romanzo per adulti
"Niente d'insolito sulla strada che, oltre Etert, chiara e liscia come quella di un quadro ingenuo, attraversava la piana verde fra sparsi e bassi cespugli di lavanda. Il luogo era deserto, silenzioso e profumato, e il giovane Moris camminava spedito, il corpo e la mente colmi di quell'amore per Uvragja, da poco conquistata, vittoria dei suoi sorrisi e delle sue parole: ormai sua, promessa certa, compagna sicura, verità lieta, gioia, gioia, patria del suo desiderio, amicizia e bellezza, gioia, gioia, stupendo annuncio, dono abbondante, sovrabbondante.
Moris strappò senza fermarsi un filo d'erba, chinandosi nel cammino come un danzatore, lo infilò fra le labbra e alzò lo sguardo alla Serra. Allargò il respiro, come se volesse alzarsi a volare. Non sentiva la fatica, e pure camminava da tre ore. I pini sulla cima larga della Serra, neri, sembravano una truppa barbarica appostata contro il cielo. Un falcone volava altissimo, spiando la piana: non gli interessava il cammino dell'uomo, ma il furtivo, piccolo, morbido saltellio del leprotto, la fretta ritrosa e bruna del topo campagnolo...
Felice, o no, il falco lassù? Ignaro dello spazio che lo circondava? Felice e non ignaro, Moris era in cammino.
Sentì vicino il fiume, sorrise: oltre il ponte cominciava, anche agli effetti amministrativi, la terra di Molsug, nella quale Uvragja abitava, nella quale stava, perfetto nello spazio, nicchia di ogni futuro, il suo corpo chiaro, i suoi capelli folti, il suo sorriso tutto sì.
Il ponte era di pietra, semplice: però avvicinava ai capelli, alle mani, al seno leggero come doppia fiaba, alla bocca che aveva imparato quella di lui, aprendosi in baci e in sorrisi, cibo, benedizione... Il ponte era di pietra: ma necessario, come una chiesa di passaggio, un ponte santo.
Col filo d'erba dritto, spavaldo, Moris cominciò a piangere di dolcezza: sentiva malinconia dell'arrivo, in ogni parte, sotto l'intera pelle: fu felice di non trattenersi, di non doverlo fare, nascondere a qualcuno il pianto, nell'aperta piana di lavanda e silenzio.
Avrebbe pianto anche fra una folla.
Il ponte scavalcava il fiume come un collo di drago pietroso, lungo salto. La strada, bella vi si infilava un po' stringendosi, ornata di erba ai lati: delizioso invito a salire, a varcare.
Moris, contento, giungeva a sorpresa. Era atteso soltanto tre giorni dopo: ma aveva fatto fretta alle cose, alle persone, al tempo. Era partito in anticipo, sarebbe arrivato prima: grande, bello lo stupore di lei: aprire la porta e trovarselo di fronte, vicino, insperato, nuovo di gioia: anzi, meglio, vederlo da lontano salire dal bivio, avvisata dal cane, lungo il cespuglio delle more. E corrergli incontro, giù, i capelli mossi, lei gioia, e lui rallentare, col cuore che già batteva a pensarci, fermarsi ad aspettarla vicino ai ciliegi, là in basso, dove ci si poteva poi abbracciare meglio senza dare fastidio agli occhi di nessuno di casa: dove ci si poteva toccare con gioia, gioia: ben tornato, ti volevo, anch'io ti volevo, ti voglio, ti voglio.
Oh e oh.
Passavano, altissime, le anatre: si sentiva sopra il vicino fruscio del fiume il loro strillo largo, pacato. Il falco attacca gli stormi? No, qualcuno glielo aveva detto: il numero lo confonde, sono troppo unite. O per altri perchè? Non gli importava: l'unica cosa da ricordare era il recente volto di Uvraja, il suo sguardo innalzato a lui, e quelle parole: - Quando torni Moris? -
Imboccò il ponte, spedito: oltre rimaneva da salire la serra, arrivare ai campi della vetta, al di là dei pini: da lassù si vedeva la casa. Meno di mezz'ora.
Scendeva ormai, quando qualcosa gli sfiorò la faccia, cadendo. Abbassò lo sguardo, vide una chiazza biancastra: grumi oleosi, scuri, sporcavano la stoffa della giacchetta: indumento nuovo, comprato per gioia, per gioia.
Si fermò, allargò le braccia, allegramente disperato. Guardò il cielo: le anatre erano già oltre la Serra, sulla foresta di Guida, a nord: oltre lei, oltre. Forse erano innocenti le anatre: forse era stato il falco. I falchi forse tirano agli amanti.
