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How sweet she looks in this one, doesn't she?

Taina was alive during the German administration of the Marshall Islands. She has the traditional Marshallese 'wot' around her neck. What's a 'wot'? It's the equivalent of the Hawaiian lei. It can be worn around the neck, or around the head. Flowers and leaf parts are woven together.

Firenze - stamani

he actually spends most of his life singing to rocks

경복궁, 서울

Hatsune Mikuo Shoot

Cosplayer: Sidarthur as Htasune Mikuo (Miku's male Version) from Vocaloid

Photography: Anna Calderon

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Lo sposalizio è stato il corpo e il pane della comunità. Il mattone fondante della comunità. Veniva consumato con il cibo e con la musica. Una specie di eucarestia in cui la nuova coppia veniva ingerita dalla comunità che gli si stringeva intorno avvolgendola di stelle filanti nell’ultimo, infinito ballo dei “ziti” (che così si chiamano tanto gli sposi quanto la pasta). La musica aumentava vorticosamente di ritmo fino ad assorbire la coppia che finiva per girare avvolta come uno spiedo in una girandola colorata di fili di carta. A quel punto era digerita e pronta per generare e rinnovare la comunità. Questa musica che accompagnava il rito era musica umile, da ballo, adatta ad alleggerire le cannazze di maccheroni e a “sponzare” le camicie bianche, che finivano madide e inzuppate, come i cristiani che le indossavano. Un repertorio di mazurke, polke, valzer, passo doppio, tango, tarantella, quadriglia e fox trot, che era in fondo comune nell’Italia degli anni ‘50, ‘60, e che si è codificato come una specie di classico del genere in un periodo nel quale lo “sposalizio” è stato la principale occasione di musica, incontro e ballo. Poi le tastiere elettroniche hanno preso il sopravvento e gli sposalizi sono diventati matrimoni. L’aria condizionata è entrata in un altro genere di ristorazioni in cui la musica è diventata una specie di dessert più parente del liscio che dell’epoca mitica dei mantici, dei violini e delle farfisa.

 

A Calitri, in alta Irpinia, negli anni in cui è esistita una comunità, che è poi finita frantumata nelle migrazioni che sono state il sangue vivo dello sviluppo, questa comunità si è rinnovata e celebrata in un luogo cardine del paese: la “casa dell’Eca”. Nei racconti della mia infanzia si è trasformata in “casa dell’Eco”. La casa dove nasceva l’eco. Eco della musica, degli schiamazzi, delle burle, delle feste, luogo del pantheon dei personaggi mitici che fanno una comunità in cui si viene ribattezzati e realmente ri-conosciuti, nel soprannome che la comunità stessa impone, in luogo della chiesa. Da qualche decennio la casa dell’Eco tace, e l’unico eco che si spande è quello dei racconti. Se ci si appendessero dentro le fotografie di tutte le coppie sarebbe un sacrario di guerra. Giovani con la divisa nuziale che andavano ad affrontare, sparacchiando, la vita, dopo la sparecchiatura dei tavoli della casa dell’Eca.

 

Qualche anno fa, un gruppo di anziani suonatori di quell’epoca aurea non priva di miseria, ha preso l’abitudine di ritrovarsi davanti alla posta nel pomeriggio assolato. Avevano l’aria di vecchi pistoleri in paglietta. A domandargli cosa facessero appostati davanti a quell’ufficio postale, rispondevano che montavano la guardia alla posta, per controllare l’arrivo della pensione. Quando l’assegno arrivava, sollevati tiravano fuori gli strumenti dalle custodie e si facevano una suonata. Il loro repertorio fa alzare i piedi e la polvere e fa mettere a ammollo le camicie sui pantaloni. Ci ricorda cose semplici e durature. Lo eseguono impassibili e solenni, dall’alto del migliaio di sposalizi in cui hanno sgranato i colpi. Hanno nomi da gloria nella polvere: Tottacreta, Matalena, il Cinese, Parrucca. Il più impassibile di loro non aveva nemmeno bisogno di un soprannome, tanto era lapidario il nome originale: Rocco Briuolo. Ora Rocco è andato a suonare “due Paradisi” tra i santi che ha dipinto come fossero suoi compari. Tra santo Canio e santo Liborio. Ora può, come nella vecchia canzone, dire a san Pietro guardando giù, che “il Paradiso nostro è questo qua”. E con ragione, perché la sua umanità, il suo violino e il suo pennello, hanno portato un poco di divino in noi, che l’abbiamo conosciuto. La sua “Banda della Posta” lo accompagna con la filosofia nella quale è vissuto: un lavoro ben fatto, che non si prende mai sul serio. A lui è dedicato questo disco fatto di racconti in musica, cic’ tu cic’ e bottaculo. A quadriglie, a cinquiglie, fino all’incontrè.

 

Banda della Posta:

Giuseppe Caputo , "Matalena" - violino

Franco Maffucci , "Parrucca"- chitarra e voce

Giuseppe Galgano, "Tottacreta"- fisarmonica

Giovanni Briuolo- chitarra , mandolino

Vincenzo Briuolo- mandolino , fisarmonica

Giovanni Buldo , "Bubù"- basso

Antonio Daniele- batteria

Crescenzo Martiniello, "Papp'lon" - organo

Gaetano Tavarone , "Nino"- chitarre

Kuala Besut.

