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Come nascono le mie foto? (44)

Ogni anno, verso i primi d'aprile, ho l'appuntamento con i ciliegi sakura che fioriscono in alcuni quartieri di Roma. L'Orto Botanico ne ha diversi esemplari nel giardino giapponese (situato poco sotto il cosiddetto Fontanone), dove, su un piccolo promontorio, decine di alberi con le braccia cariche di delicati fiori rosa fanno dondolare al vento le poesie haiku appese ai rami. Gli stessi ciliegi dell'Orto Botanico sono stati piantati lungo un breve tratto dell'Appia Nuova a pochi passi da casa mia. Ma i più belli sono quelli che fioriscono in due o tre strade dove abita la mia amica Stefania che mi avvisa quando inizia la fioritura. I nostri quartieri sono divisi da un grande parco, quello della Caffarella che fa parte del più ampio dell'Appia Antica. Qualche giorno fa, per motivi di tempo ho preso un autobus che ha aggirato tutto il parco, ma al ritorno dopo aver fotografato i fiori, l'ho riattraversato a piedi, fermandomi spesso a respirare la dolce aria primaverile e a spiare il movimento di piccoli animali alati. Superata la fattoria piena di animali da cortile in cui speravo di vedere il pavone (ne ho solo sentito il richiamo stridulo di corteggiamento) un gracidio lontano mi parlava di urgenze e necessità vitali; man mano che avanzavo capivo che quell'incessante ragionare di cose supreme e di amore soprattutto, proveniva da un piccolo appezzamento di terreno dove sono stati ricavati degli orti. Superato due o tre cancelletti mi sono avvicinata con cautela al ruscello che vi scorre dentro; il chiacchiericcio è cessato all'improvviso sostituito da piccoli splash ripetuti: erano le abitanti del luogo che si nascondevano al mio arrivo. Appoggiata immobile a una staccionata ho puntato l'obiettivo sull'acqua ricoperta di minuscole lenticchie verdi aspettando che una signora o signorina rana venisse fuori per continuare la conversazione con i suoi interlocutori maschi. Per la verità non so distinguere il sesso delle rane, perciò il soggetto che ho fotografato in diverse pose magari era un filosofo, o un trovatore che cantava la sua chanson d'amour alle belle in attesa di profferte amorose, ansiose di farsi convincere a fare un salto nella vita vera quella che consente al mondo di continuare ad esistere e alle femmine rana di deporre centinaia e centinaia di uova rotonde da cui poi nasceranno balene miniaturizzate munite di coda che nell'acqua inizieranno una lenta metamorfosi. Un evento così prodigioso che quando ero piccola non finivo mai di osservare: prese in mano e rovesciate sul dorso quelle balene in miniatura mostravano una pancetta trasparente piena di visceri e si dimenavano sbattendo la codina sul mio palmo aperto. Allora le immergevo di nuovo nell'acqua trasparente, in un angolo del fiume dove la loro ignota madre le aveva lasciate a nutrirsi e a generarsi. Come mi sembrava strano: quei piccoli esseri non avevano bisogno della madre, forse la loro vera madre era l'acqua.

Ma la cosa più straordinaria era la loro migrazione in massa dopo aver completato la trasformazione che aveva in sé la necessità di eliminare la coda e di fare spazio a quattro zampette che vedevo man mano svilupparsi. Quando la metamorfosi era completata un esercito di ranocchiette iniziava la risalita del costone che dal fiume portava fino alla nostra casa costruita lungo i margini della strada statale. Una volta l'anno quell'evento ha accompagnato le mie poche primavere, ventitré, passate in compagnia del mistero della natura che si esprimeva in infiniti modi. Emozioni indicibili all'epoca che solo a Roma hanno trovato le parole per esprimersi in qualche modo. Rivivendo quei frammenti di infanzia di una bambina che scende in strada ed è circondata da centinaia di ranocchiette grandi la metà di un mignolo, ma perfette nella loro fisiologia, la rivedo stupita e felice. Anche se non sapevo esprimerlo con un un pensiero logico oggi posso interpretare la confusa meraviglia di allora così: quello era un grande evento iniziatico in cui affrontando la faticosa risalita le piccole creature affermavano la loro ranità: ecco siamo diventate rane, da un piccolo uovo siamo state capaci non solo di trasformare il nostro corpo informe in uno perfetto e siamo state capaci di risalire con le nostre minuscole zampe un monte che potrebbe essere paragonato all'Everest, siamo qui tutte insieme a rendere lode e gloria alla ranità, siamo qui tutte insieme figlie di una stessa madre che non si è curata di noi, ma che ci ha messo al mondo e ci ha dato l'opportunità di esistere.

