zetaelle53
Garibaldi 02
QUANDO GARIBALDI ARRINGO’ GLI ORCEANI
di Paolo Zanoni – fotografie di Luciano Zanoni
L’impresa dei Mille è stata un evento imprevisto che portò in pochi mesi all’unificazione della penisola, segnando in modo indelebile la storia dell’Italia contemporanea. Salpato con due bastimenti e poco più di mille volontari dallo scoglio di Quarto nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, il 26 ottobre successivo, presso Teano, Garibaldi consegnava nelle mani di Vittorio Emanuele II il Regno delle Due Sicilie appena liberato, salutandolo col titolo di Re d’Italia. Le tappe della campagna garibaldina del 1860 sono scandite nella “Cronaca di Orzinuovi dal 1848 in poi” di don Francesco Perini, che ci offre l’inedita notizia del sostegno finanziario a Garibaldi deliberato dalla municipalità orceana fin dai giorni seguiti allo sbarco di Marsala:
“16 Maggio. L’11 corrente Garibaldi era sbarcato in Sicilia a sostenervi quegli eroici isolani che sino dal 4 di Aprile si battono contro gli sgherri del Borbone, ed occorrendo che prontamente e largamente sia sostenuto e soccorso, il nostro Consiglio dietro mozione di Gnaga deliberò di mandargli la somma di duemila lire dei fondi comunali, e anche il prodotto d’una colletta, della quale siamo stati incaricati io, Musletti e Ignazio Maffeis”.
“11 Settembre. Dichiarato ufficiale l’ingresso di Garibaldi in Napoli col giorno 7 e così anche la fuga di quel Borbone, il Municipio ordinò uno scampanio (colle campane rotte) pel mezzogiorno. Il che fu fatto. E tosto successe tanto fracasso di schioppettate e pistolettate che sembrava una battaglia. Altro che quelli del Sabato Santo! Era uno spettacolo. La sera vi fu una brillante illuminazione, banda, razzi, fuochi del Bengala, spari di schioppi e pistole: era un subbisso di detonazioni! Se n’è consumata della polvere! Il popolo si era riversato in piazza e mandava fragorosi evviva. Si cominciò alle sette di sera, l’esultanza pubblica non avea ancor cessato alle dieci. Garibaldi stesso se ne sarebbe consolato!”.
“30 Settembre. Avuta la notizia della battaglia di Castel Fidardo e della presa di Ancona, vi fu uno scampanio (in gamba zoppa) d’allegrezza a mezzo giorno che durò più di un’ora, e in questo sparo d’armi, come nelle antecedenti occasioni”.
“25 Ottobre. Per la presa di Capua fatta l’altro dì dai Garibaldini, nuovo scampanio e nuovi spari fra gli evviva a Garibaldi e a suoi prodi”.
“27 Ottobre. Il titolo della festa del 25 non si è avverato: i giornali aveano data come ufficiale la presa di Capua; poi tra jeri ed oggi l’hanno messa in dubbio, indi disdetta. E’ il solito andazzo dei giornali dire e disdire”.
Con l’impresa dei Mille la fama ed il prestigio del generale, già notevoli presso tutti gli strati sociali, salì alle stelle. Dopo un breve periodo di riposo l’eroe dei Due Mondi intraprese un lungo giro propagandistico attraverso lo Stivale, toccando i centri più importanti, ovunque accolto e osannato da folle immense. Lo scopo era quello di caldeggiare e preparare il Paese alla liberazione di Roma e Venezia, con la quale si sarebbe compiuto il disegno risorgimentale dell’unificazione nazionale.
Il 12 aprile 1862 il nizzardo, allora cinquantacinquenne, fece tappa ad Orzinuovi, dopo aver toccato Crema e Soncino. La cronaca del memorabile avvenimento ci è consegnata da don Francesco Perini che ne fu vivo e attento testimone.
“12 Aprile – ARRIVO DI GARIBALDI.
Il paese era preparato a riceverlo perché si sapeva che in tal giorno arrivava a Soncino: finestre parate a festa e imbandierate: al palazzo erasi messo a posto il padiglione fatto l’anno passato: si era chiamata la guardia: la popolazione era tutta in movimento. Nella mattina i nostri garibaldini per godere la presenza di Garibaldi si erano con bandiera recati a Soncino per salutarlo: così vi fu anche un gran passaggio di garibaldini di Chiari e d’altronde, tra i quali uno sulle stampelle per una gamba che gli era stata mozzata: con loro a diverse ore del mattino, gran parte della nostra popolazione si era portata a Soncino. Per essere più sicuri del suo passaggio per di qui, il sindaco vi mandò una commissione composta da Musletti, Gnaga e Bellegrandi ad officiare Garibaldi perché onorasse il paese della sua presenza. Ad un’ora e mezza una lettera di Gnaga avvertiva di star pronta la guardia colla banda, la quale andò a collocarsi sul passeggio di porta nuova: tutti i pubblici funzionari, signore ed ogni qualità di popolo occupavano lo stradone, il passeggio e gli spalti. Alle 4 pomeridiane capitò la carrozza su cui si trovava Garibaldi: il Sindaco parlò con lui, intanto che la musica suonava l’inno del generale tanto popolare. Un gridar Viva Garibaldi e l’Italia, sventolar di fazzoletti, gettar di fior, un correre della gente da tutti i lati della carrozza, era cosa sorprendente: giovani, vecchi, fanciulli, fanciulle prorompevano da tutti i lati a gridare i soliti viva. Suonavano (in gamba zoppa) le campane delle chiese: la banda e la guardia seguivano la carrozza che entrava lentamente in paese. Al palazzo comunale l’entusiasmo confinava proprio col delirio: al mio sopraggiungere io credetti che fosse succeduta una baruffa presso la carrozza di Garibaldi, ed era un gruppo di signore, tra le quali le esaltatissime Parazzoli, che si disputavano il povero Garibaldi abbracciandolo, baciandolo, tirandolo di qua e di là, come fosse uno straccio: oh matte bugerone! Ed egli non potendosi schermire, tanto l’aveano preso in mezzo, le lasciava fare. C’era più pazzia che dignità: poverette! Credo che lo stesso Garibaldi le abbia compatite. Si entrò poscia nella sala comunale dove irruppero i pubblici funzionari e le signore. Era una miscela da non riferirsi, chi lo baciava di qua, chi di là, chi gli toccava la persona, chi volea parlare con lui, sentirlo: tutti lo circondavano d’ogni lato a rischio d’asfissiarlo: sin ad un punto di dubitare della solidità del soffitto. Io gli stava, come suol dirsi alle calcagna, perché volea vederlo ben bene da vicino: e in quel momento io, il curato Zappamiglio e Don Giulio Pavoni gli fummo presentati come parte del Clero che desiderava esporgli le proprie aspirazioni politiche, ed ebbi il vantaggio di leggergli il seguente indirizzo.
‘Generale,
figli del popolo e sacerdoti del Dio che vi ha donato novello Gedeone all’Italia, in una stessa politica fede noi siamo uniti, o Generale, con voi che rappresentate le più sante aspirazioni degli italiani, con voi che per le vostre gesta portentose siete diventato l’idolo dei popoli oppressi. Accogliete, o Generale, le proteste di stima che altissima sentiamo del vostro amore all’Italia e saremo sempre con voi finché l’Italia sia tutta degli Italiani’.