Moris rimase un attimo indeciso, poi, alla fine del ponte, svoltò a sinistra, uscì dalla strada, camminò verso il fiume, scendendo nell'erba: non bisognava presentarsi con quella grazia ricevuta, che guastava l'abbraccio.
Fece una decina di passi, scelse un tratto della riva, erboso, cominciò a sbottonare la giacca. Con la giacca fra le mani si chinò sopra l'acqua, fresca, frusciante, tesa.
Vide, lateralmente allo sguardo, sotto l'arcata di pietra del ponte, qualcosa che si muoveva. Voltò la testa.
Era stoffa e carne. Stoffa e carne di donna, corpo di donna e corpo di uomo: si agitavano silenziosi nel fruscio sparso del fiume.
Moris si drizzò, per allontanarsi. Via dalla gioia d'altri, non lo riguardava. Poi pensò che quella stoffa la conosceva. Cuore sfrenato, attimo: fece due passi verso l'arcata, risalendo un poco.
L'uomo, che non conosceva, si muoveva sopra di lei, semivestito, e teneva la faccia avanti, gli occhi chiusi, e rantolava ostinato. Lei con la gonna rossa attorno ai fianchi, affastellata, spostava la testa da una parte e dall'altra, e rideva a corti strilli: le mani chiare, aperte, sulle natiche grasse di lui, più chiare ancora.
Moris lasciò cadere la giacca, fece un passo indietro, al coperto. Cominciò a colpirsi la faccia, in silenzio, a pugni chiusi. Il sangue gli colò subito dal naso, dalla bocca, sulla camicia, sui calzoni verde scuro.
Poi corse su, imboccò il ponte, come per tornare. Arrivò al culmine della gobba, alta cresta del drago. Un dente gli penzolava, sanguinante, dalla bocca aperta.
Da una parte c'era l'acqua, dall'altra sassi, lastroni appena sotto la superficie, massicci. Scaglie.
Si mise in ginocchio sulla sponda, sputò il sangue, il dente. Senza gridare, a occhi aperti, cadde giù a testa avanti."
Roberto Piumini - La rosa di Brod - Einaudi. (Capitolo 19)
romanzo per adulti
"Niente d'insolito sulla strada che, oltre Etert, chiara e liscia come quella di un quadro ingenuo, attraversava la piana verde fra sparsi e bassi cespugli di lavanda. Il luogo era deserto, silenzioso e profumato, e il giovane Moris camminava spedito, il corpo e la mente colmi di quell'amore per Uvragja, da poco conquistata, vittoria dei suoi sorrisi e delle sue parole: ormai sua, promessa certa, compagna sicura, verità lieta, gioia, gioia, patria del suo desiderio, amicizia e bellezza, gioia, gioia, stupendo annuncio, dono abbondante, sovrabbondante.
Moris strappò senza fermarsi un filo d'erba, chinandosi nel cammino come un danzatore, lo infilò fra le labbra e alzò lo sguardo alla Serra. Allargò il respiro, come se volesse alzarsi a volare. Non sentiva la fatica, e pure camminava da tre ore. I pini sulla cima larga della Serra, neri, sembravano una truppa barbarica appostata contro il cielo. Un falcone volava altissimo, spiando la piana: non gli interessava il cammino dell'uomo, ma il furtivo, piccolo, morbido saltellio del leprotto, la fretta ritrosa e bruna del topo campagnolo...
Felice, o no, il falco lassù? Ignaro dello spazio che lo circondava? Felice e non ignaro, Moris era in cammino.
Sentì vicino il fiume, sorrise: oltre il ponte cominciava, anche agli effetti amministrativi, la terra di Molsug, nella quale Uvragja abitava, nella quale stava, perfetto nello spazio, nicchia di ogni futuro, il suo corpo chiaro, i suoi capelli folti, il suo sorriso tutto sì.
Il ponte era di pietra, semplice: però avvicinava ai capelli, alle mani, al seno leggero come doppia fiaba, alla bocca che aveva imparato quella di lui, aprendosi in baci e in sorrisi, cibo, benedizione... Il ponte era di pietra: ma necessario, come una chiesa di passaggio, un ponte santo.
Col filo d'erba dritto, spavaldo, Moris cominciò a piangere di dolcezza: sentiva malinconia dell'arrivo, in ogni parte, sotto l'intera pelle: fu felice di non trattenersi, di non doverlo fare, nascondere a qualcuno il pianto, nell'aperta piana di lavanda e silenzio.
