos policromados en el friso, las columnas que separan las naves son corintias y con el fuste entorchado en el tercio inferior.
En la calle central del retablo, cobijada en una hornacina con fondo de pintura, hay una peana de madera dorada y policromada escalonada, y decorada con angelitos y hojarasca conforme al estilo barroco. El Cristo crucificado que ocuparía esta hornacina se encuentra en la actualidad en el Albergue Aidamar.
Las calles laterales del retablo, muy'estrechas, se decoran con pintura, pero están ocupadas igualmente por tallas de santos, así en la calle derecha se coloca la talla policromada barroca de San Sebastián dirigiendo su mirada hacia el cielo.. Y la calle izquierda luce la talla policromada y estofada de San Blas, también del siglo XVII.
Hay también en esta nave otro retablo, muy pequeño, en madera dorada y policromada del siglo XX. Lo preside la imagen de la Virgen del Carmen, coronada y con Niño, a su izquierda la imagen de Santa Rita, Y Santa Teresita del niño Jesús en la derecha, todas modernas.
Por último dos pilas de agua bendita, ambas en piedra con copa y pedículo circular sin labrar, se sitúan junto a sendos pilares de la nave y tienen uso en la actualidad.
NAVE EVANGELIO
Retablo del siglo XVII compuesto por un cuerpo de tres calles, separadas por columnas corintias, y ático, todo dorado. El ático se enmarca por columnas de capitel corintio y fuste entorchado, y/ se remata con frontón semicircular con relieve de Padre Eterno. Una inscripción en el mueble afirma cómo "SE RETOCO ESTE ALTAR SIENDO CURA EN EL AÑO 1901 ANTONIO DOMINGUEZ".
En la calle derecha se coloca la imagen de Santa Lucía, vestida de blanco y con sus atributos. La calle central la ocupa una imagen de vestir de la Virgen cobijada bajo hornacina avenerada. En la izquierda, por último, una talla barroca de San Antonio de Padua con el Niño vestido.
También en la nave del Evangelio, adosado al muro hay un retablo churrigueresco de madera dorada y policromada. Es de calle única entre pares de estípites y ático. Rica decoración de hojarasca recorre la mazonería del conjunto conforme al estilo del siglo XVIII. El Sagrario es de madera dorada y policromada con relieve central de la Virgen, enmarcada por dos columnas corintias propias del siglo XVII.Preside el retablo la talla barroca policromada de San Antón con bastón, libro abierto en la mano izquierda y cerdito a los pies.
El último retablo del Evangelio se situa en el frontispicio de la nave. Es también churrigueresco, del siglo XVIII, decorado profusamente con hojarasca, cortinas, angelitos y roleos. Está compuesto por un cuerpo único de tres calles y ático. La calle central está flanqueada por columnas de capitel corintio y fuste enguirnaldado, estipites son los soportes de los extremos, faltando uno, y del ático.
En la hornacina acasetonada de la calle de la derecha se coloca la talla policromada barroca de un santo franciscano sin atributos diferenciadores, En la calle del centro, presidiendo, una talla barroca policromada de Virgen con el Niño bendiciente, bajo hornacina avenerada; y en la calle izquierda santo dominico con el mismo físico que el franciscano, s6lo diferenciándoles por el color de las vestiduras y por los atributos. Un libro y un perrito a los pies lo identifican como Santo Tomás.El ático lo ocupa la talla barroca policromada de San Ramón Non Nato con custodia en la diestra y palma en la siniestra.
Sobre el frontal de altar de este retablo hay dos tallas de bulto redondo. La primera representa a San Pedro de Alcántara, policromado, con libro abierto en la mano izquierda y hábito. La otra talla es una Inmaculada, policromada y dorada, en actitud orante, sobre nube y cabezas de querubines.
El frontal del altar luce una magnífica decoración barroca a base de volutas, cabezas de angelitos, aves, hojarasca y medallones policromados.
Adosado al arco de triunfo de la cabecera, en el lado del Evangelio, se levanta un púlpito de piedra al que se accede por una escalera también de piedra con gran balaustrada. El cuerpo presenta tres bandas sogueadas con hendiduras entre ellas, mientras que el pedículo luce sogueado en las aristas y mensulón en la unión con el cuerpo.
PINTURA
NAVE EVANGELIO
El retablo de la Dolorosa de la nave luce siete tablas con pintura. En la parte inferior de la calle lateral derecha, se representa un santo de cuerpo entero dificil de distinguir, con vestimenta dominica y libro abierto en la mano izquierda responde a iconografía de Santo Tomás o Santo Domingo.Sobre esta tabla, otra de menores proporciones en la que se distingue un santo sedente con los brazos extendidos, dificil de identificar por el mal estado de conservación.
En la calle izquierda aparecen otras dos tablas en mejor estado de conservación. En la inferior, y de cuerpo entero, un santo escribiente, con libro abierto en la izquierda y pluma en la derecha, y junto a él arrodillado el donante con típico atavío del siglo XVII. Sobre ésta, otra en la que aparece el busto de un santo, probablemente San Francisco de Asis en el momento de la estigmación.
En el ático aparece una representación de la Sagrada Familia, María hilando, San José y el Niño en el taller de carpintería. A ambos lados de esta última tabla, en el espacio correspondiente a los aletones, hay sendas tablas totalmente perdidas, sólo en la de la derecha se aprecian restos de dos personajes.
El ático del retablo de San Antón se decora con pintura del siglo XVIII representando a María con el Niño. El Hijo bendice con la mano derecha, mientras con la siniestra sostiene un libro cerrado, está dentro de un modelo muy próximo a formas bizantinas de Theotokos, con nimbos luminosos dorados y cenefa dorada en la túnica.
NAVE EPISTOLA
El retablo del frontispicio de esta nave también cuenta con decoración de pintura. La hornacina central recibe pintura sobre tabla con las figuras de San Juan y la Virgen en composición de Calvario, muy deteriorado. Es pintura del siglo XVII se completaría con la talla de Cristo crucificado que hoy se guarda en el Albergue Aidamar.
Las calles laterales de este retablo son muy estrechas, y se decoran cada una de ellas con tres tablas. En la calle derecha, de abajo a arriba, encontramos en mal estado de conservación representación de la Oración en el huerto, el Prendimiento y un Ecce Homo. En la calle izquierda, también de abajo a arriba, se encuentran representados Cristo camino del Calvario y dos Ecce Homos de gran belleza sobre fondo oscuro.
SACRISTIA
Lienzo del siglo XVIII que representa a la Inmaculada. La Virgen aparece con la vestimenta habitual de este tipo iconográfico, blanco y azul, rodeada de querubines de cuerpo entero.
MOBILIARIO
Merecen atención las dos cancelas del templo, en madera tallada a base de casetones cuadrados y rectangulares alternativamente. presentan motivos decorativos de espirales inscritas en círculos o rombos y estrellas.
La otra obra de mobiliario es el confesionario, de madera y con motivos decorativos tallados unos y pintados otros, fundamentalmente vegetales de guirnaldas y capullos abiertos. La puerta tiene su parte inferior de perfil poligonal, mientras la superior forma una celosía con el motivo decorativo de abanico vegetal sobre ella.