Bene, bravi, esclamò il generale verso di noi; e volgendosi a quanti lo circondavano, aggiunse =Con preti come questi si va presto a Roma ed a Venezia=. Volle il mio scritto, e siccome non era firmato, mandò con noi il suo segretario Bellazzi a ricevere le nostre firme che vi apponemmo nell’ufficio della Giunta. Dopo si affacciò alla finestra, dove disse alcune parole alla guardia ed al popolo che stavano desiderosi di vederlo e sentirlo. Riporto la cosa:
‘Per compire l’Italia mancano ancora Venezia e Roma, ambidue sono necessarie. – Si, si, Roma e Venezia, si gridava dalla piazza – Va bene dirlo, ma per andar a Venezia e a Roma non basta dirlo, né far dimostrazioni e volerlo a parole, ci vogliono dei fatti, perché sono questi che formano la grandezza e la potenza delle nazioni. Non basta dire vogliamo, ma bisogna fare e fare con pertinacia e con perseveranza. Le nazioni non si redimono che col ferro e col fuoco’. -Si, si non mancheremo-A questo punto fece un gesto di disapprovazione perché il Dor. Sguassi gli teneva alta sulla testa una ghirlanda vecchia di vecchi fiori di carta da vale neanche un soldo, a guisa di quelle aureole che coronano i santi nelle chiese: e insistendo il Dottore, il generale gli disse, ed io era allora vicino a lui =Basta, basta, finitela con queste robe= poi continuò il suo discorso:
‘A questa impresa ci vuole la cooperazione di tutti, e tutti dobbiamo concorrere colle nostre forze. E’ una vergogna per tutti gli italiani liberi che Roma e Venezia siano ancora schiave’. =Concorreremo tutti a liberarle=. In questo momento saltò su uno agridare: Cent’anni al generale Garibaldi!
‘Grazie, rispose, ma quello che vi raccomando è d’educarvi al possesso delle armi: gli italiani hanno di bisogno di addestrarsi all’armi, al tiro del bersaglio: per questo non occorrono né fatiche né spese: una buona carabina quando si sa maneggiarla sa far delle grandi cose, come già si son fatte: soltanto colla carabina andremo a Venezia e a Roma’. =Si, si , Roma e Venezia=. ‘affrettatevi dunque tutti alle armi, perché presto occorrerà’: =Si, si, tutti e presto=.
E diverse altre parole che tutte collimavano alla redenzione di queste due parti d’Italia. Finito di parlare dimandò un bicchiere d’acqua: ne bevve una metà; il resto lo bevve una signora di Soncino. Tutti vollero qualche cosa di lui: aveva un mazzetto di fiori appassiti in mano, li donò un po’ per uno, e se ne sono fatte tante reliquie. Achille Maffeis desiderava che gli cedesse il suo cappello!!! Volgendosi al capitano Musletti gli raccomandò l’istituzione del bersaglio e che vi lasciasse esercitare ogni ceto di persone. =Abbiamo bisogno di tutti per far l’Italia= e siccome Musletti usava il titolo di eccellenza, qual si conviene a generale =Che eccellenza, disse, che eccellenza, datemi del voi, che noi siamo tutti amici=. E Musletti lo assicurava che fra poco tempo il bersaglio sarebbe stato un fatto. =Non fate spese, diceva Garibaldi, alcune buone carabine e un segno in qualsisia luogo fuori di pericolo, ecco, il bersaglio è bello e pronto=. Diede buone parole a tutti, e parlando con una bontà indicibile e modestia senza esempio; se fosse stato il caso, ci avrebbe strascinati con lui con una buona arma. Montò poi in carrozza e volle che gli sedesse alla destra il soldato di Chiari mutilato, indi Bellazzi: egli si assise in avanti: qui fu una gara di riguardi tra tutti e tre: il povero soldato a vedersi messo in tanto onore era tutto confuso e mortificato: però la vinse Bellazzi che fece sedere il generale alla sinistra del soldato in mezzo a fragorose acclamazioni. Prima di discendere le scale del comune il Gaetano Besozzi si presentò a Garibaldi chiedendolo del favore di un bacio per farne parte ai militi della guardia: se ne ricambiarono due e proprio di buon gusto: il generale poi raccomandò anche a Besozzi il tiro del bersaglio. Besozzi si presentò alla guardia e, dato il bacio di Garibaldi, la fece dividere in due colonne perché vi passasse in mezzo. Al passaggio della carrozza la guardia gridò un sifatto evviva da assordare il mondo. Egli partiva per Chiari alle 4 e mezza: lo seguirono molti dei nostri, che nol poterono fare a meno, edificati e rapiti dalla bontà, semplicità e modestia di quest’uomo tanto glorioso. La banda suonava la sua marcia: buona parte di popolo gli tenne dietro più che oltre la porta sempre gridando i suoi evviva. Vanitosi che ambite dei titoli per farvi apprezzare, specchiatevi in quest’uomo che vi condanna! Noto che molti di Ludriano e la guardia si trovarono al ponte della Razzica per salutare il generale, e che a Roccafranca non si videro che fanciulli che giocavano per strada. Dirò inoltre, ad onore di Cabrini affittale di terra Verde, che la mattina di questi dì lasciò liberi d’ogni lavoro i suoi contadini e li mandò agli Orzi a vedere Garibaldi, e così fece coi suoi dipendenti Parazzoli e diversi altri, i quali per soddisfare ai loro desiderii eransi inoltrati sino a Soncino. L’Arciprete non volle presentarsi a Garibaldi, benché l’Avv. Gnaga fosse la sera antecedente andato a parlargli in proposito. Difatti egli stette in chiesa a vedere i sacristi a mettere su l’apparato delle Qurant’Ore, e l’italofobo prete Salvetti per non essere presente all’ingresso del generale andò a passeggiare sulla strada di Malpaga: così nessun altro prete si è fatto vedere. Oggi poi 14 alle 3 pomeridiane, entrando in sacrestia, vidi l’arciprete e il prete Seotti, i quali bisbigliavano sommessamente, forse per riguardo del sacrista che era poco lontano, ma si capiva che parlavano della nostra presentazione a Garibaldi: ad un tratto sopravviene il prete Salvetti, e unitosi a loro lo sentii a scappar fuori con queste espressioni =Quando si saprà la cosa e che capiterà loro la scomunica, andranno da Garibaldi a farla levare=. Però se non ci venne la scomunica, si è però fatto il possibile per altre robe. Prima di tutto il prete Salvetti cercò per mare e per terra di poter aver copia dell’indirizzo da noi fatto a Garibaldi, ma le sue ricerche riuscirono inutili perché non l’aveva che io solo. Poi si è scritto al Vescovo che Zappamiglio aveva offerto un fiore a Garibaldi, mentre gli era stato presentato dal Reverendo Paroli parroco di Barbarica, al quale il generale disse cortesemente che lo regalasse a qualche signora; che ne l’avvenne? Che a noi curati venne limitata la confessione alla sola parrocchia. Ma Zappamiglio, andato dal Vescovo, espose le cose come erano state, e non se ne parlò più. Fu revocata la limitazione, e gli altri restarono con un bel palmo di naso”.
A pochi mesi dalla visita ad Orzinuovi, Garibaldi organizzò una spedizione di volontari per liberare Roma. Il ritrovo per i suoi 3.000 seguaci venne fissato in Calabria per ripetere le gesta dei Mille. Il Governo italiano, temendo di guastare i rapporti con l’alleato francese, mandò un battaglione dell’esercito per fermarlo. Il 29 agosto 1862 in una scaramuccia in Aspromonte il generale venne ferito da due pallottole, che lo colpirono all’anca sinistra ed al malleolo interno del piede destro. Arrestato, venne tradotto al forte di Varignano presso La Spezia. Don Francesco Perini raccolse nella sua “Cronaca” le reazioni che si ebbero ad Orzinuovi non appena giunsero le notizie dei fatti.
“31 Agosto. Ieri sera si sparse la voce che Garibaldi era stato ferito e fatto prigioniero in fondo alla Calabria, in una mossa ch’egli tentava sopra Roma. Se ne concitarono tanto gli animosi che ne sorse un generale mormorio. Non si sapeva come la faccenda fosse stata. Questa mattina, festa di S. Bartolomeo, fu un correre ai caffè per le gazzette, e trovato vero il fatto ed accaduto ad Aspromonte, si rincalzarono i mali umori. Alle 4½ la banda suonò in piazza ed eseguito l’inno di Garibaldi furono fatti evviva e battimani all’indirizzo del generale, quasi protesta e disapprovazione dell’operato del governo che si lasciava troppo imporre dalla politica di Napoleone. Suonati alcuni pezzi di musica si gridò l’inno di Garibaldi. Il maestro Derada dimostrò da principio qualche esitazione, poi lo suonò, e successe un tal fracasso di evviva e battimani da assordar il mondo.
