Straga
Riascoltami tra 30 anni
Magia.
Si chiama magia quel qualcosa che aleggia nell’aria, che ci teleporta nei ricordi e ci fa cantare guardando al futuro, che ci fa innamorare, piangere, ci accompagna per mano per tutta la vita, fischiettando al passare delle nuvole.
Ma si può chiamare anche musica.
Musica, magia e sogni sono sempre andati a braccetto, fin da quando ero bambino. Nella mia puerile ignoranza, musica erano per me le canzonette romantiche di San Remo, le sigle dei cartoni giapponesi o quelle di Domenica In e Portobello.
Uno dei sogni ad occhi aperti più ricorrenti di quel tempo era quello di poter avere sempre con me quella magia, di non dover aspettare che uscisse dal piccolo schermo in bianco e nero della cucina.
Mentre mio padre guidava tornando dalla campagna, sulla piccola discesa di Viale Jonio prima di arrivare in città, la nostra auto diventava una micidiale navicella spaziale. E volando, correvo in soccorso di Goldrake, mentre la musica d’attacco di Ufo Robot riecheggia da giganteschi altoparlanti distribuiti su tutta la città.
Era il mio modo di immaginare la magia della colonna sonora portatile. Avevo sette anni.
A diciannove, l’ortopedico che mi comunicò sbrigativamente che avevo chiuso con il calcio, mi ordinò tanta fisioterapia e molta corsa su un terreno soffice, se non volevo rimanere zoppo.
Decisi che il mio campo di grano andava più che bene. E se Rocky aveva potuto risollevarsi e battere Mister T, anch’io avrei potuto farcela a tornare un bravo calciatore. Registrai speranzoso tutta la colonna sonora del film su una cassetta al cromo e rispolverai un “walkman” portatile regalo del precedente natale. Ma la magia non funzionò: le cuffie non aderivano e mi distraevano dall’andatura, la cassetta saltava ad ogni metro e le pile dopo appena mezz’ora erano già quasi scariche. Il sogno di ascoltare Gonna Fly Now mentre ritrovavo finalmente il mio passo, si era infranto miseramente. Così come quello di tornare a correre sulla fascia destra in una gara importante.
Oggi ho trentanove anni. Una pasquetta insolita trascorsa lavorando all’ombra di ciminiere e scritte in cirillico, in questa landa desolata sulla sponda del Volga. L’aria è tersa e fa quasi caldo. E ho tanta voglia di correre. Torno in camera, metto le scarpette e la tuta, poi distrattamente guardo la scrivania dove giacciono in un caos controllato, il computer e altri giocattoli elettronici.
Ma soprattutto, un paio di cuffie ultramoderne, ultraleggere, ultraultra, e il mio telefonino.
Prodigio della tecnologia, tanto sottile da sembrare fragile, ma capace di connettermi con l’altra parte del mondo, con un portale che ne sa più di Al in persona e con tanta di quella musica dentro, che di cassette al cromo ce ne vorrebbero cento.
Li unisco, come Jeeg univa i suoi pugni. Indosso le cuffie. Premo un tastino ed inizio a correre.
E trovo finalmente la magia. Dopo trent’anni. Non c’è un nastro che salta, non c’è una pila che si scarica. Le cuffie sono così leggere ed anatomiche che un’orchestra senza gravità sembra voli sulla mia la testa, mentre un microchip solerte sceglie per me una sequenza casuale per assecondare i miei passi e i miei battiti.
Arriva un Baldan Bembo che mi porta nel letto grande, quello della mamma, con la febbre e la borsa d’acqua calda, e un San Remo dell’81 dalla prima radiolina di famiglia. Poi gli Who mi ricordano che io e Paolo abbiamo rischiato di fare a pugni per un filone mal riuscito, ma poi Guccini, non restare, stai, non andare, vai. E le mie gambe vanno. Vanno che non sento più il peso, se non uno piccolo nella gola, che Joe Cocker lo sa, e mi porta sui titoli di coda di Carlito’s Way. So Beautiful, tutto quanto, mentre Morandi mi porta in Brasile, contro vento, soffia. E soffia la magia che già cambia colore e cambia parole e uno strumento orientale mi culla dolcemente, le ciminiere diventano palme, la steppa l’oceano indiano.
Musica, magia, sogno. E il sogno, finalmente, arriva.
Quel sogno, quella magia. Quella musica.
Tanto che non so se arrivi dalle mie cuffie o da quegli altoparlanti inventati dai miei sei anni, lungo la discesa di Viale Jonio.
Ma corro, con Actarus al mio fianco. Adesso, io corro.
www.youtube.com/watch?v=__Ff56dnBzA&feature=related
Riascoltami tra 30 anni
Magia.
