Poiatti
G8 2001
www.flickr.com/photos/hansoete/2953432/
da Liberazione
G8 2001. Un documento pubblicato da "Repubblica" conferma alcune reticenti dichiarazioni dell'allora ministro Scajola
A Genova agenti Usa con licenza di uccidere
Nelle istituzioni c'è chi sa, interroghiamolo
Graziella Mascia
Infatti, il quotidiano la Repubblica ha riportato, in questi giorni, stralci di un documento nelle mani della magistratura genovese, secondo il quale, durante i giorni del G8, un contingente di militari e agenti dei servizi statunitensi era stato autorizzato all'uso della armi sul territorio italiano, ed era pronto a sparare per fermare eventuali aggressioni ai propri rappresentanti istituzionali. Tale documento verrebbe utilizzato dal procuratore generale di Genova, Ezio Castaldi, per ricorrere contro alcuni dei 25 manifestanti, accusati di devastazione e saccheggio e infliggere loro condanne più dure. Il tribunale aveva infatti riconosciuto loro di essersi trovati, allora, in via Tolemaide, in una situazione di guerriglia, causata da un plotone dei carabinieri che caricò all'improvviso le tute bianche, mentre era diretta in altra parte della città. Secondo il procuratore, invece, l'intervento dei carabinieri in tale circostanza, non fu determinato da un errore, ma dalla necessità che «entrassero in azione, e con mezzi estremi, le forze di sicurezza degli stessi stati partecipanti al G8». Il procuratore precisa inoltre che «dette forze di sicurezza, per lo più statunitensi, erano infatti dislocate ampiamente nella zona rossa.... ed erano pronte alla reazione immediata ed armata...».
Mi è tornata immediatamente alla memoria l'audizione svolta al Senato il 21 febbraio 2002, dall'allora ministro dell'Interno Scajola, con i parlamentari della commissione Affari costituzionali di Camera e Senato.
In quell'occasione Scajola si era scusato, e aveva dovuto chiarire alcune dichiarazioni "in libertà", rilasciate a giornalisti, nelle quali aveva detto tra l'altro: «..fui costretto a dare l'ordine di sparare se avessero sfondato (o violato) la zona rossa.... presto forse sapremo quali disposizioni qualcuno aveva avuto». Naturalmente l'audizione non chiarì a chi si riferisse il «qualcuno» e il ministro smentì le sue stesse parole, riconoscendo che nessuno, secondo le leggi italiane, può dare l'ordine di sparare, poiché questa estrema ed eccezionale scelta attiene all'esclusiva responsabilità di chi opera in una determinata circostanza. Precisò, inoltre, che il riferimento all'uso delle armi riguardava le preoccupazioni di quei giorni per gli attacchi terroristici al presidente Bush.
Aggiungo che, nel corso dell'indagine parlamentare svolta dopo i fatti del luglio 2001, l'allora questore di Genova ha sostenuto tenacemente che il corteo delle tute bianche non era autorizzato, fino a quando gli esponenti del Genova social forum non hanno esibito le carte prodotte proprio in questura.
Non solo, dunque, ogni particolare che viene disvelato dovrebbe essere usato a difesa dei 25 manifestanti, ma dovrebbe spingere a fare davvero piena luce su una vicenda che ancora ci inquieta e ci indigna, e che offre un'immagine dubbia della democrazia nel nostro paese.
Queste limitate, ma importanti, notizie confermano, tra l'altro, quanto sostenni nella relazione di minoranza in parlamento, e cioè che il G8 di Genova non fu un affare solo italiano, e che la gestione delle forze dell'ordine, fin dalla preparazione, ebbe una regia internazionale.
In questi giorni, per la prima volta, ho pensato che forse non ci sarà mai giustizia per chi, alla scuola Diaz, nelle vie di Genova, o a Bolzaneto è stato picchiato o torturato.
Sul piano delle responsabilità individuali, infatti, la magistratura ha fin qui dimostrato tutti i suoi limiti, sia per le difficoltà oggettive di riconoscere gli autori dei reati, sia per la reciproca copertura tra esponenti delle forze dell'ordine presenti in quelle occasioni.
Anche per questo, rimane particolarmente insopportabile la bocciatura della proposta di legge per l'istituzione di una commissione d'inchiesta parlamentare, che almeno ricostruisse i fatti, e ci restituisse un riconoscimento collettivo su quanto effettivamente avvenuto.
Quel voto non ha solo archiviato le vicende di Genova fra i tanti misteri italiani, ma ha probabilmente impedito definitivamente a molti ragazzi che da anni chiedono giustizia di recuperare la fiducia nella politica e nelle istituzioni.
Ora non ci si attende neanche più il risarcimento morale di conoscere la verità circa le responsabilità politiche e istituzionali, e per questo sono suonate particolarmente apprezzabili le parole del procuratore Zucca nel processo della Diaz, quando ha sostenuto che «le colpe di chi porta la divisa sono molto più gravi di qualunque azione dei black bloch».
Contro questa condizione di impunità di poliziotti, carabinieri, ecc. non ci si può rassegnare.
Perciò, questo ennesimo squarcio che ci offre il documento depositato presso l'ufficio impugnazioni del tribunale di Genova, deve essere l'occasione per tornare ad interrogare chi occupa rilevanti incarichi istituzionali. Non si può pensare di ospitare nel 2009 una riunione del G8 in Italia, quando sono ancora aperte ferite così profonde nella nostra memoria e nella nostra democrazia.
Checchino Antonini
Genova - nostro inviato
Di più o di meno dello scorso anno? La memoria distorce i ricordi: nessuno sa dirlo con precisione tra le centinaia di persone che domenica scendevano per via Venti verso Piazza Alimonda
Checchino Antonini
Genova - nostro inviato
Di più o di meno dello scorso anno? La memoria distorce i ricordi: nessuno sa dirlo con precisione tra le centinaia di persone che domenica scendevano per via Venti verso Piazza Alimonda. Era il 20 luglio di sette anni fa che la pistola di un carabiniere ammazzava un ventitreenne che s'era trovato incastrato nelle cariche illegittime contro un corteo regolarmente autorizzato che voleva solo contestare il G8. S'è marciato seguendo la banda senza nome di musicisti rom, gli stessi che suonano nei vicoli del centro. Un lenzuolo bianco colorato da mani intinte nella vernice e, più tardi, la decorazione con impronte digitali della piazza denunciano il razzismo dei governanti contro i bambini rom. Gli slogan e gli applausi rimbombano sotto il Ponte monumentale dedicato ai partigiani: "Carlo è vivo!". Gracchia la radio di uno della digos che a manifestare sono in 500 e altrettanti saranno già in piazza. Giuliano Giuliani, che ha fortemente voluto questo corteo, conta almeno 800 partecipanti. Avanti a tutti marcia, tenendosi a braccetto con Haidi, un gruppo di madri, sorelle, figlie. Stefania, la mamma di Renato Biagetti che lotta perché l'omicidio di suo figlio non sia rubricato alla voce "rissa tra balordi", proprio come fa Rosa, la mamma di Dax. Ci sono la sorella di Iaio, ucciso trent'anni fa dai fascisti col suo compagno Fausto, e c'è Natascia, la figlia di Giuseppe Casu, ucciso dalla malapsichiatria che l'ha legato a un lettino di contenzione per sette giorni. Anche di Carlo si dice che aggredì con l'estintore anziché che provò a difendersi.