Questa sera tre garibaldini, avendo tra il giorno poco misurato il vino, si appostarono ad uno dei nostri caffè, dove stava l’assessore ingegner Pavoni, e fingendo discorrere fra loro, uno disse: Di che gente mai è composta la nostra giunta? E l’altro rispose: =Io te lo dirò: i nostri assessori sono, un pizzicagnolo e bottegaio (Bezzi), un ignorante falegname (Bordiga) ed un misura-letame (l’ing. Pavoni)=. Dissero altri spropositi che degenerando in insolenze obbligarono a far uso di prudenza e lasciare il caffè”.
“6 Settembre. Diversi giovanotti combinarono per questa mattina una messa solenne per la guarigione di Garibaldi. Venne cantata alle dieci. Il concorso fu quasi di giorno festivo. Alla porta si leggeva questa semplicissima epigrafe di Gnaga =Dio conservi all’Italia la grande anima di Garibaldi=”.
“20 Ottobre. Le incerte notizie sullo stato di Garibaldi, che era stato trasportato al Varignano per esservi guarito e custodito come prigioniero, hanno indotto l’Avv. Gnaga a presentare al Consiglio una mozione per ottenere che venisse mandato al Varignano il Dr. Martinelli a prendere vera ed esatta cognizione del suo stato, con l’incarico di presentarsi al generale, salutarlo a nostro nome e fargli conoscere quanto ci stesse a cuore la sua salute. I consiglieri erano dieci: la proposizione fu ammessa ed accettata l’esibizione del Martinelli di viaggiar a sue spese. Gli fu quindi consegnata la credenziale colla copia della deliberazione del Consiglio”.
“21 Ottobre. Il Dottore è partito: ma oggi il giornale accenna a notizie inquietanti, sicché siamo tutti perplessi. Al paese è piaciuta l’andata del dottore: i caudatari brontolarono, ma l’hanno fatto fra i denti e stettero lì e vi staranno”.
“27 Ottobre. Il Dr. Martinelli è ritornato questa sera. Raccontò che nell’andar a Genova fu preso da panico timore ad un punto della via ferrata per un accidente che sa egli. =Tu, mi diceva, devi sapere che noi medici siamo tutti timidi= e n’ebbe la febbre per due giorni, sicché rimase in città a curarsi. Narrò poi che nel frattempo avea sentito dire che era difficile in quei momenti l’accesso a Garibaldi che dal Varignano era stato trasportato alla Spezia. Avendo però saputo che la figlia del generale si trovava poco fuori di Genova andò a presentarsele dichiarando lo scopo della sua missione, ed essa si incaricò di darne contezza a suo padre. Rilasciò poi al Dottore un suo autografo, nel quale ringraziava gentilmente il Consiglio delle sue attenzioni e lo assicurava che non avrebbe mancato di metterne in cognizione il prigioniero. Il Dottore quindi comunicava il suo operato al Comune, e così fu conchiusa questa gita come quella di chi andò a Roma senza veder il Papa. Al Dottore pareva dalle gazzette che Garibaldi, per quanto avesse intorno medici e chirurghi di fama europea, non fosse curato bene, e lo diceva a Gnaga, e Gnaga, amen, lo credeva”.
A suggello e ricordo della memorabile visita di Garibaldi ad Orzinuovi, venne posta nel 1863 una lapide sotto la finestra da cui aveva arringato la folla, come ricorda il Perini:
“4 Luglio. Natalizio di Garibaldi. Alle 5 pomeridiane fu collocata una lapide commemorativa del suo passaggio sotto la finestra del Comune dalla quale ha parlato. L’epigrafe l’ha fatta Bellegrandi ed è questa:
IL 12 APRILE 1862
GIUSEPPE GARIBALDI
DA QUI
ARRINGAVA IL POPOLO
PEL RISCATTO DI ROMA E VENEZIA
La lapide era stata deliberata dal Consiglio. Sulla sera la banda vi andò dirimpetto a suonarvi la solita marcia. Pochi giorni dopo la contrada di Porta nuova fu chiamata Garibaldi, questo nome nella leggenda fu sostituito al vecchio. E anche questo per deliberazione consigliare provocata in questa primavera da una petizione firmata da molti del paese”.
Nel 1881, come ricorda don Francesco Perini nella sua Cronaca, le parole della lapide vennero rinfrescate con inchiostro nero:
“12 Aprile. Per deliberazione della nostra Società Operaia fu fatta rinnovare a nero l’epigrafe della lapide posta al Palazzo Comunale ricordante il passaggio di Garibaldi, e oggi vi è stata collocata una bellissima ghirlanda”.
Da notare che la contrada di Porta nuova è l’attuale Via Cavour. L’anno seguente il compleanno di Garibaldi venne festeggiato sobriamente:
“4 Luglio. Natalizio di Garibaldi. Una ghirlanda copriva la pietra posta al Comune. Alla sera la banda percorse la piazza e le carrobbe”.
Il ricordo del generale era ancora vivo a vent’anni dalla sua visita e la sua popolarità sempre altissima presso gli oceani quando, il 2 giugno 1882, Giuseppe Garibaldi esalava l’ultimo respiro nel suo volontario ritiro di Caprera. Il cordoglio unanime della popolazione e la partecipazione dell’Amministrazione civica al lutto nazionale sono testimoniati sempre dal Perini negli ultimi fogli della sua cronaca.
“3 Giugno. Un telegramma di questa mattina annunciava la morte di Garibaldi avvenuta jeri a Caprera. Furono esposte dieci o dodici bandiere abbrunate. Anche il Municipio mise fuori la sua e differì ad altro giorno la festa dello Statuto che doveva aver luogo domani. A mezzodì e sulla sera il Municipio volle una scampanata da morto, e fu fatta”.
“4 Giugno. Al Municipio era esposto il verbale della nostra Giunta che per Garibaldi stabiliva un lutto di dieci giorni, di farsi rappresentare a’ suoi funerali o a Caprera o a Roma, di concorrere con lire duecento al monumento da erigersi in Brescia, di dispensare lire duecento ai poveri, di telegrafare condoglianze alla famiglia, di far suonare la banda alle otto di questa sera e di farla girare per la piazza suonando marce funebri, il che fu fatto portandosi in giro le abbrunate bandiere del Comune e della Società Operaia, e si terminò colla solita marcia di Garibaldi. Inoltre la giunta stabilì o meglio propose che si pensasse anche a fargli uffici funebri in modi puramente civili”.
“8 Giugno. Un avviso a mano faceva appello a tutti gli amici, conoscenti ed ammiratori (sic) di Garibaldi a radunarsi nella sala del Circolo per trattare sui modi onde in un tal dì far onore alla memoria del defunto generale. Gli intervenuti saranno stati circa sessanta. Vi tenne la presidenza Giuseppe Zambelli, sacco di vino e cechetti, il quale garbugliò su qualche parola facendo vista d’una commozione che non gli toccava i denti. =Signori, egli disse, noi siamo qui… non so come far a parlare: loro lo sanno che è morto Garibaldi, e noi siamo qui per questo. A stento posso frenar le lagrime: dimando scusa se la parola non mi viene, tanto la sventura mi ha colpito. Garibaldi non è più: basta, la sua morte è per l’Italia una perdita irreparabile, e noi siamo qui per stabilire i modi onde farne condegna commemorazione. Propongano e si delibererà=. Furono fatte varie proposte, e in fine si stabilì di innalzare un monumento che comprende la medaglia del Re Vittorio Emanuele, di Cavour e di Mazzini, con sopra il busto di Garibaldi, che in un giorno da destinarsi e nel teatro messo a lutto se ne farà commemorazione con discorso dell’ing. Pavoni o del Signor Gabriele Rosa, e che alla sera stessa vi sarà illuminazione in via Garibaldi con banda e fiaccolata. Per il momento si aperse tra i presenti una sottoscrizione che produsse 147 lire, e si elesse una commissione di sette individui per continuarla in paese.