Avrebbe pianto anche fra una folla.
Il ponte scavalcava il fiume come un collo di drago pietroso, lungo salto. La strada, bella vi si infilava un po' stringendosi, ornata di erba ai lati: delizioso invito a salire, a varcare.
Moris, contento, giungeva a sorpresa. Era atteso soltanto tre giorni dopo: ma aveva fatto fretta alle cose, alle persone, al tempo. Era partito in anticipo, sarebbe arrivato prima: grande, bello lo stupore di lei: aprire la porta e trovarselo di fronte, vicino, insperato, nuovo di gioia: anzi, meglio, vederlo da lontano salire dal bivio, avvisata dal cane, lungo il cespuglio delle more. E corrergli incontro, giù, i capelli mossi, lei gioia, e lui rallentare, col cuore che già batteva a pensarci, fermarsi ad aspettarla vicino ai ciliegi, là in basso, dove ci si poteva poi abbracciare meglio senza dare fastidio agli occhi di nessuno di casa: dove ci si poteva toccare con gioia, gioia: ben tornato, ti volevo, anch'io ti volevo, ti voglio, ti voglio.
Oh e oh.
Passavano, altissime, le anatre: si sentiva sopra il vicino fruscio del fiume il loro strillo largo, pacato. Il falco attacca gli stormi? No, qualcuno glielo aveva detto: il numero lo confonde, sono troppo unite. O per altri perchè? Non gli importava: l'unica cosa da ricordare era il recente volto di Uvraja, il suo sguardo innalzato a lui, e quelle parole: - Quando torni Moris? -
Imboccò il ponte, spedito: oltre rimaneva da salire la serra, arrivare ai campi della vetta, al di là dei pini: da lassù si vedeva la casa. Meno di mezz'ora.
Scendeva ormai, quando qualcosa gli sfiorò la faccia, cadendo. Abbassò lo sguardo, vide una chiazza biancastra: grumi oleosi, scuri, sporcavano la stoffa della giacchetta: indumento nuovo, comprato per gioia, per gioia.
Si fermò, allargò le braccia, allegramente disperato. Guardò il cielo: le anatre erano già oltre la Serra, sulla foresta di Guida, a nord: oltre lei, oltre. Forse erano innocenti le anatre: forse era stato il falco. I falchi forse tirano agli amanti.
Moris rimase un attimo indeciso, poi, alla fine del ponte, svoltò a sinistra, uscì dalla strada, camminò verso il fiume, scendendo nell'erba: non bisognava presentarsi con quella grazia ricevuta, che guastava l'abbraccio.
Fece una decina di passi, scelse un tratto della riva, erboso, cominciò a sbottonare la giacca. Con la giacca fra le mani si chinò sopra l'acqua, fresca, frusciante, tesa.
Vide, lateralmente allo sguardo, sotto l'arcata di pietra del ponte, qualcosa che si muoveva. Voltò la testa.
Era stoffa e carne. Stoffa e carne di donna, corpo di donna e corpo di uomo: si agitavano silenziosi nel fruscio sparso del fiume.
Moris si drizzò, per allontanarsi. Via dalla gioia d'altri, non lo riguardava. Poi pensò che quella stoffa la conosceva. Cuore sfrenato, attimo: fece due passi verso l'arcata, risalendo un poco.
L'uomo, che non conosceva, si muoveva sopra di lei, semivestito, e teneva la faccia avanti, gli occhi chiusi, e rantolava ostinato. Lei con la gonna rossa attorno ai fianchi, affastellata, spostava la testa da una parte e dall'altra, e rideva a corti strilli: le mani chiare, aperte, sulle natiche grasse di lui, più chiare ancora.
Moris lasciò cadere la giacca, fece un passo indietro, al coperto. Cominciò a colpirsi la faccia, in silenzio, a pugni chiusi. Il sangue gli colò subito dal naso, dalla bocca, sulla camicia, sui calzoni verde scuro.
Poi corse su, imboccò il ponte, come per tornare. Arrivò al culmine della gobba, alta cresta del drago. Un dente gli penzolava, sanguinante, dalla bocca aperta.
Da una parte c'era l'acqua, dall'altra sassi, lastroni appena sotto la superficie, massicci. Scaglie.
Si mise in ginocchio sulla sponda, sputò il sangue, il dente. Senza gridare, a occhi aperti, cadde giù a testa avanti."
Roberto Piumini - La rosa di Brod - Einaudi. (Capitolo 19)