In Alimonda Andrea Rivera ha dedicato uno dei suoi blues a Carlo, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, raccontando di un'Italia di ecomafie, lavoro nero, diritti negati, cocaina nell'aria, nuvole di Fucksas per cantarci sotto "Piove governo ladro". Non l'avessero ucciso, Carlo avrebbe avuto trent'anni, l'età in cui aveva promesso a Enrico, per tutti Gogo, che avrebbero aperto un bar insieme: «Sette anni fa ha pagato il prezzo più alto - ha letto Enrico dal palco - e il giorno dopo i violenti eravamo noi». La memoria è dolore: Carlo aveva 17 anni quando lesse, per un servizio tv, le lettere dei condannati a morte della Resistenza. Domenica la sua voce registrata è risuonata a ridosso delle 17,27, l'ora dell'omicidio per il quale non c'è mai stato processo. Lettere di ragazzi come lui che chiedevano scusa alle famiglie ma non avevano nulla da rimproverarsi. Sulla cancellata della chiesa tornano gli striscioni, le poesie scritte sui fogli di quaderno, i quadri. In piazza, tra gli altri, don Gallo, alcuni dei portavoce di quel luglio - Raffaella Bolini, Vittorio Agnoletto, Alfio Nicotra, Luciano Muhlbauer, che il giorno prima avevano partecipato alla discussione sul prossimo G8 alla Maddalena - e tanta gente di sinistra e di Rifondazione genovese e nazionale, Paolo Ferrero, Claudio Grassi, Giovanni Russo Spena, Tiziana Valpiana. «Un dovere politico esserci - spiegano - specie dopo la scandalosa sentenza che ha finto di non vedere la tortura a Bolzaneto». A un angolo della piazza, quello che sembra il più alto in grado dei digossini ordina: «Bisogna capire che vuol dire quel 25!». Gli dev'essere sfuggito il tg regionale che ha mostrato alcune delle vittime di Diaz e Bolzaneto respinte poco prima del corteo all'ingresso di Tursi, il municipio, perché avevano indosso una maglietta con quel numero stampigliato. 25 come i manifestanti condannati per devastazione e saccheggio, scelti a casaccio tra i 300mila per obbedire a un teorema e contro cui il predecessore di Vincenzi aveva provato a costituirsi parte civile. Volevano solo dire alla nuova sindaca (che punta a ospitare l'agenzia Ue per i diritti umani e che domenica ha ricevuto alcune delle vittime della Diaz) che «Genova non può essere una città dei diritti finché i responsabili delle violenze e delle torture continueranno a occupare posizione di comando e a essere promossi».
da Il manifesto
GENOVA 2001 Tre giorni per non dimenticare
A piazza Alimonda, sette anni dopo
A. F.
GENOVA
Il 20 luglio 2001 la morte di un genovese di 23 anni, Carlo Giuliani, a piazza Alimonda. Il 21 l'assalto di decine di poliziotti ai comandi dei vertici della polizia di Stato alla Diaz di notte che si concluse con 98 feriti alcuni a rischio vita, tutti comunque agli arresti: è per ricordare questi eventi che oggi si va a piazza Alimonda con un corteo che parte da piazza De Ferrari nel primo pomeriggio per essere là, ancora una volta, alle 17,27 il momento esatto in cui sette anni fa partì il colpo da un Defender che uccise Carlo Giuliani ragazzo, come fu scritto sulla targa dell'insegna stradale. E' per questo che domani sera dal quartiere di San Fruttuoso si sale per via Tolemaide e piazza Alimonda sino alla scuola in via Cesare Battisti ad Albaro.
Le due manifestazioni sono ormai un appuntamento fisso delle giornate a ricordo del G8 che ogni anno rilanciano nuovi temi di riflessioni attraverso dibattiti, incontri e mostre. Quest'anno però c'è una variante importante: il sindaco Marta Vincenzi riceverà le vittime della Diaz e Bolzaneto oggi alle 13 a Palazzo Tursi. Un recupero dell'immagine pubblica dopo la scelta dell'amministrazione precedente di non costituirsi parte civile ai processi Diaz e Bolzaneto contro gli imputati e di comparire tra le parti offese solo marginalmente per la rottura di alcuni telefoni nella scuola Pascoli sede del Media center.
Le ferite del G8 non sono rimarginate. C'è ancora il buco nero della caserma di Bolzaneto dove non si sono mai fatte marce e manifestazioni perché in quei giorni nessuno sapeva quel che avveniva là dentro. La sentenza di primo grado per Bolzaneto ha aperto un dibattito acceso, tanto che alcuni intendono presentare ricorso alla Corte di Strasburgo. E siccome tanti transitarono dalle botte alla Diaz ai soprusi a Bolzaneto, le vittime della scuola hanno chiesto di entrare per qualche ora nella palestra della Diaz. Soli, senza giornalista. Ma nonostante il parere favorevole del prefetto, le pressioni del sindaco Vincenzi, il nulla osta persino della Questura e le pressioni dell'associazione dei presidi, la direttrice della Diaz s'appiglia all'autonomia scolastica: «Continuiamo a sperare che la situazione si sblocchi - dice il consigliere comunale Antonio Bruno - si tratta solo di un incontro privato chiesto dalle vittime». Paradossalmente il direttore scolastico della media Pascoli, di fronte alla Diaz, ha dato invece l'autorizzazione per ospitare lunedì sera la proiezione di un video di ricostruzione dell'assalto.
Intanto proseguono in questi giorni gli incontri. Sia quelli a margine della mostra «Al lavoro-Genova chiama» allestita da Progetto comunicazione a Palazzo Ducale che quelli organizzati dal Comune. Stamattina al Munizioniere di Palazzo Ducale si parla di tortura insieme al presidente del comitato europeo per la prevenzione della tortura Mauro Palma e diversi altri. Domani alle 18 al circolo Arci conversazione con chi il G8 non l'ha visto perché troppo giovane. Alle 18,30 al teatro Garage di via San Fruttuoso Gloria Bardi presenterà il dossier Genova G8. Martedì pomeriggio tornando al Ducale, dibattito sul meccanismo repressione-violenza e la collaborazione fra le polizie europee con i sociologi Salvatore Palidda dell'università di Genova e Jean-Pierre Masse di Scienze politiche di Parigi e Matthias Monroy di Gipfelsoli Infogruppe. Martedì pomeriggio, Mario Portanova presenta a Palazzo Rosso «Inferno Bolzaneto» sulla requisitoria dei pm. E per chiudere un altro ritorno, quello dell'ex voce della Mano Negra, Manu Chao sabato 26 luglio alla Fiera del mare, a pochi metri da dove aveva tenuto il concerto nel 2001.