Non posso ommettere di riferire quanto segue. Quando il 3 è fioccata in paese la notizia della morte di Garibaldi il nostro Municipio se ne volle assicurare telegrafando alla Prefettura, e quando ne fu certo, mandò all’Arciprete pel suono delle campane. L’Arciprete si oppose, ma quelli del Municipio diedero due lire ai campanari i quali secondo gli ordini comunicati suonarono alla distesa alla mattina e prima di sera, e tennero tanto lungo lo scampanio da seccare le scatole anche ai più sordi. All’ora del rosario l’Arciprete, approfittando della circostanza, si mise a declamare contro il Municipio che avesse invaso i diritti del parroco, e a protestare contro questo abuso di potere, e lo denunciava al pubblico perché si sapesse chi aveva fatto suonare. Poi venendo a parlar più chiaro disse che le campane di un popolo cattolico non dovevano profanarsi suonando per la morte di un empio, che era sempre stato nemico dei preti, del Papa, della Chiesa, della religione, che già era stato giudicato da Dio, che nella sua giustizia sarebbe stato impossibile e che certo l’avrà sentenziato agli eterni abissi, e tante altre cose. Le persone presenti a questa inaspettata predica ne parlarono fuori di chiesa sicché in un baleno ne corse la notizia in paese. Ne fu censurato l’arciprete e la più piccola taccia fu quella d’imprudente. Difatti era una scappata un po’ grossa. Quando venne a notizia della nostra Giunta non è da dirsi se ne ebbe a male, e compatendo all’uomo che avea fatta, credette di non prendersene alcuna vendetta, e invece se la prese poveretta! Con Dio”.
“11 Giugno. La sera del 9, quando già si erano fatte dal Municipio suonar le campane, il Vescovo scriveva all’Arciprete quanto segue:
Brescia 9 Giugno 1882.
Al M.R. Arciprete Parroco e Vicario Foraneo Orzinuovi.
Abbiamo conosciuto con vero dolore, che si suonarono i sacri bronzi in codesta parocchia per la morte del generale Garibaldi. Noi crediamo che Ella non avrà mancato di protestare contro di codesto arbitrio lesivo dei sacri diritti della Chiesa ed offensivo della religione di codesti parocchiani. Ma vogliamo che questi sappiano che il vescovo le riprova con dolore, e si associa a loro nel dispiacere di simili arbitri che spera non si rinnoveranno.
Di cuore impartiamo a Lei e alla parocchia la pastorale benedizione.
Girolamo Vescovo”.
Come si vede, lo scontro ideologico tra lo Stato italiano e la Chiesa Cattolica, a dodici anni di distanza dalla presa di Roma, era più che mai vivo e ben lungi dall’essere risolto. Dopo la morte del generale si costituì ad Orzinuovi un comitato con lo scopo di raccogliere fondi per erigergli un monumento. Nelle sue ultime annotazioni il Perini dà conto dei risultati conseguiti a poco più di un anno di distanza:
“1883. Nella seduta dopo il 10 settembre degli offerenti pel monumento Garibaldi, furono presentati diversi disegni e i loro prezzi di esecuzione. Se ne vuol fare uno bello, ma i mezzi… Con mille e duecento lire si può far poco per decorarne la piazza e onorare un uomo che tanto ha operato per quella unità d’Italia che senza lui Dio sa quando sarebbe stata raggiunta. Per aumentare il suddetto fondo si pensò di aprire il teatro per due recite: e così fu fatto l’ultimo dell’anno e il primo di questo. Quanto siasi raccolto, non so: so però che dopo la prima recita si è lautamente cenato all’albergo Facchetti e che si è ballato fino alle quattro dopo mezzanotte. E via allegri!”.
In effetti il monumento commemorativo dell’eroe venne collocato davanti all’entrata della rocca nel 1884. Si trattava di un busto marmoreo sostenuto da un alto basamento, circondato da una aiola con alcuni abeti intorno, come si può ancora vedere in una vecchia cartolina. Nel 1931, auspice la locale Società Operaia, il monumento venne sostituito con una statua in bronzo ben più significativa che ritrae un Garibaldi arrembante al timone di una nave. La piazza antistante da allora prese il suo nome, scambiandolo con quello di Cavour.
E’ doveroso ricordare che Orzinuovi ha dato i natali ad un garibaldino caduto a Palermo nelle prime fasi dell’epica imprese dei Mille. Il municipio ne volle conservare la memoria ai posteri dedicandogli una lapide murata accanto all’ingresso del Palazzo Comunale, recante le seguenti parole:
A RINALDO BONTEMPO
ORCEANO
UNO DEI MILLE
MORTO A PALERMO
VALOROSAMENTE COMBATTENDO
27 MAGGIO 1860
Nella prima annotazione, in apertura del 1861, don Francesco Perini ricorda il concittadino patriota caduto in Sicilia e ci dà notizie di grande interesse sugli altri garibaldini orceani, tramandandocene l’elenco completo:
“14 Gennajo. Il nostro Bontempo Rinaldo, uno dei mille, era caduto a Palermo il 27 Maggio dell’anno scorso. Più volte io avea proposto un ufficio solenne per lui. Parlava ai sordi. La gratitudine si confondeva col danaro. Tornati a casa i garibaldini Deprà Gio., Torri, Bettinzioli. Maffini, Maccarani, Fioretti Leopoldo e Varani, e veduta la dimenticanza del loro confratello, ordinarono essi l’ufficio che fu celebrato oggi. Non fecero inviti, non vollero guardia: essi si sono posti intorno al catafalco nella divisa che usavano al campo. Vi intervenne il Pretore Bonetti con tutti i suoi impiegati, e qualche comunale. La chiesa era affollata di gente. Alla porta si leggeva la seguente mia epigrafe: per queste robe io era sempre in ballo. =Onori funebri fatti dai suoi compagni d’armi - a Bontempo Rinaldo – che uno dei mille sbarcati a Marsala – cadeva a Palermo – il 27 Maggio 1860 – nelle gloriose battaglie – per l’unità e la libertà – d’Italia=.
Una società volendo onorare i nostri prodi Garibaldini li invitò ad una cena nell’albergo di Facchetti, dove il Dr. Martinelli lesse due parole di lode e incoraggiamento per loro e Bellegrandi un brindisi a Garibaldi. La cena fu inaspettatamente rallegrata dalla nostra banda. Circa le 8 ½ vi intervenne anche il Sindaco fra i soliti evviva. A ora tarda terminò il divertimento con soddisfazione degli invitati e della società che era composta di ventitre persone.
Qui colgo l’occasione di ricordare che furono garibaldini anche Giuseppe Pavoni fu Paolo che si ammalò a Messina, un Bresciani, Corniani Battista, che sono tuttora sotto le armi e Castelvedere che essendo di linea disertò da Alessandria, e tornato in paese vi fu arrestato per essere tradotto là dond’era fuggito. A questi garibaldini era unito anche quel lazzarone di Tenchini Dionisio, che per fare tutti i mestieri ebbe sempre nessuna voglia di farne uno”.
Se Bergamo, per aver fornito 174 volontari, si è meritata la fama di “Città dei Mille”, nondimeno Orzinuovi per aver dato a Garibaldi ben 13 camicie rosse, e per averlo concretamente sostenuto, credendo alla temeraria impresa del 1860, può a buon diritto fregiarsi del titolo di “Garibaldina”. Oggi il destino dell’Italia sta virando verso un Paese federale in una Europa Unita e pacificata. Non si devono tuttavia dimenticare gli ideali e il sacrificio dei protagonisti del Risorgimento nazionale che si spesero per una Patria unica degli italiani, libera dallo straniero e solidale.