Si chiama magia quel qualcosa che aleggia nell’aria, che ci teleporta nei ricordi e ci fa cantare guardando al futuro, che ci fa innamorare, piangere, ci accompagna per mano per tutta la vita, fischiettando al passare delle nuvole.
Ma si può chiamare anche musica.
Musica, magia e sogni sono sempre andati a braccetto, fin da quando ero bambino. Nella mia puerile ignoranza, musica erano per me le canzonette romantiche di San Remo, le sigle dei cartoni giapponesi o quelle di Domenica In e Portobello.
Uno dei sogni ad occhi aperti più ricorrenti di quel tempo era quello di poter avere sempre con me quella magia, di non dover aspettare che uscisse dal piccolo schermo in bianco e nero della cucina.
Mentre mio padre guidava tornando dalla campagna, sulla piccola discesa di Viale Jonio prima di arrivare in città, la nostra auto diventava una micidiale navicella spaziale. E volando, correvo in soccorso di Goldrake, mentre la musica d’attacco di Ufo Robot riecheggia da giganteschi altoparlanti distribuiti su tutta la città.
Era il mio modo di immaginare la magia della colonna sonora portatile. Avevo sette anni.
A diciannove, l’ortopedico che mi comunicò sbrigativamente che avevo chiuso con il calcio, mi ordinò tanta fisioterapia e molta corsa su un terreno soffice, se non volevo rimanere zoppo.
Decisi che il mio campo di grano andava più che bene. E se Rocky aveva potuto risollevarsi e battere Mister T, anch’io avrei potuto farcela a tornare un bravo calciatore. Registrai speranzoso tutta la colonna sonora del film su una cassetta al cromo e rispolverai un “walkman” portatile regalo del precedente natale. Ma la magia non funzionò: le cuffie non aderivano e mi distraevano dall’andatura, la cassetta saltava ad ogni metro e le pile dopo appena mezz’ora erano già quasi scariche. Il sogno di ascoltare Gonna Fly Now mentre ritrovavo finalmente il mio passo, si era infranto miseramente. Così come quello di tornare a correre sulla fascia destra in una gara importante.
Oggi ho trentanove anni. Una pasquetta insolita trascorsa lavorando all’ombra di ciminiere e scritte in cirillico, in questa landa desolata sulla sponda del Volga. L’aria è tersa e fa quasi caldo. E ho tanta voglia di correre. Torno in camera, metto le scarpette e la tuta, poi distrattamente guardo la scrivania dove giacciono in un caos controllato, il computer e altri giocattoli elettronici.
Ma soprattutto, un paio di cuffie ultramoderne, ultraleggere, ultraultra, e il mio telefonino.
Prodigio della tecnologia, tanto sottile da sembrare fragile, ma capace di connettermi con l’altra parte del mondo, con un portale che ne sa più di Al in persona e con tanta di quella musica dentro, che di cassette al cromo ce ne vorrebbero cento.
Li unisco, come Jeeg univa i suoi pugni. Indosso le cuffie. Premo un tastino ed inizio a correre.
E trovo finalmente la magia. Dopo trent’anni. Non c’è un nastro che salta, non c’è una pila che si scarica. Le cuffie sono così leggere ed anatomiche che un’orchestra senza gravità sembra voli sulla mia la testa, mentre un microchip solerte sceglie per me una sequenza casuale per assecondare i miei passi e i miei battiti.
Arriva un Baldan Bembo che mi porta nel letto grande, quello della mamma, con la febbre e la borsa d’acqua calda, e un San Remo dell’81 dalla prima radiolina di famiglia. Poi gli Who mi ricordano che io e Paolo abbiamo rischiato di fare a pugni per un filone mal riuscito, ma poi Guccini, non restare, stai, non andare, vai. E le mie gambe vanno. Vanno che non sento più il peso, se non uno piccolo nella gola, che Joe Cocker lo sa, e mi porta sui titoli di coda di Carlito’s Way. So Beautiful, tutto quanto, mentre Morandi mi porta in Brasile, contro vento, soffia. E soffia la magia che già cambia colore e cambia parole e uno strumento orientale mi culla dolcemente, le ciminiere diventano palme, la steppa l’oceano indiano.
Musica, magia, sogno. E il sogno, finalmente, arriva.
Quel sogno, quella magia. Quella musica.
Tanto che non so se arrivi dalle mie cuffie o da quegli altoparlanti inventati dai miei sei anni, lungo la discesa di Viale Jonio.
Ma corro, con Actarus al mio fianco. Adesso, io corro.
www.youtube.com/watch?v=__Ff56dnBzA&feature=related