Movimento latino alla genovese
Nella città dove in questi giorni si ricordano i tragici avvenimenti del G8 2001, i centri sociali sono tornati al territorio e parlano latinoamericano con i Latin Kings e i Netas. E due forum sociali sono sopravvissuti all'eclisse. Radiografia di una galassia in perenne evoluzione
Alessandra Fava
GENOVA
Un torneo di calcio antirazzista. Con le tre organizzazioni di strada di latino-americani del centro sociale occupato Zapata di Sampierdarena (Latin Kings&Queens, Netas e Masters) in campo con ben quattro squadre. I sampdoriani dei Rude Boys, i genoani del quartiere di Certosa, un team marocchino. Uno per ogni centro sociale resistente (Zapata, Terra di nessuno, Humpty Dumpty) e un melting pot dell'Orchestra di piazza Caricamento con cinesi, italiani e senegalesi. La seconda edizione del torneo di calcio a sei a Sestri Ponente, in collaborazione con l'associazione Macaia e gli arbitri della Uisp, misura la temperatura agli spazi autogestiti genovesi insieme a una non stop al Forte Sperone arrivata alla settima edizione. E levatevi gli occhiali rosa: c'è chi insieme ai corner e ai falli dribbla un cpt sparso per la penisola, chi scarta burocrazie, tiene famiglia pur minorenne e cerca casa o si ritrova faccia a faccia in campo con chi quattro anni fa lo ha mezzo accoltellato.
Dalla lettura dell'oggi - leggi le campagne razziste lanciate dai media locali prima contro le bande dei latinos, poi su Sampierdarena, gli ecuadoriani e le loro fiestas e recentemente rom, Rumeni e prostitute - i centri sociali genovesi si giocano una nuova identità. La Buridda ha aperto a qualche festa peruviana o ecuadoriana. Il Tdn, che una chiave di lettura globale ce l'ha sempre avuta con Ya Basta, ha continuato le missioni in Chiapas e le campagne nelle scuole perché, «programmi come "Semillita del sol" raccontato all'istituto alberghiero Bergese dove il 30 per cento sono ecuadoriani fa sentire chi ci ascolta protagonisti», dice Simone di Ya Basta. Lo Zapata da un anno e mezzo ha coinvolto nell'occupazione i chicos delle organizzazioni di strada non esenti in passato da qualche rissa. Sono nati gli appuntamenti della domenica pomeriggio con centinaia di ragazzi lanciati nel reggaetton oltre a feste di strada all'aria aperta per chiamare a raccolta il quartiere. Il segno del successo è che mentre altri centri sociali cercano di mettere una toppa al tetto o riparare un muro, allo Zapata i chicos montano un gigantesco ventilatore a pale. «Il percorso con i chicos è stato per noi una scommessa. Nel pieno della campagna di criminalizzazione delle bande da parte di media e polizia, abbiamo deciso di aprire loro gli spazi del centro sociale - dice Matteo Jade - e, per quanto il cammino non sia stato sempre facile, i risultati sono molto positivi. Lo Zapata ha tratto da questa contaminazione una nuova linfa vitale. E gli stranieri non possono che essere una risorsa per la nostra vecchia città: scommettere sui giovani Hermanitos e sui giovani migranti è puntare sul futuro della città e del movimento, ripartendo dai diritti di cittadinanza per combattere l'ossessione securitaria della governance delle città».
A livello locale, Municipio o Comune che sia, il dialogo non è mai escluso. A entrare nella politica ufficiale ci ha provato Laura Tartarini dello Zapata eletta nelle liste di Rifondazione alle comunali del 2002 nella giunta Pericu-bis. «Quella fase di attraversamento si è conclusa - continuano Luca Oddone e Paolo Languasco dello Zapata - Oggi non abbiamo nulla in comune con la cosiddetta sinistra. Oggi noi siamo quello che facciamo, ed anche il concetto di sinistra ci sta stretto, sembra più un contenitore vuoto, che uno spazio politico adeguato ai moderni movimenti, che possono crescere e svilupparsi solo in un contesto autonomo». Molta storia corre dunque esterna. E infatti che la sinistra sia diventata extraparlamentare colpisce solo quelli della Buridda, ex facoltà di economia occupata nel 2003, 6 mila metri quadri ormai gestiti da Rifondazione comunista e a rischio trasloco. «Speriamo di avere a che fare con qualcosa a sinistra del Pd - dice Manuel Chiarlo - Dobbiamo ricostruire situazioni di piazza, cortei, un'opposizione a questo governo perché c'è un'ondata di antipolitica che colpisce soprattutto i giovani. Insomma dobbiamo trovare linguaggi e pratiche efficaci per parlare a quelli che al G8 avevano otto anni». Per il resto la politica nazionale lascia tutti tiepidi. «Per noi non è cambiato molto», chiosa Megu del Tdn. «Ci muoviamo fuori dalla politica istituzionale - aggiunge Simone di Ya Basta - i nostri interlocutori non sono i politici ma le persone». Ottavia, sempre del Terra di nessuno, articola che «con la sinistra al governo una parte di noi si è identificata in Rifonda, altri no. Abbiamo sperato su spazi, abitazione, precarietà, le istanze del G8. Non è successo. E almeno si sono chiariti i ruoli, chi aveva pratiche di movimenti ed era più autonomo lo sta dimostrando». All'Humpty Dumpty, piccolo spazio autogestito a due passi dal polo universitario di via Balbi c'è chi pensa positivo. «Nella tristezza i centri sociali si stanno ravvicinando - dice un portavoce - in confronto alla batosta post G8, siamo in piena ripresa». Gli appuntamenti legati al Pride, la difesa della 194, la rete laica in occasione della visita papale e ora il 30 giugno hanno ricostruito dei tavoli comuni in cui confrontarsi su precarietà, squadrismo diffuso, il pacchetto sicurezza. Anche se facile niente. Perché all'appello mancano, tranne eccezioni, molti tra i 15 e i 25 anni. «Qui in università è pieno di figli di operai che studiano, pensano di avere la soluzione a tutti i casini e della mobilitazione non gliene frega niente. Solo quando finiscono gli studi si rendono conto che futuro è precarietà, senza una casa, senza un lavoro», raccontano all'Humpty Dumpty.
Qualche scetticismo anche in Valbisagno al rinato Pinelli, dove l'obiettivo è recuperare il contatto col territorio, perché «questo è un quartiere dormitorio - raccontano - e allora più che pensare a cortei partiamo con la musica per creare un'isola alternativa in una zona dove tutto chiude alle otto, ma fagli capire che qui non c'è solo uno spazio dove suonare ma che ci si prende in carico anche la gestione». Insomma la sfida è vincere l'apatia.
Intanto però movimento a Genova vuol dire anche Assemblea permanente antifascista, due forum sociali rimasti dal G8 come la Rete per la globalizzazione dei diritti erede del centro documentazione per la pace. Il Forum del Ponente ha scelto (in parte) di candidarsi per l'Arcobaleno alle ultime nazionali, ma «nella sostanza è rimasto indipendente - spiega un portavoce - perché formato da tante anime e non tutte legate a qualche partito». Quello della Valpolcevera organizza da alcuni anni una marcia per la pace nella provincia genovese e i pacifisti della Rete per la globalizzazione dei diritti sono tutti i mercoledì a piazza De Ferrari con un'ora di silenzio. «Dalla caduta delle torri gemelle nel 2001 siamo arrivati al 317esimo presidio - dice Norma Bertullacelli - per noi è un modo di fare controinformazione diffondendo un volantino sempre diverso. Il risultato è che qualcuno sta a sentire e magari si siede con noi». In questi anni hanno organizzato un happening con bambole rotte (le vittime civili), con facsimili di bombe a grappolo e una gabbia grande come quella dei prigionieri di Guantanamo. Insomma, davanti al nulla creato dal culto dei consumi, vuoto pneumatico, disperazione, repressione sociale, «alcuni di noi che se ne andrebbero in pensione continuano il sogno del meglio possibile», conclude Ottavia.