Garibaldi 02
QUANDO GARIBALDI ARRINGO’ GLI ORCEANI
di Paolo Zanoni – fotografie di Luciano Zanoni
L’impresa dei Mille è stata un evento imprevisto che portò in pochi mesi all’unificazione della penisola, segnando in modo indelebile la storia dell’Italia contemporanea. Salpato con due bastimenti e poco più di mille volontari dallo scoglio di Quarto nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, il 26 ottobre successivo, presso Teano, Garibaldi consegnava nelle mani di Vittorio Emanuele II il Regno delle Due Sicilie appena liberato, salutandolo col titolo di Re d’Italia. Le tappe della campagna garibaldina del 1860 sono scandite nella “Cronaca di Orzinuovi dal 1848 in poi” di don Francesco Perini, che ci offre l’inedita notizia del sostegno finanziario a Garibaldi deliberato dalla municipalità orceana fin dai giorni seguiti allo sbarco di Marsala:
“16 Maggio. L’11 corrente Garibaldi era sbarcato in Sicilia a sostenervi quegli eroici isolani che sino dal 4 di Aprile si battono contro gli sgherri del Borbone, ed occorrendo che prontamente e largamente sia sostenuto e soccorso, il nostro Consiglio dietro mozione di Gnaga deliberò di mandargli la somma di duemila lire dei fondi comunali, e anche il prodotto d’una colletta, della quale siamo stati incaricati io, Musletti e Ignazio Maffeis”.
“11 Settembre. Dichiarato ufficiale l’ingresso di Garibaldi in Napoli col giorno 7 e così anche la fuga di quel Borbone, il Municipio ordinò uno scampanio (colle campane rotte) pel mezzogiorno. Il che fu fatto. E tosto successe tanto fracasso di schioppettate e pistolettate che sembrava una battaglia. Altro che quelli del Sabato Santo! Era uno spettacolo. La sera vi fu una brillante illuminazione, banda, razzi, fuochi del Bengala, spari di schioppi e pistole: era un subbisso di detonazioni! Se n’è consumata della polvere! Il popolo si era riversato in piazza e mandava fragorosi evviva. Si cominciò alle sette di sera, l’esultanza pubblica non avea ancor cessato alle dieci. Garibaldi stesso se ne sarebbe consolato!”.
“30 Settembre. Avuta la notizia della battaglia di Castel Fidardo e della presa di Ancona, vi fu uno scampanio (in gamba zoppa) d’allegrezza a mezzo giorno che durò più di un’ora, e in questo sparo d’armi, come nelle antecedenti occasioni”.
“25 Ottobre. Per la presa di Capua fatta l’altro dì dai Garibaldini, nuovo scampanio e nuovi spari fra gli evviva a Garibaldi e a suoi prodi”.
“27 Ottobre. Il titolo della festa del 25 non si è avverato: i giornali aveano data come ufficiale la presa di Capua; poi tra jeri ed oggi l’hanno messa in dubbio, indi disdetta. E’ il solito andazzo dei giornali dire e disdire”.
Con l’impresa dei Mille la fama ed il prestigio del generale, già notevoli presso tutti gli strati sociali, salì alle stelle. Dopo un breve periodo di riposo l’eroe dei Due Mondi intraprese un lungo giro propagandistico attraverso lo Stivale, toccando i centri più importanti, ovunque accolto e osannato da folle immense. Lo scopo era quello di caldeggiare e preparare il Paese alla liberazione di Roma e Venezia, con la quale si sarebbe compiuto il disegno risorgimentale dell’unificazione nazionale.
Il 12 aprile 1862 il nizzardo, allora cinquantacinquenne, fece tappa ad Orzinuovi, dopo aver toccato Crema e Soncino. La cronaca del memorabile avvenimento ci è consegnata da don Francesco Perini che ne fu vivo e attento testimone.
“12 Aprile – ARRIVO DI GARIBALDI.
Il paese era preparato a riceverlo perché si sapeva che in tal giorno arrivava a Soncino: finestre parate a festa e imbandierate: al palazzo erasi messo a posto il padiglione fatto l’anno passato: si era chiamata la guardia: la popolazione era tutta in movimento. Nella mattina i nostri garibaldini per godere la presenza di Garibaldi si erano con bandiera recati a Soncino per salutarlo: così vi fu anche un gran passaggio di garibaldini di Chiari e d’altronde, tra i quali uno sulle stampelle per una gamba che gli era stata mozzata: con loro a diverse ore del mattino, gran parte della nostra popolazione si era portata a Soncino. Per essere più sicuri del suo passaggio per di qui, il sindaco vi mandò una commissione composta da Musletti, Gnaga e Bellegrandi ad officiare Garibaldi perché onorasse il paese della sua presenza. Ad un’ora e mezza una lettera di Gnaga avvertiva di star pronta la guardia colla banda, la quale andò a collocarsi sul passeggio di porta nuova: tutti i pubblici funzionari, signore ed ogni qualità di popolo occupavano lo stradone, il passeggio e gli spalti. Alle 4 pomeridiane capitò la carrozza su cui si trovava Garibaldi: il Sindaco parlò con lui, intanto che la musica suonava l’inno del generale tanto popolare. Un gridar Viva Garibaldi e l’Italia, sventolar di fazzoletti, gettar di fior, un correre della gente da tutti i lati della carrozza, era cosa sorprendente: giovani, vecchi, fanciulli, fanciulle prorompevano da tutti i lati a gridare i soliti viva. Suonavano (in gamba zoppa) le campane delle chiese: la banda e la guardia seguivano la carrozza che entrava lentamente in paese. Al palazzo comunale l’entusiasmo confinava proprio col delirio: al mio sopraggiungere io credetti che fosse succeduta una baruffa presso la carrozza di Garibaldi, ed era un gruppo di signore, tra le quali le esaltatissime Parazzoli, che si disputavano il povero Garibaldi abbracciandolo, baciandolo, tirandolo di qua e di là, come fosse uno straccio: oh matte bugerone! Ed egli non potendosi schermire, tanto l’aveano preso in mezzo, le lasciava fare. C’era più pazzia che dignità: poverette! Credo che lo stesso Garibaldi le abbia compatite. Si entrò poscia nella sala comunale dove irruppero i pubblici funzionari e le signore. Era una miscela da non riferirsi, chi lo baciava di qua, chi di là, chi gli toccava la persona, chi volea parlare con lui, sentirlo: tutti lo circondavano d’ogni lato a rischio d’asfissiarlo: sin ad un punto di dubitare della solidità del soffitto. Io gli stava, come suol dirsi alle calcagna, perché volea vederlo ben bene da vicino: e in quel momento io, il curato Zappamiglio e Don Giulio Pavoni gli fummo presentati come parte del Clero che desiderava esporgli le proprie aspirazioni politiche, ed ebbi il vantaggio di leggergli il seguente indirizzo.
‘Generale,
figli del popolo e sacerdoti del Dio che vi ha donato novello Gedeone all’Italia, in una stessa politica fede noi siamo uniti, o Generale, con voi che rappresentate le più sante aspirazioni degli italiani, con voi che per le vostre gesta portentose siete diventato l’idolo dei popoli oppressi. Accogliete, o Generale, le proteste di stima che altissima sentiamo del vostro amore all’Italia e saremo sempre con voi finché l’Italia sia tutta degli Italiani’.