Un messaggio iniziatico proveniente da lontananze remote che, impressosi nella mente di una bambina l'avrebbe in seguito stimolata a cercare e a risalire indietro nel tempo fino ad arrivare agli antenati primordiali e ancora oltre. In questa ricerca incessante ancora in corso, anni fa mi sono imbattuta in una notizia di cui non saprei più riportarne l'origine: gli antichi romani quando vedevano partire le rondini pensavano che andassero a rifugiarsi negli stagni e si trasformassero poi in rane. L'immaginario degli antichi è una delle più straordinarie avventure della mente che si possa fare. Il mondo allora era ancora vivo e popolato di presenze magiche: boschi sacri, ninfe che abitavano nelle querce o nelle onde del mare, Pan il dio dell'istinto vitale che inseguiva fanciulle scaturite dalle fonti, animali totemici che sorvegliavano le case degli uomini, uccelli che indicavano la direzione da prendere, scrofe che indicavano agli eroi il luogo dove costruire la città.

 

Nel libro “Il grande Nord” di Malachy Tallack, a pagina 116 si legge:

“Spesso chi incontra gli animali nella natura racconta di aver intravisto negli occhi che lo fissavano una forma di intelligenza, una saggezza innata. La lettura si può anche capovolgere: quegli occhi possono essere specchi. Perché credo che nel loro strano sguardo riconosciamo la nostra stupidità. Di fronte a una creatura che conosce a fondo se stessa e il luogo che abita, e sa qual'è il suo scopo e quali sono i suoi bisogni senza il peso del dubbio, cogliamo all'istante la nostra ignoranza. Durante un incontro simile sia l'animale che l'essere umano hanno mille domande, ma solo il primo troverà risposte soddisfacenti”.

 

Dovremmo tornare a lezione dagli animali come già si faceva agli inizi della nostra metamorfosi quando ancora ci sentivamo fratelli e non esseri separati, dovremmo imparare a vivere con più istinto e meno sovrastrutture e soprattutto dovremmo poter sapere ogni giorno procurarci ciò di cui abbiamo bisogno: cibo, nido, amore, auto-protezione... senza dubbi e senza esitazioni.

Becchi, rostri, zanne, zampe, ali i soli strumenti con cui essi procedono nel mondo con sicurezza e capacità di mimetizzazione quando si sentono minacciati.

Far finta di essere morti quando sta per avventarsi su di noi la mano assassina che vuole derubarci del corpo e dell'anima. Intraprendere lunghe migrazioni quando il clima ci fa capire che non troveremo più cibo né amore, partire dall'Africa e volare fino a quando non incontriamo la Terra Promessa.

Aspetto con trepidazione l'arrivo delle rondini le immagino in viaggio e poi le vedo arrivare a pochi metri dal cielo di casa mia; quando sento le loro strida alte rendo grazie alle infinite generazioni che mi hanno preceduta e che, volenti o no, mi hanno permesso di approdare in questa terra promessa così fragile e così bella che ogni giorno, sempre di più mi appare nel suo insondabile mistero di cui anch'io faccio parte.

E per quanto io non sia credente ringraziare desidero con le parole di Francesco:

 

Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui; et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione.

Laudato si', mi' Signore, per sora luna e le stelle: in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si', mi' Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento.

Laudato si', mi' Signore, per sor'aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si', mi' Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

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Uploaded on April 17, 2024
Taken on April 8, 2024