PROCESSO DIAZ Per l'accusa vanno condannati l'ex numero due dell'antiterrorismo e il direttore del Dipartimento anticrimine della polizia, nonché Canterini e Fournier, che denunciò la «macelleria messicana». La richiesta più alta è per l'agente che portò le finte molotov nella scuola. Riconosciuta la catena di comando LE RICHIESTE · 28 condanne e una assoluzione. Chiesti 4 anni e 6 mesi per Gratteri e Luperi
Una notte quasi «cilena»
Sara Menafra
INVIATA A GENOVA
Una condanna sostanziale. Non eclatante, perché contro «servitori dello stato che ritenevano di agire per una nobile causa» non avrebbe senso, ma neppure moderata, perché «i fatti addebitati minacciano la democrazia più delle molotov lanciate nel corso dei cortei di quei giorni». Sono 109 anni e 9 mesi in tutto, le pene chieste per i poliziotti che la notte del 21 luglio 2001, alla ricerca dei black bloc, organizzarono l'incursione nella scuola Diaz, non impedirono che gli agenti malmenassero le 93 persone che si trovavano nell'edificio e accusarono i ragazzi, molti dei quali stranieri, di essere la parte violenta del movimento e di essere armati, tra l'altro, di due bottiglie molotov trovate sulla strada del corteo mattutino e portate nella scuola nel tentativo di aumentare il magro bottino della perquisizione. La condanna più dura, cinque anni tondi, è stata chiesta per Pietro Troiani, il vicecommissario del reparto mobile di Roma che arrivò nella scuola con le due bottiglie in una busta, togliendosi i gradi dalla divisa. E' complicato fare il conto degli anni di condanna che spettano a ciascuno dei 29 poliziotti alla sbarra (per uno di loro, Alfredo Fabbrocini, responsabile della perquisizione alla Pascoli, è stata chiesta l'assoluzione). Soprattutto perché nell'elenco ci sono due dei poliziotti oggi al vertice del sistema di sicurezza italiano: Gianni Luperi - ex numero due dell'antiterrorismo, oggi capo dipartimento dell'Aisi e in lizza per il posto di vice negli stessi servizi segreti - e Francesco Gratteri - direttore del dipartimento anticrimine della polizia. Per i quali è stata chiesta anche l'interdizione dai pubblici uffici. E' per questo che Enrico Zucca, autore dell'inchiesta insieme a Francesco Cardona Albini, dedica proprio a loro l'ultima delle sei giornate di requisitoria. Per i due superpoliziotti chiederà quattro anni e sei mesi, la stessa richiesta avanzata per Vincenzo Canterini, all'epoca comandante del I Reparto Mobile di Roma che assaltò la scuola malmenando chiunque trovasse all'interno, per Gilberto Caldarozzi, all'epoca vicedirettore dello Sco, per Filippo Ferri, dirigente della squadra mobile della Spezia, Massimiliano Di Bernardini, vicequestore aggiunto, Fabio Ciccimarra, vicequestore aggiunto, Nando Dominici, capo della squadra mobile di Genova, Spartaco Mortola, dirigente all'epoca della Digos di Genova, e Carlo Di Sarro, vicequestore aggiunto presso la Digos di Genova. Quella di Luperi e Gratteri è la posizione più complicata. Quella su cui commentatori e politici si sono soffermati a lungo, perché salvare loro vuol dire salvare la Polizia di stato. E condannarli viceversa sarebbe un atto d'accusa contro le forze dell'ordine. L'accusa nei loro confronti è tra le peggiori. Avrebbero di fatto gestito la perquisizione nella scuola, ordinando ai loro sottoposti di piazzare le due bottiglie molotov all'interno della scuola Diaz. Contro di loro ci sono le immagini raccolte dalla tv privata Primocanale, che li mostrano ricevere le due bottiglie molotov contenute in un sacchetto, discutere all'esterno della scuola alla presenza degli altri poliziotti accusati di calunnia, e infine indicano Luperi mentre consegna le bottiglie a Daniela Mengoni della Digos di Firenze, che le porterà all'interno della scuola per metterle assieme al resto del materiale sequestrato all'interno. Non è stato un complotto ai danni dei manifestanti, non lo pensa neppure il pm che ha esaminato quei minuti attimo per attimo per sette anni. Quei comportamenti, dice Zucca, «non sono il frutto di una premeditata azione ritorsiva, ma di una risoluzione avvenuta sul campo». Non un piano studiato da giorni, ma un esempio di quella che il magistrato chiama «corruzione per una nobile causa», cioè «l'idea che aggiustare le prove contro i presunti colpevoli sia di aiuto all'azione della polizia e che le garanzie siano d'impaccio all'operare delle forze dell'ordine». Con lo stesso criterio si spiega la presenza dei dirigenti sul luogo della perquisizione che doveva rappresentare la «svolta» dell'ordine pubblico. L'arresto clou, capace di riportare in alto l'onore delle forze dell'ordine. Se fossimo davanti a un tribunale penale internazionale, la responsabilità dei dirigenti sarebbe dimostrata dalla loro «posizione sul campo», «i generali Luperi e Gratteri sono scesi in battaglia con casco e manganello al fianco delle loro truppe». Per loro, come per tutti gli imputati, i pm hanno chiesto le attenuanti generiche. Ma si aspettano una condanna più dura di quella chiesta per il vice di Canterini, Michelangelo Fournier, quello che in aula parlò di «macelleria messicana» ma senza per questo rendersi credibile agli occhi degli inquirenti (3 anni e 6 mesi). Quattro anni anche per l'agente scelto Massimo Nucera, che finse di aver ricevuto una coltellata, o per il suo superiore Maurizio Panzieri, che avallò nel verbale il finto accoltellamento. E per il commissario capo Salvatore Gava, l'ispettore Massimo Mazzoni (Sco), il sovrintendente Renzo Cerchi e l'ispettore superiore Davide Di Novi, assieme a Michele Burgio, autista di Troiani, il poliziotto che portò le molotov alla scuola Diaz a bordo del Magnum della polizia. Pene più alte persino dei tre anni e sei mesi chiesti per gli otto capisquadra accusati di lesioni per non aver impedito che i no global nell'edificio fossero malmenati. O dei tre anni chiesti nei confronti di Luigi Fazio, sovrintendente Ps, accusato di percosse. Non è importante che la condanna sia lunga, spiega a tutti Lena Zulkhe, la cui foto in barella è diventata simbolo di quella notte. Ma non si farà giustizia, le risponde il pm dall'aula, «se non si riconoscerà come queste azioni siano state commesse con il concorso di questi comandanti».