Bene, bravi, esclamò il generale verso di noi; e volgendosi a quanti lo circondavano, aggiunse =Con preti come questi si va presto a Roma ed a Venezia=. Volle il mio scritto, e siccome non era firmato, mandò con noi il suo segretario Bellazzi a ricevere le nostre firme che vi apponemmo nell’ufficio della Giunta. Dopo si affacciò alla finestra, dove disse alcune parole alla guardia ed al popolo che stavano desiderosi di vederlo e sentirlo. Riporto la cosa:
‘Per compire l’Italia mancano ancora Venezia e Roma, ambidue sono necessarie. – Si, si, Roma e Venezia, si gridava dalla piazza – Va bene dirlo, ma per andar a Venezia e a Roma non basta dirlo, né far dimostrazioni e volerlo a parole, ci vogliono dei fatti, perché sono questi che formano la grandezza e la potenza delle nazioni. Non basta dire vogliamo, ma bisogna fare e fare con pertinacia e con perseveranza. Le nazioni non si redimono che col ferro e col fuoco’. -Si, si non mancheremo-A questo punto fece un gesto di disapprovazione perché il Dor. Sguassi gli teneva alta sulla testa una ghirlanda vecchia di vecchi fiori di carta da vale neanche un soldo, a guisa di quelle aureole che coronano i santi nelle chiese: e insistendo il Dottore, il generale gli disse, ed io era allora vicino a lui =Basta, basta, finitela con queste robe= poi continuò il suo discorso:
‘A questa impresa ci vuole la cooperazione di tutti, e tutti dobbiamo concorrere colle nostre forze. E’ una vergogna per tutti gli italiani liberi che Roma e Venezia siano ancora schiave’. =Concorreremo tutti a liberarle=. In questo momento saltò su uno agridare: Cent’anni al generale Garibaldi!
‘Grazie, rispose, ma quello che vi raccomando è d’educarvi al possesso delle armi: gli italiani hanno di bisogno di addestrarsi all’armi, al tiro del bersaglio: per questo non occorrono né fatiche né spese: una buona carabina quando si sa maneggiarla sa far delle grandi cose, come già si son fatte: soltanto colla carabina andremo a Venezia e a Roma’. =Si, si , Roma e Venezia=. ‘affrettatevi dunque tutti alle armi, perché presto occorrerà’: =Si, si, tutti e presto=.
E diverse altre parole che tutte collimavano alla redenzione di queste due parti d’Italia. Finito di parlare dimandò un bicchiere d’acqua: ne bevve una metà; il resto lo bevve una signora di Soncino. Tutti vollero qualche cosa di lui: aveva un mazzetto di fiori appassiti in mano, li donò un po’ per uno, e se ne sono fatte tante reliquie. Achille Maffeis desiderava che gli cedesse il suo cappello!!! Volgendosi al capitano Musletti gli raccomandò l’istituzione del bersaglio e che vi lasciasse esercitare ogni ceto di persone. =Abbiamo bisogno di tutti per far l’Italia= e siccome Musletti usava il titolo di eccellenza, qual si conviene a generale =Che eccellenza, disse, che eccellenza, datemi del voi, che noi siamo tutti amici=. E Musletti lo assicurava che fra poco tempo il bersaglio sarebbe stato un fatto. =Non fate spese, diceva Garibaldi, alcune buone carabine e un segno in qualsisia luogo fuori di pericolo, ecco, il bersaglio è bello e pronto=. Diede buone parole a tutti, e parlando con una bontà indicibile e modestia senza esempio; se fosse stato il caso, ci avrebbe strascinati con lui con una buona arma. Montò poi in carrozza e volle che gli sedesse alla destra il soldato di Chiari mutilato, indi Bellazzi: egli si assise in avanti: qui fu una gara di riguardi tra tutti e tre: il povero soldato a vedersi messo in tanto onore era tutto confuso e mortificato: però la vinse Bellazzi che fece sedere il generale alla sinistra del soldato in mezzo a fragorose acclamazioni. Prima di discendere le scale del comune il Gaetano Besozzi si presentò a Garibaldi chiedendolo del favore di un bacio per farne parte ai militi della guardia: se ne ricambiarono due e proprio di buon gusto: il generale poi raccomandò anche a Besozzi il tiro del bersaglio. Besozzi si presentò alla guardia e, dato il bacio di Garibaldi, la fece dividere in due colonne perché vi passasse in mezzo. Al passaggio della carrozza la guardia gridò un sifatto evviva da assordare il mondo. Egli partiva per Chiari alle 4 e mezza: lo seguirono molti dei nostri, che nol poterono fare a meno, edificati e rapiti dalla bontà, semplicità e modestia di quest’uomo tanto glorioso. La banda suonava la sua marcia: buona parte di popolo gli tenne dietro più che oltre la porta sempre gridando i suoi evviva. Vanitosi che ambite dei titoli per farvi apprezzare, specchiatevi in quest’uomo che vi condanna! Noto che molti di Ludriano e la guardia si trovarono al ponte della Razzica per salutare il generale, e che a Roccafranca non si videro che fanciulli che giocavano per strada. Dirò inoltre, ad onore di Cabrini affittale di terra Verde, che la mattina di questi dì lasciò liberi d’ogni lavoro i suoi contadini e li mandò agli Orzi a vedere Garibaldi, e così fece coi suoi dipendenti Parazzoli e diversi altri, i quali per soddisfare ai loro desiderii eransi inoltrati sino a Soncino. L’Arciprete non volle presentarsi a Garibaldi, benché l’Avv. Gnaga fosse la sera antecedente andato a parlargli in proposito. Difatti egli stette in chiesa a vedere i sacristi a mettere su l’apparato delle Qurant’Ore, e l’italofobo prete Salvetti per non essere presente all’ingresso del generale andò a passeggiare sulla strada di Malpaga: così nessun altro prete si è fatto vedere. Oggi poi 14 alle 3 pomeridiane, entrando in sacrestia, vidi l’arciprete e il prete Seotti, i quali bisbigliavano sommessamente, forse per riguardo del sacrista che era poco lontano, ma si capiva che parlavano della nostra presentazione a Garibaldi: ad un tratto sopravviene il prete Salvetti, e unitosi a loro lo sentii a scappar fuori con queste espressioni =Quando si saprà la cosa e che capiterà loro la scomunica, andranno da Garibaldi a farla levare=. Però se non ci venne la scomunica, si è però fatto il possibile per altre robe. Prima di tutto il prete Salvetti cercò per mare e per terra di poter aver copia dell’indirizzo da noi fatto a Garibaldi, ma le sue ricerche riuscirono inutili perché non l’aveva che io solo. Poi si è scritto al Vescovo che Zappamiglio aveva offerto un fiore a Garibaldi, mentre gli era stato presentato dal Reverendo Paroli parroco di Barbarica, al quale il generale disse cortesemente che lo regalasse a qualche signora; che ne l’avvenne? Che a noi curati venne limitata la confessione alla sola parrocchia. Ma Zappamiglio, andato dal Vescovo, espose le cose come erano state, e non se ne parlò più. Fu revocata la limitazione, e gli altri restarono con un bel palmo di naso”.
A pochi mesi dalla visita ad Orzinuovi, Garibaldi organizzò una spedizione di volontari per liberare Roma. Il ritrovo per i suoi 3.000 seguaci venne fissato in Calabria per ripetere le gesta dei Mille. Il Governo italiano, temendo di guastare i rapporti con l’alleato francese, mandò un battaglione dell’esercito per fermarlo. Il 29 agosto 1862 in una scaramuccia in Aspromonte il generale venne ferito da due pallottole, che lo colpirono all’anca sinistra ed al malleolo interno del piede destro. Arrestato, venne tradotto al forte di Varignano presso La Spezia. Don Francesco Perini raccolse nella sua “Cronaca” le reazioni che si ebbero ad Orzinuovi non appena giunsero le notizie dei fatti.
“31 Agosto. Ieri sera si sparse la voce che Garibaldi era stato ferito e fatto prigioniero in fondo alla Calabria, in una mossa ch’egli tentava sopra Roma. Se ne concitarono tanto gli animosi che ne sorse un generale mormorio. Non si sapeva come la faccenda fosse stata. Questa mattina, festa di S. Bartolomeo, fu un correre ai caffè per le gazzette, e trovato vero il fatto ed accaduto ad Aspromonte, si rincalzarono i mali umori. Alle 4½ la banda suonò in piazza ed eseguito l’inno di Garibaldi furono fatti evviva e battimani all’indirizzo del generale, quasi protesta e disapprovazione dell’operato del governo che si lasciava troppo imporre dalla politica di Napoleone. Suonati alcuni pezzi di musica si gridò l’inno di Garibaldi. Il maestro Derada dimostrò da principio qualche esitazione, poi lo suonò, e successe un tal fracasso di evviva e battimani da assordar il mondo.