 

Terengganu Darul Iman. Malaysia Truly Asia

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Lo sposalizio è stato il corpo e il pane della comunità. Il mattone fondante della comunità. Veniva consumato con il cibo e con la musica. Una specie di eucarestia in cui la nuova coppia veniva ingerita dalla comunità che gli si stringeva intorno avvolgendola di stelle filanti nell’ultimo, infinito ballo dei “ziti” (che così si chiamano tanto gli sposi quanto la pasta). La musica aumentava vorticosamente di ritmo fino ad assorbire la coppia che finiva per girare avvolta come uno spiedo in una girandola colorata di fili di carta. A quel punto era digerita e pronta per generare e rinnovare la comunità. Questa musica che accompagnava il rito era musica umile, da ballo, adatta ad alleggerire le cannazze di maccheroni e a “sponzare” le camicie bianche, che finivano madide e inzuppate, come i cristiani che le indossavano. Un repertorio di mazurke, polke, valzer, passo doppio, tango, tarantella, quadriglia e fox trot, che era in fondo comune nell’Italia degli anni ‘50, ‘60, e che si è codificato come una specie di classico del genere in un periodo nel quale lo “sposalizio” è stato la principale occasione di musica, incontro e ballo. Poi le tastiere elettroniche hanno preso il sopravvento e gli sposalizi sono diventati matrimoni. L’aria condizionata è entrata in un altro genere di ristorazioni in cui la musica è diventata una specie di dessert più parente del liscio che dell’epoca mitica dei mantici, dei violini e delle farfisa.

 

A Calitri, in alta Irpinia, negli anni in cui è esistita una comunità, che è poi finita frantumata nelle migrazioni che sono state il sangue vivo dello sviluppo, questa comunità si è rinnovata e celebrata in un luogo cardine del paese: la “casa dell’Eca”. Nei racconti della mia infanzia si è trasformata in “casa dell’Eco”. La casa dove nasceva l’eco. Eco della musica, degli schiamazzi, delle burle, delle feste, luogo del pantheon dei personaggi mitici che fanno una comunità in cui si viene ribattezzati e realmente ri-conosciuti, nel soprannome che la comunità stessa impone, in luogo della chiesa. Da qualche decennio la casa dell’Eco tace, e l’unico eco che si spande è quello dei racconti. Se ci si appendessero dentro le fotografie di tutte le coppie sarebbe un sacrario di guerra. Giovani con la divisa nuziale che andavano ad affrontare, sparacchiando, la vita, dopo la sparecchiatura dei tavoli della casa dell’Eca.

 

Qualche anno fa, un gruppo di anziani suonatori di quell’epoca aurea non priva di miseria, ha preso l’abitudine di ritrovarsi davanti alla posta nel pomeriggio assolato. Avevano l’aria di vecchi pistoleri in paglietta. A domandargli cosa facessero appostati davanti a quell’ufficio postale, rispondevano che montavano la guardia alla posta, per controllare l’arrivo della pensione. Quando l’assegno arrivava, sollevati tiravano fuori gli strumenti dalle custodie e si facevano una suonata. Il loro repertorio fa alzare i piedi e la polvere e fa mettere a ammollo le camicie sui pantaloni. Ci ricorda cose semplici e durature. Lo eseguono impassibili e solenni, dall’alto del migliaio di sposalizi in cui hanno sgranato i colpi. Hanno nomi da gloria nella polvere: Tottacreta, Matalena, il Cinese, Parrucca. Il più impassibile di loro non aveva nemmeno bisogno di un soprannome, tanto era lapidario il nome originale: Rocco Briuolo. Ora Rocco è andato a suonare “due Paradisi” tra i santi che ha dipinto come fossero suoi compari. Tra santo Canio e santo Liborio. Ora può, come nella vecchia canzone, dire a san Pietro guardando giù, che “il Paradiso nostro è questo qua”. E con ragione, perché la sua umanità, il suo violino e il suo pennello, hanno portato un poco di divino in noi, che l’abbiamo conosciuto. La sua “Banda della Posta” lo accompagna con la filosofia nella quale è vissuto: un lavoro ben fatto, che non si prende mai sul serio. A lui è dedicato questo disco fatto di racconti in musica, cic’ tu cic’ e bottaculo. A quadriglie, a cinquiglie, fino all’incontrè.

 

Banda della Posta:

Giuseppe Caputo , "Matalena" - violino

Franco Maffucci , "Parrucca"- chitarra e voce

Giuseppe Galgano, "Tottacreta"- fisarmonica

Giovanni Briuolo- chitarra , mandolino

Vincenzo Briuolo- mandolino , fisarmonica

Giovanni Buldo , "Bubù"- basso

Antonio Daniele- batteria

Crescenzo Martiniello, "Papp'lon" - organo

Gaetano Tavarone , "Nino"- chitarre

Enjoying the fine spring weather. (File: RPOP-2011-05-1224)

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