G8 2001
www.flickr.com/photos/hansoete/2953432/
da Liberazione
G8 2001. Un documento pubblicato da "Repubblica" conferma alcune reticenti dichiarazioni dell'allora ministro Scajola
A Genova agenti Usa con licenza di uccidere
Nelle istituzioni c'è chi sa, interroghiamolo
Graziella Mascia
Infatti, il quotidiano la Repubblica ha riportato, in questi giorni, stralci di un documento nelle mani della magistratura genovese, secondo il quale, durante i giorni del G8, un contingente di militari e agenti dei servizi statunitensi era stato autorizzato all'uso della armi sul territorio italiano, ed era pronto a sparare per fermare eventuali aggressioni ai propri rappresentanti istituzionali. Tale documento verrebbe utilizzato dal procuratore generale di Genova, Ezio Castaldi, per ricorrere contro alcuni dei 25 manifestanti, accusati di devastazione e saccheggio e infliggere loro condanne più dure. Il tribunale aveva infatti riconosciuto loro di essersi trovati, allora, in via Tolemaide, in una situazione di guerriglia, causata da un plotone dei carabinieri che caricò all'improvviso le tute bianche, mentre era diretta in altra parte della città. Secondo il procuratore, invece, l'intervento dei carabinieri in tale circostanza, non fu determinato da un errore, ma dalla necessità che «entrassero in azione, e con mezzi estremi, le forze di sicurezza degli stessi stati partecipanti al G8». Il procuratore precisa inoltre che «dette forze di sicurezza, per lo più statunitensi, erano infatti dislocate ampiamente nella zona rossa.... ed erano pronte alla reazione immediata ed armata...».
Mi è tornata immediatamente alla memoria l'audizione svolta al Senato il 21 febbraio 2002, dall'allora ministro dell'Interno Scajola, con i parlamentari della commissione Affari costituzionali di Camera e Senato.
In quell'occasione Scajola si era scusato, e aveva dovuto chiarire alcune dichiarazioni "in libertà", rilasciate a giornalisti, nelle quali aveva detto tra l'altro: «..fui costretto a dare l'ordine di sparare se avessero sfondato (o violato) la zona rossa.... presto forse sapremo quali disposizioni qualcuno aveva avuto». Naturalmente l'audizione non chiarì a chi si riferisse il «qualcuno» e il ministro smentì le sue stesse parole, riconoscendo che nessuno, secondo le leggi italiane, può dare l'ordine di sparare, poiché questa estrema ed eccezionale scelta attiene all'esclusiva responsabilità di chi opera in una determinata circostanza. Precisò, inoltre, che il riferimento all'uso delle armi riguardava le preoccupazioni di quei giorni per gli attacchi terroristici al presidente Bush.
Aggiungo che, nel corso dell'indagine parlamentare svolta dopo i fatti del luglio 2001, l'allora questore di Genova ha sostenuto tenacemente che il corteo delle tute bianche non era autorizzato, fino a quando gli esponenti del Genova social forum non hanno esibito le carte prodotte proprio in questura.
Non solo, dunque, ogni particolare che viene disvelato dovrebbe essere usato a difesa dei 25 manifestanti, ma dovrebbe spingere a fare davvero piena luce su una vicenda che ancora ci inquieta e ci indigna, e che offre un'immagine dubbia della democrazia nel nostro paese.
Queste limitate, ma importanti, notizie confermano, tra l'altro, quanto sostenni nella relazione di minoranza in parlamento, e cioè che il G8 di Genova non fu un affare solo italiano, e che la gestione delle forze dell'ordine, fin dalla preparazione, ebbe una regia internazionale.
In questi giorni, per la prima volta, ho pensato che forse non ci sarà mai giustizia per chi, alla scuola Diaz, nelle vie di Genova, o a Bolzaneto è stato picchiato o torturato.
Sul piano delle responsabilità individuali, infatti, la magistratura ha fin qui dimostrato tutti i suoi limiti, sia per le difficoltà oggettive di riconoscere gli autori dei reati, sia per la reciproca copertura tra esponenti delle forze dell'ordine presenti in quelle occasioni.
Anche per questo, rimane particolarmente insopportabile la bocciatura della proposta di legge per l'istituzione di una commissione d'inchiesta parlamentare, che almeno ricostruisse i fatti, e ci restituisse un riconoscimento collettivo su quanto effettivamente avvenuto.
Quel voto non ha solo archiviato le vicende di Genova fra i tanti misteri italiani, ma ha probabilmente impedito definitivamente a molti ragazzi che da anni chiedono giustizia di recuperare la fiducia nella politica e nelle istituzioni.
Ora non ci si attende neanche più il risarcimento morale di conoscere la verità circa le responsabilità politiche e istituzionali, e per questo sono suonate particolarmente apprezzabili le parole del procuratore Zucca nel processo della Diaz, quando ha sostenuto che «le colpe di chi porta la divisa sono molto più gravi di qualunque azione dei black bloch».
Contro questa condizione di impunità di poliziotti, carabinieri, ecc. non ci si può rassegnare.
Perciò, questo ennesimo squarcio che ci offre il documento depositato presso l'ufficio impugnazioni del tribunale di Genova, deve essere l'occasione per tornare ad interrogare chi occupa rilevanti incarichi istituzionali. Non si può pensare di ospitare nel 2009 una riunione del G8 in Italia, quando sono ancora aperte ferite così profonde nella nostra memoria e nella nostra democrazia.
Checchino Antonini
Genova - nostro inviato
Di più o di meno dello scorso anno? La memoria distorce i ricordi: nessuno sa dirlo con precisione tra le centinaia di persone che domenica scendevano per via Venti verso Piazza Alimonda
Checchino Antonini
Genova - nostro inviato
Di più o di meno dello scorso anno? La memoria distorce i ricordi: nessuno sa dirlo con precisione tra le centinaia di persone che domenica scendevano per via Venti verso Piazza Alimonda. Era il 20 luglio di sette anni fa che la pistola di un carabiniere ammazzava un ventitreenne che s'era trovato incastrato nelle cariche illegittime contro un corteo regolarmente autorizzato che voleva solo contestare il G8. S'è marciato seguendo la banda senza nome di musicisti rom, gli stessi che suonano nei vicoli del centro. Un lenzuolo bianco colorato da mani intinte nella vernice e, più tardi, la decorazione con impronte digitali della piazza denunciano il razzismo dei governanti contro i bambini rom. Gli slogan e gli applausi rimbombano sotto il Ponte monumentale dedicato ai partigiani: "Carlo è vivo!". Gracchia la radio di uno della digos che a manifestare sono in 500 e altrettanti saranno già in piazza. Giuliano Giuliani, che ha fortemente voluto questo corteo, conta almeno 800 partecipanti. Avanti a tutti marcia, tenendosi a braccetto con Haidi, un gruppo di madri, sorelle, figlie. Stefania, la mamma di Renato Biagetti che lotta perché l'omicidio di suo figlio non sia rubricato alla voce "rissa tra balordi", proprio come fa Rosa, la mamma di Dax. Ci sono la sorella di Iaio, ucciso trent'anni fa dai fascisti col suo compagno Fausto, e c'è Natascia, la figlia di Giuseppe Casu, ucciso dalla malapsichiatria che l'ha legato a un lettino di contenzione per sette giorni. Anche di Carlo si dice che aggredì con l'estintore anziché che provò a difendersi.