Questa sera tre garibaldini, avendo tra il giorno poco misurato il vino, si appostarono ad uno dei nostri caffè, dove stava l’assessore ingegner Pavoni, e fingendo discorrere fra loro, uno disse: Di che gente mai è composta la nostra giunta? E l’altro rispose: =Io te lo dirò: i nostri assessori sono, un pizzicagnolo e bottegaio (Bezzi), un ignorante falegname (Bordiga) ed un misura-letame (l’ing. Pavoni)=. Dissero altri spropositi che degenerando in insolenze obbligarono a far uso di prudenza e lasciare il caffè”.
“6 Settembre. Diversi giovanotti combinarono per questa mattina una messa solenne per la guarigione di Garibaldi. Venne cantata alle dieci. Il concorso fu quasi di giorno festivo. Alla porta si leggeva questa semplicissima epigrafe di Gnaga =Dio conservi all’Italia la grande anima di Garibaldi=”.
“20 Ottobre. Le incerte notizie sullo stato di Garibaldi, che era stato trasportato al Varignano per esservi guarito e custodito come prigioniero, hanno indotto l’Avv. Gnaga a presentare al Consiglio una mozione per ottenere che venisse mandato al Varignano il Dr. Martinelli a prendere vera ed esatta cognizione del suo stato, con l’incarico di presentarsi al generale, salutarlo a nostro nome e fargli conoscere quanto ci stesse a cuore la sua salute. I consiglieri erano dieci: la proposizione fu ammessa ed accettata l’esibizione del Martinelli di viaggiar a sue spese. Gli fu quindi consegnata la credenziale colla copia della deliberazione del Consiglio”.
“21 Ottobre. Il Dottore è partito: ma oggi il giornale accenna a notizie inquietanti, sicché siamo tutti perplessi. Al paese è piaciuta l’andata del dottore: i caudatari brontolarono, ma l’hanno fatto fra i denti e stettero lì e vi staranno”.
“27 Ottobre. Il Dr. Martinelli è ritornato questa sera. Raccontò che nell’andar a Genova fu preso da panico timore ad un punto della via ferrata per un accidente che sa egli. =Tu, mi diceva, devi sapere che noi medici siamo tutti timidi= e n’ebbe la febbre per due giorni, sicché rimase in città a curarsi. Narrò poi che nel frattempo avea sentito dire che era difficile in quei momenti l’accesso a Garibaldi che dal Varignano era stato trasportato alla Spezia. Avendo però saputo che la figlia del generale si trovava poco fuori di Genova andò a presentarsele dichiarando lo scopo della sua missione, ed essa si incaricò di darne contezza a suo padre. Rilasciò poi al Dottore un suo autografo, nel quale ringraziava gentilmente il Consiglio delle sue attenzioni e lo assicurava che non avrebbe mancato di metterne in cognizione il prigioniero. Il Dottore quindi comunicava il suo operato al Comune, e così fu conchiusa questa gita come quella di chi andò a Roma senza veder il Papa. Al Dottore pareva dalle gazzette che Garibaldi, per quanto avesse intorno medici e chirurghi di fama europea, non fosse curato bene, e lo diceva a Gnaga, e Gnaga, amen, lo credeva”.
A suggello e ricordo della memorabile visita di Garibaldi ad Orzinuovi, venne posta nel 1863 una lapide sotto la finestra da cui aveva arringato la folla, come ricorda il Perini:
“4 Luglio. Natalizio di Garibaldi. Alle 5 pomeridiane fu collocata una lapide commemorativa del suo passaggio sotto la finestra del Comune dalla quale ha parlato. L’epigrafe l’ha fatta Bellegrandi ed è questa:
IL 12 APRILE 1862
GIUSEPPE GARIBALDI
DA QUI
ARRINGAVA IL POPOLO
PEL RISCATTO DI ROMA E VENEZIA
La lapide era stata deliberata dal Consiglio. Sulla sera la banda vi andò dirimpetto a suonarvi la solita marcia. Pochi giorni dopo la contrada di Porta nuova fu chiamata Garibaldi, questo nome nella leggenda fu sostituito al vecchio. E anche questo per deliberazione consigliare provocata in questa primavera da una petizione firmata da molti del paese”.
Nel 1881, come ricorda don Francesco Perini nella sua Cronaca, le parole della lapide vennero rinfrescate con inchiostro nero:
“12 Aprile. Per deliberazione della nostra Società Operaia fu fatta rinnovare a nero l’epigrafe della lapide posta al Palazzo Comunale ricordante il passaggio di Garibaldi, e oggi vi è stata collocata una bellissima ghirlanda”.
Da notare che la contrada di Porta nuova è l’attuale Via Cavour. L’anno seguente il compleanno di Garibaldi venne festeggiato sobriamente:
“4 Luglio. Natalizio di Garibaldi. Una ghirlanda copriva la pietra posta al Comune. Alla sera la banda percorse la piazza e le carrobbe”.
Il ricordo del generale era ancora vivo a vent’anni dalla sua visita e la sua popolarità sempre altissima presso gli oceani quando, il 2 giugno 1882, Giuseppe Garibaldi esalava l’ultimo respiro nel suo volontario ritiro di Caprera. Il cordoglio unanime della popolazione e la partecipazione dell’Amministrazione civica al lutto nazionale sono testimoniati sempre dal Perini negli ultimi fogli della sua cronaca.
“3 Giugno. Un telegramma di questa mattina annunciava la morte di Garibaldi avvenuta jeri a Caprera. Furono esposte dieci o dodici bandiere abbrunate. Anche il Municipio mise fuori la sua e differì ad altro giorno la festa dello Statuto che doveva aver luogo domani. A mezzodì e sulla sera il Municipio volle una scampanata da morto, e fu fatta”.
“4 Giugno. Al Municipio era esposto il verbale della nostra Giunta che per Garibaldi stabiliva un lutto di dieci giorni, di farsi rappresentare a’ suoi funerali o a Caprera o a Roma, di concorrere con lire duecento al monumento da erigersi in Brescia, di dispensare lire duecento ai poveri, di telegrafare condoglianze alla famiglia, di far suonare la banda alle otto di questa sera e di farla girare per la piazza suonando marce funebri, il che fu fatto portandosi in giro le abbrunate bandiere del Comune e della Società Operaia, e si terminò colla solita marcia di Garibaldi. Inoltre la giunta stabilì o meglio propose che si pensasse anche a fargli uffici funebri in modi puramente civili”.
“8 Giugno. Un avviso a mano faceva appello a tutti gli amici, conoscenti ed ammiratori (sic) di Garibaldi a radunarsi nella sala del Circolo per trattare sui modi onde in un tal dì far onore alla memoria del defunto generale. Gli intervenuti saranno stati circa sessanta. Vi tenne la presidenza Giuseppe Zambelli, sacco di vino e cechetti, il quale garbugliò su qualche parola facendo vista d’una commozione che non gli toccava i denti. =Signori, egli disse, noi siamo qui… non so come far a parlare: loro lo sanno che è morto Garibaldi, e noi siamo qui per questo. A stento posso frenar le lagrime: dimando scusa se la parola non mi viene, tanto la sventura mi ha colpito. Garibaldi non è più: basta, la sua morte è per l’Italia una perdita irreparabile, e noi siamo qui per stabilire i modi onde farne condegna commemorazione. Propongano e si delibererà=. Furono fatte varie proposte, e in fine si stabilì di innalzare un monumento che comprende la medaglia del Re Vittorio Emanuele, di Cavour e di Mazzini, con sopra il busto di Garibaldi, che in un giorno da destinarsi e nel teatro messo a lutto se ne farà commemorazione con discorso dell’ing. Pavoni o del Signor Gabriele Rosa, e che alla sera stessa vi sarà illuminazione in via Garibaldi con banda e fiaccolata. Per il momento si aperse tra i presenti una sottoscrizione che produsse 147 lire, e si elesse una commissione di sette individui per continuarla in paese.