In Alimonda Andrea Rivera ha dedicato uno dei suoi blues a Carlo, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, raccontando di un'Italia di ecomafie, lavoro nero, diritti negati, cocaina nell'aria, nuvole di Fucksas per cantarci sotto "Piove governo ladro". Non l'avessero ucciso, Carlo avrebbe avuto trent'anni, l'età in cui aveva promesso a Enrico, per tutti Gogo, che avrebbero aperto un bar insieme: «Sette anni fa ha pagato il prezzo più alto - ha letto Enrico dal palco - e il giorno dopo i violenti eravamo noi». La memoria è dolore: Carlo aveva 17 anni quando lesse, per un servizio tv, le lettere dei condannati a morte della Resistenza. Domenica la sua voce registrata è risuonata a ridosso delle 17,27, l'ora dell'omicidio per il quale non c'è mai stato processo. Lettere di ragazzi come lui che chiedevano scusa alle famiglie ma non avevano nulla da rimproverarsi. Sulla cancellata della chiesa tornano gli striscioni, le poesie scritte sui fogli di quaderno, i quadri. In piazza, tra gli altri, don Gallo, alcuni dei portavoce di quel luglio - Raffaella Bolini, Vittorio Agnoletto, Alfio Nicotra, Luciano Muhlbauer, che il giorno prima avevano partecipato alla discussione sul prossimo G8 alla Maddalena - e tanta gente di sinistra e di Rifondazione genovese e nazionale, Paolo Ferrero, Claudio Grassi, Giovanni Russo Spena, Tiziana Valpiana. «Un dovere politico esserci - spiegano - specie dopo la scandalosa sentenza che ha finto di non vedere la tortura a Bolzaneto». A un angolo della piazza, quello che sembra il più alto in grado dei digossini ordina: «Bisogna capire che vuol dire quel 25!». Gli dev'essere sfuggito il tg regionale che ha mostrato alcune delle vittime di Diaz e Bolzaneto respinte poco prima del corteo all'ingresso di Tursi, il municipio, perché avevano indosso una maglietta con quel numero stampigliato. 25 come i manifestanti condannati per devastazione e saccheggio, scelti a casaccio tra i 300mila per obbedire a un teorema e contro cui il predecessore di Vincenzi aveva provato a costituirsi parte civile. Volevano solo dire alla nuova sindaca (che punta a ospitare l'agenzia Ue per i diritti umani e che domenica ha ricevuto alcune delle vittime della Diaz) che «Genova non può essere una città dei diritti finché i responsabili delle violenze e delle torture continueranno a occupare posizione di comando e a essere promossi».
da Il manifesto
GENOVA 2001 Tre giorni per non dimenticare
A piazza Alimonda, sette anni dopo
A. F.
GENOVA
Il 20 luglio 2001 la morte di un genovese di 23 anni, Carlo Giuliani, a piazza Alimonda. Il 21 l'assalto di decine di poliziotti ai comandi dei vertici della polizia di Stato alla Diaz di notte che si concluse con 98 feriti alcuni a rischio vita, tutti comunque agli arresti: è per ricordare questi eventi che oggi si va a piazza Alimonda con un corteo che parte da piazza De Ferrari nel primo pomeriggio per essere là, ancora una volta, alle 17,27 il momento esatto in cui sette anni fa partì il colpo da un Defender che uccise Carlo Giuliani ragazzo, come fu scritto sulla targa dell'insegna stradale. E' per questo che domani sera dal quartiere di San Fruttuoso si sale per via Tolemaide e piazza Alimonda sino alla scuola in via Cesare Battisti ad Albaro.
Le due manifestazioni sono ormai un appuntamento fisso delle giornate a ricordo del G8 che ogni anno rilanciano nuovi temi di riflessioni attraverso dibattiti, incontri e mostre. Quest'anno però c'è una variante importante: il sindaco Marta Vincenzi riceverà le vittime della Diaz e Bolzaneto oggi alle 13 a Palazzo Tursi. Un recupero dell'immagine pubblica dopo la scelta dell'amministrazione precedente di non costituirsi parte civile ai processi Diaz e Bolzaneto contro gli imputati e di comparire tra le parti offese solo marginalmente per la rottura di alcuni telefoni nella scuola Pascoli sede del Media center.
Le ferite del G8 non sono rimarginate. C'è ancora il buco nero della caserma di Bolzaneto dove non si sono mai fatte marce e manifestazioni perché in quei giorni nessuno sapeva quel che avveniva là dentro. La sentenza di primo grado per Bolzaneto ha aperto un dibattito acceso, tanto che alcuni intendono presentare ricorso alla Corte di Strasburgo. E siccome tanti transitarono dalle botte alla Diaz ai soprusi a Bolzaneto, le vittime della scuola hanno chiesto di entrare per qualche ora nella palestra della Diaz. Soli, senza giornalista. Ma nonostante il parere favorevole del prefetto, le pressioni del sindaco Vincenzi, il nulla osta persino della Questura e le pressioni dell'associazione dei presidi, la direttrice della Diaz s'appiglia all'autonomia scolastica: «Continuiamo a sperare che la situazione si sblocchi - dice il consigliere comunale Antonio Bruno - si tratta solo di un incontro privato chiesto dalle vittime». Paradossalmente il direttore scolastico della media Pascoli, di fronte alla Diaz, ha dato invece l'autorizzazione per ospitare lunedì sera la proiezione di un video di ricostruzione dell'assalto.
Intanto proseguono in questi giorni gli incontri. Sia quelli a margine della mostra «Al lavoro-Genova chiama» allestita da Progetto comunicazione a Palazzo Ducale che quelli organizzati dal Comune. Stamattina al Munizioniere di Palazzo Ducale si parla di tortura insieme al presidente del comitato europeo per la prevenzione della tortura Mauro Palma e diversi altri. Domani alle 18 al circolo Arci conversazione con chi il G8 non l'ha visto perché troppo giovane. Alle 18,30 al teatro Garage di via San Fruttuoso Gloria Bardi presenterà il dossier Genova G8. Martedì pomeriggio tornando al Ducale, dibattito sul meccanismo repressione-violenza e la collaborazione fra le polizie europee con i sociologi Salvatore Palidda dell'università di Genova e Jean-Pierre Masse di Scienze politiche di Parigi e Matthias Monroy di Gipfelsoli Infogruppe. Martedì pomeriggio, Mario Portanova presenta a Palazzo Rosso «Inferno Bolzaneto» sulla requisitoria dei pm. E per chiudere un altro ritorno, quello dell'ex voce della Mano Negra, Manu Chao sabato 26 luglio alla Fiera del mare, a pochi metri da dove aveva tenuto il concerto nel 2001.