Non posso ommettere di riferire quanto segue. Quando il 3 è fioccata in paese la notizia della morte di Garibaldi il nostro Municipio se ne volle assicurare telegrafando alla Prefettura, e quando ne fu certo, mandò all’Arciprete pel suono delle campane. L’Arciprete si oppose, ma quelli del Municipio diedero due lire ai campanari i quali secondo gli ordini comunicati suonarono alla distesa alla mattina e prima di sera, e tennero tanto lungo lo scampanio da seccare le scatole anche ai più sordi. All’ora del rosario l’Arciprete, approfittando della circostanza, si mise a declamare contro il Municipio che avesse invaso i diritti del parroco, e a protestare contro questo abuso di potere, e lo denunciava al pubblico perché si sapesse chi aveva fatto suonare. Poi venendo a parlar più chiaro disse che le campane di un popolo cattolico non dovevano profanarsi suonando per la morte di un empio, che era sempre stato nemico dei preti, del Papa, della Chiesa, della religione, che già era stato giudicato da Dio, che nella sua giustizia sarebbe stato impossibile e che certo l’avrà sentenziato agli eterni abissi, e tante altre cose. Le persone presenti a questa inaspettata predica ne parlarono fuori di chiesa sicché in un baleno ne corse la notizia in paese. Ne fu censurato l’arciprete e la più piccola taccia fu quella d’imprudente. Difatti era una scappata un po’ grossa. Quando venne a notizia della nostra Giunta non è da dirsi se ne ebbe a male, e compatendo all’uomo che avea fatta, credette di non prendersene alcuna vendetta, e invece se la prese poveretta! Con Dio”.
“11 Giugno. La sera del 9, quando già si erano fatte dal Municipio suonar le campane, il Vescovo scriveva all’Arciprete quanto segue:
Brescia 9 Giugno 1882.
Al M.R. Arciprete Parroco e Vicario Foraneo Orzinuovi.
Abbiamo conosciuto con vero dolore, che si suonarono i sacri bronzi in codesta parocchia per la morte del generale Garibaldi. Noi crediamo che Ella non avrà mancato di protestare contro di codesto arbitrio lesivo dei sacri diritti della Chiesa ed offensivo della religione di codesti parocchiani. Ma vogliamo che questi sappiano che il vescovo le riprova con dolore, e si associa a loro nel dispiacere di simili arbitri che spera non si rinnoveranno.
Di cuore impartiamo a Lei e alla parocchia la pastorale benedizione.
Girolamo Vescovo”.
Come si vede, lo scontro ideologico tra lo Stato italiano e la Chiesa Cattolica, a dodici anni di distanza dalla presa di Roma, era più che mai vivo e ben lungi dall’essere risolto. Dopo la morte del generale si costituì ad Orzinuovi un comitato con lo scopo di raccogliere fondi per erigergli un monumento. Nelle sue ultime annotazioni il Perini dà conto dei risultati conseguiti a poco più di un anno di distanza:
“1883. Nella seduta dopo il 10 settembre degli offerenti pel monumento Garibaldi, furono presentati diversi disegni e i loro prezzi di esecuzione. Se ne vuol fare uno bello, ma i mezzi… Con mille e duecento lire si può far poco per decorarne la piazza e onorare un uomo che tanto ha operato per quella unità d’Italia che senza lui Dio sa quando sarebbe stata raggiunta. Per aumentare il suddetto fondo si pensò di aprire il teatro per due recite: e così fu fatto l’ultimo dell’anno e il primo di questo. Quanto siasi raccolto, non so: so però che dopo la prima recita si è lautamente cenato all’albergo Facchetti e che si è ballato fino alle quattro dopo mezzanotte. E via allegri!”.
In effetti il monumento commemorativo dell’eroe venne collocato davanti all’entrata della rocca nel 1884. Si trattava di un busto marmoreo sostenuto da un alto basamento, circondato da una aiola con alcuni abeti intorno, come si può ancora vedere in una vecchia cartolina. Nel 1931, auspice la locale Società Operaia, il monumento venne sostituito con una statua in bronzo ben più significativa che ritrae un Garibaldi arrembante al timone di una nave. La piazza antistante da allora prese il suo nome, scambiandolo con quello di Cavour.
E’ doveroso ricordare che Orzinuovi ha dato i natali ad un garibaldino caduto a Palermo nelle prime fasi dell’epica imprese dei Mille. Il municipio ne volle conservare la memoria ai posteri dedicandogli una lapide murata accanto all’ingresso del Palazzo Comunale, recante le seguenti parole:
A RINALDO BONTEMPO
ORCEANO
UNO DEI MILLE
MORTO A PALERMO
VALOROSAMENTE COMBATTENDO
27 MAGGIO 1860
Nella prima annotazione, in apertura del 1861, don Francesco Perini ricorda il concittadino patriota caduto in Sicilia e ci dà notizie di grande interesse sugli altri garibaldini orceani, tramandandocene l’elenco completo:
“14 Gennajo. Il nostro Bontempo Rinaldo, uno dei mille, era caduto a Palermo il 27 Maggio dell’anno scorso. Più volte io avea proposto un ufficio solenne per lui. Parlava ai sordi. La gratitudine si confondeva col danaro. Tornati a casa i garibaldini Deprà Gio., Torri, Bettinzioli. Maffini, Maccarani, Fioretti Leopoldo e Varani, e veduta la dimenticanza del loro confratello, ordinarono essi l’ufficio che fu celebrato oggi. Non fecero inviti, non vollero guardia: essi si sono posti intorno al catafalco nella divisa che usavano al campo. Vi intervenne il Pretore Bonetti con tutti i suoi impiegati, e qualche comunale. La chiesa era affollata di gente. Alla porta si leggeva la seguente mia epigrafe: per queste robe io era sempre in ballo. =Onori funebri fatti dai suoi compagni d’armi - a Bontempo Rinaldo – che uno dei mille sbarcati a Marsala – cadeva a Palermo – il 27 Maggio 1860 – nelle gloriose battaglie – per l’unità e la libertà – d’Italia=.
Una società volendo onorare i nostri prodi Garibaldini li invitò ad una cena nell’albergo di Facchetti, dove il Dr. Martinelli lesse due parole di lode e incoraggiamento per loro e Bellegrandi un brindisi a Garibaldi. La cena fu inaspettatamente rallegrata dalla nostra banda. Circa le 8 ½ vi intervenne anche il Sindaco fra i soliti evviva. A ora tarda terminò il divertimento con soddisfazione degli invitati e della società che era composta di ventitre persone.
Qui colgo l’occasione di ricordare che furono garibaldini anche Giuseppe Pavoni fu Paolo che si ammalò a Messina, un Bresciani, Corniani Battista, che sono tuttora sotto le armi e Castelvedere che essendo di linea disertò da Alessandria, e tornato in paese vi fu arrestato per essere tradotto là dond’era fuggito. A questi garibaldini era unito anche quel lazzarone di Tenchini Dionisio, che per fare tutti i mestieri ebbe sempre nessuna voglia di farne uno”.
Se Bergamo, per aver fornito 174 volontari, si è meritata la fama di “Città dei Mille”, nondimeno Orzinuovi per aver dato a Garibaldi ben 13 camicie rosse, e per averlo concretamente sostenuto, credendo alla temeraria impresa del 1860, può a buon diritto fregiarsi del titolo di “Garibaldina”. Oggi il destino dell’Italia sta virando verso un Paese federale in una Europa Unita e pacificata. Non si devono tuttavia dimenticare gli ideali e il sacrificio dei protagonisti del Risorgimento nazionale che si spesero per una Patria unica degli italiani, libera dallo straniero e solidale.