Movimento latino alla genovese
Nella città dove in questi giorni si ricordano i tragici avvenimenti del G8 2001, i centri sociali sono tornati al territorio e parlano latinoamericano con i Latin Kings e i Netas. E due forum sociali sono sopravvissuti all'eclisse. Radiografia di una galassia in perenne evoluzione
Alessandra Fava
GENOVA
Un torneo di calcio antirazzista. Con le tre organizzazioni di strada di latino-americani del centro sociale occupato Zapata di Sampierdarena (Latin Kings&Queens, Netas e Masters) in campo con ben quattro squadre. I sampdoriani dei Rude Boys, i genoani del quartiere di Certosa, un team marocchino. Uno per ogni centro sociale resistente (Zapata, Terra di nessuno, Humpty Dumpty) e un melting pot dell'Orchestra di piazza Caricamento con cinesi, italiani e senegalesi. La seconda edizione del torneo di calcio a sei a Sestri Ponente, in collaborazione con l'associazione Macaia e gli arbitri della Uisp, misura la temperatura agli spazi autogestiti genovesi insieme a una non stop al Forte Sperone arrivata alla settima edizione. E levatevi gli occhiali rosa: c'è chi insieme ai corner e ai falli dribbla un cpt sparso per la penisola, chi scarta burocrazie, tiene famiglia pur minorenne e cerca casa o si ritrova faccia a faccia in campo con chi quattro anni fa lo ha mezzo accoltellato.
Dalla lettura dell'oggi - leggi le campagne razziste lanciate dai media locali prima contro le bande dei latinos, poi su Sampierdarena, gli ecuadoriani e le loro fiestas e recentemente rom, Rumeni e prostitute - i centri sociali genovesi si giocano una nuova identità. La Buridda ha aperto a qualche festa peruviana o ecuadoriana. Il Tdn, che una chiave di lettura globale ce l'ha sempre avuta con Ya Basta, ha continuato le missioni in Chiapas e le campagne nelle scuole perché, «programmi come "Semillita del sol" raccontato all'istituto alberghiero Bergese dove il 30 per cento sono ecuadoriani fa sentire chi ci ascolta protagonisti», dice Simone di Ya Basta. Lo Zapata da un anno e mezzo ha coinvolto nell'occupazione i chicos delle organizzazioni di strada non esenti in passato da qualche rissa. Sono nati gli appuntamenti della domenica pomeriggio con centinaia di ragazzi lanciati nel reggaetton oltre a feste di strada all'aria aperta per chiamare a raccolta il quartiere. Il segno del successo è che mentre altri centri sociali cercano di mettere una toppa al tetto o riparare un muro, allo Zapata i chicos montano un gigantesco ventilatore a pale. «Il percorso con i chicos è stato per noi una scommessa. Nel pieno della campagna di criminalizzazione delle bande da parte di media e polizia, abbiamo deciso di aprire loro gli spazi del centro sociale - dice Matteo Jade - e, per quanto il cammino non sia stato sempre facile, i risultati sono molto positivi. Lo Zapata ha tratto da questa contaminazione una nuova linfa vitale. E gli stranieri non possono che essere una risorsa per la nostra vecchia città: scommettere sui giovani Hermanitos e sui giovani migranti è puntare sul futuro della città e del movimento, ripartendo dai diritti di cittadinanza per combattere l'ossessione securitaria della governance delle città».
A livello locale, Municipio o Comune che sia, il dialogo non è mai escluso. A entrare nella politica ufficiale ci ha provato Laura Tartarini dello Zapata eletta nelle liste di Rifondazione alle comunali del 2002 nella giunta Pericu-bis. «Quella fase di attraversamento si è conclusa - continuano Luca Oddone e Paolo Languasco dello Zapata - Oggi non abbiamo nulla in comune con la cosiddetta sinistra. Oggi noi siamo quello che facciamo, ed anche il concetto di sinistra ci sta stretto, sembra più un contenitore vuoto, che uno spazio politico adeguato ai moderni movimenti, che possono crescere e svilupparsi solo in un contesto autonomo». Molta storia corre dunque esterna. E infatti che la sinistra sia diventata extraparlamentare colpisce solo quelli della Buridda, ex facoltà di economia occupata nel 2003, 6 mila metri quadri ormai gestiti da Rifondazione comunista e a rischio trasloco. «Speriamo di avere a che fare con qualcosa a sinistra del Pd - dice Manuel Chiarlo - Dobbiamo ricostruire situazioni di piazza, cortei, un'opposizione a questo governo perché c'è un'ondata di antipolitica che colpisce soprattutto i giovani. Insomma dobbiamo trovare linguaggi e pratiche efficaci per parlare a quelli che al G8 avevano otto anni». Per il resto la politica nazionale lascia tutti tiepidi. «Per noi non è cambiato molto», chiosa Megu del Tdn. «Ci muoviamo fuori dalla politica istituzionale - aggiunge Simone di Ya Basta - i nostri interlocutori non sono i politici ma le persone». Ottavia, sempre del Terra di nessuno, articola che «con la sinistra al governo una parte di noi si è identificata in Rifonda, altri no. Abbiamo sperato su spazi, abitazione, precarietà, le istanze del G8. Non è successo. E almeno si sono chiariti i ruoli, chi aveva pratiche di movimenti ed era più autonomo lo sta dimostrando». All'Humpty Dumpty, piccolo spazio autogestito a due passi dal polo universitario di via Balbi c'è chi pensa positivo. «Nella tristezza i centri sociali si stanno ravvicinando - dice un portavoce - in confronto alla batosta post G8, siamo in piena ripresa». Gli appuntamenti legati al Pride, la difesa della 194, la rete laica in occasione della visita papale e ora il 30 giugno hanno ricostruito dei tavoli comuni in cui confrontarsi su precarietà, squadrismo diffuso, il pacchetto sicurezza. Anche se facile niente. Perché all'appello mancano, tranne eccezioni, molti tra i 15 e i 25 anni. «Qui in università è pieno di figli di operai che studiano, pensano di avere la soluzione a tutti i casini e della mobilitazione non gliene frega niente. Solo quando finiscono gli studi si rendono conto che futuro è precarietà, senza una casa, senza un lavoro», raccontano all'Humpty Dumpty.
Qualche scetticismo anche in Valbisagno al rinato Pinelli, dove l'obiettivo è recuperare il contatto col territorio, perché «questo è un quartiere dormitorio - raccontano - e allora più che pensare a cortei partiamo con la musica per creare un'isola alternativa in una zona dove tutto chiude alle otto, ma fagli capire che qui non c'è solo uno spazio dove suonare ma che ci si prende in carico anche la gestione». Insomma la sfida è vincere l'apatia.
Intanto però movimento a Genova vuol dire anche Assemblea permanente antifascista, due forum sociali rimasti dal G8 come la Rete per la globalizzazione dei diritti erede del centro documentazione per la pace. Il Forum del Ponente ha scelto (in parte) di candidarsi per l'Arcobaleno alle ultime nazionali, ma «nella sostanza è rimasto indipendente - spiega un portavoce - perché formato da tante anime e non tutte legate a qualche partito». Quello della Valpolcevera organizza da alcuni anni una marcia per la pace nella provincia genovese e i pacifisti della Rete per la globalizzazione dei diritti sono tutti i mercoledì a piazza De Ferrari con un'ora di silenzio. «Dalla caduta delle torri gemelle nel 2001 siamo arrivati al 317esimo presidio - dice Norma Bertullacelli - per noi è un modo di fare controinformazione diffondendo un volantino sempre diverso. Il risultato è che qualcuno sta a sentire e magari si siede con noi». In questi anni hanno organizzato un happening con bambole rotte (le vittime civili), con facsimili di bombe a grappolo e una gabbia grande come quella dei prigionieri di Guantanamo. Insomma, davanti al nulla creato dal culto dei consumi, vuoto pneumatico, disperazione, repressione sociale, «alcuni di noi che se ne andrebbero in pensione continuano il sogno del meglio possibile», conclude Ottavia.
PROCESSO DIAZ Per l'accusa vanno condannati l'ex numero due dell'antiterrorismo e il direttore del Dipartimento anticrimine della polizia, nonché Canterini e Fournier, che denunciò la «macelleria messicana». La richiesta più alta è per l'agente che portò le finte molotov nella scuola. Riconosciuta la catena di comando LE RICHIESTE · 28 condanne e una assoluzione. Chiesti 4 anni e 6 mesi per Gratteri e Luperi
Una notte quasi «cilena»
Sara Menafra
INVIATA A GENOVA
Una condanna sostanziale. Non eclatante, perché contro «servitori dello stato che ritenevano di agire per una nobile causa» non avrebbe senso, ma neppure moderata, perché «i fatti addebitati minacciano la democrazia più delle molotov lanciate nel corso dei cortei di quei giorni». Sono 109 anni e 9 mesi in tutto, le pene chieste per i poliziotti che la notte del 21 luglio 2001, alla ricerca dei black bloc, organizzarono l'incursione nella scuola Diaz, non impedirono che gli agenti malmenassero le 93 persone che si trovavano nell'edificio e accusarono i ragazzi, molti dei quali stranieri, di essere la parte violenta del movimento e di essere armati, tra l'altro, di due bottiglie molotov trovate sulla strada del corteo mattutino e portate nella scuola nel tentativo di aumentare il magro bottino della perquisizione. La condanna più dura, cinque anni tondi, è stata chiesta per Pietro Troiani, il vicecommissario del reparto mobile di Roma che arrivò nella scuola con le due bottiglie in una busta, togliendosi i gradi dalla divisa. E' complicato fare il conto degli anni di condanna che spettano a ciascuno dei 29 poliziotti alla sbarra (per uno di loro, Alfredo Fabbrocini, responsabile della perquisizione alla Pascoli, è stata chiesta l'assoluzione). Soprattutto perché nell'elenco ci sono due dei poliziotti oggi al vertice del sistema di sicurezza italiano: Gianni Luperi - ex numero due dell'antiterrorismo, oggi capo dipartimento dell'Aisi e in lizza per il posto di vice negli stessi servizi segreti - e Francesco Gratteri - direttore del dipartimento anticrimine della polizia. Per i quali è stata chiesta anche l'interdizione dai pubblici uffici. E' per questo che Enrico Zucca, autore dell'inchiesta insieme a Francesco Cardona Albini, dedica proprio a loro l'ultima delle sei giornate di requisitoria. Per i due superpoliziotti chiederà quattro anni e sei mesi, la stessa richiesta avanzata per Vincenzo Canterini, all'epoca comandante del I Reparto Mobile di Roma che assaltò la scuola malmenando chiunque trovasse all'interno, per Gilberto Caldarozzi, all'epoca vicedirettore dello Sco, per Filippo Ferri, dirigente della squadra mobile della Spezia, Massimiliano Di Bernardini, vicequestore aggiunto, Fabio Ciccimarra, vicequestore aggiunto, Nando Dominici, capo della squadra mobile di Genova, Spartaco Mortola, dirigente all'epoca della Digos di Genova, e Carlo Di Sarro, vicequestore aggiunto presso la Digos di Genova. Quella di Luperi e Gratteri è la posizione più complicata. Quella su cui commentatori e politici si sono soffermati a lungo, perché salvare loro vuol dire salvare la Polizia di stato. E condannarli viceversa sarebbe un atto d'accusa contro le forze dell'ordine. L'accusa nei loro confronti è tra le peggiori. Avrebbero di fatto gestito la perquisizione nella scuola, ordinando ai loro sottoposti di piazzare le due bottiglie molotov all'interno della scuola Diaz. Contro di loro ci sono le immagini raccolte dalla tv privata Primocanale, che li mostrano ricevere le due bottiglie molotov contenute in un sacchetto, discutere all'esterno della scuola alla presenza degli altri poliziotti accusati di calunnia, e infine indicano Luperi mentre consegna le bottiglie a Daniela Mengoni della Digos di Firenze, che le porterà all'interno della scuola per metterle assieme al resto del materiale sequestrato all'interno. Non è stato un complotto ai danni dei manifestanti, non lo pensa neppure il pm che ha esaminato quei minuti attimo per attimo per sette anni. Quei comportamenti, dice Zucca, «non sono il frutto di una premeditata azione ritorsiva, ma di una risoluzione avvenuta sul campo». Non un piano studiato da giorni, ma un esempio di quella che il magistrato chiama «corruzione per una nobile causa», cioè «l'idea che aggiustare le prove contro i presunti colpevoli sia di aiuto all'azione della polizia e che le garanzie siano d'impaccio all'operare delle forze dell'ordine». Con lo stesso criterio si spiega la presenza dei dirigenti sul luogo della perquisizione che doveva rappresentare la «svolta» dell'ordine pubblico. L'arresto clou, capace di riportare in alto l'onore delle forze dell'ordine. Se fossimo davanti a un tribunale penale internazionale, la responsabilità dei dirigenti sarebbe dimostrata dalla loro «posizione sul campo», «i generali Luperi e Gratteri sono scesi in battaglia con casco e manganello al fianco delle loro truppe». Per loro, come per tutti gli imputati, i pm hanno chiesto le attenuanti generiche. Ma si aspettano una condanna più dura di quella chiesta per il vice di Canterini, Michelangelo Fournier, quello che in aula parlò di «macelleria messicana» ma senza per questo rendersi credibile agli occhi degli inquirenti (3 anni e 6 mesi). Quattro anni anche per l'agente scelto Massimo Nucera, che finse di aver ricevuto una coltellata, o per il suo superiore Maurizio Panzieri, che avallò nel verbale il finto accoltellamento. E per il commissario capo Salvatore Gava, l'ispettore Massimo Mazzoni (Sco), il sovrintendente Renzo Cerchi e l'ispettore superiore Davide Di Novi, assieme a Michele Burgio, autista di Troiani, il poliziotto che portò le molotov alla scuola Diaz a bordo del Magnum della polizia. Pene più alte persino dei tre anni e sei mesi chiesti per gli otto capisquadra accusati di lesioni per non aver impedito che i no global nell'edificio fossero malmenati. O dei tre anni chiesti nei confronti di Luigi Fazio, sovrintendente Ps, accusato di percosse. Non è importante che la condanna sia lunga, spiega a tutti Lena Zulkhe, la cui foto in barella è diventata simbolo di quella notte. Ma non si farà giustizia, le risponde il pm dall'aula, «se non si riconoscerà come queste azioni siano state commesse con il concorso di questi comandanti».