_xergio
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PRODIGIO
Nonna Ela
“Tu hai una malattia nello sguardo piccolo mio, proprio dentro agli occhi. E questo è il tuo problema.”
Io rimasi zitto, cosa potevo risponderle. Avevo quindici anni e lei, enorme e al tempo stesso minuscola come mi appariva, mi stava seduta di fronte protesa verso di me. Sembrava vecchissima in quei giorni. Sembrava spenta. Tutte le frasi che sentivo dire su di lei avevano un suono insolitamente definitivo. Durante le cene per esempio, mentre in miei genitori discutevano fra loro sopra il rumore della televisione sempre accesa.
Ad ogni modo la nonna non mi aveva mai parlato con così tanta tristezza nella voce, prima di quel momento. Rimasi zitto e ripensai all’episodio che fra le lacrime le avevo appena raccontato.
Scuola. Suona la campanella dell’intervallo e si formano i soliti gruppetti. Il mio compagno di banco, Mirko, Mattia ed io – che al tempo ero soprannominato Lothar – appoggiati alla porta dell’aula osserviamo nell’atrio quelli più grandi di noi. Dopo poco vediamo uscire da dietro di noi Gabry, un nostro coetaneo piuttosto silenzioso che come tutti i giorni stava andandosene in bagno dopo aver mangiato la merenda seduto al suo banco apparecchiato. Avrebbe trascorso anche oggi la sua metodica ricreazione senza parlare con nessuno. Gabriele, o come diciamo noi Gabryella, o ancora Gabry, è un ragazzo decisamente strano ma oggi è un giorno come gli altri e io non ci faccio caso. Mentre ci passa davanti i miei amici si guardano, ridono, aspettano un po’ e fanno per seguirlo in bagno. Vado con loro. Quando entriamo lui ha appena finito, ha ancora la mano sulla cintura, ci guarda, per la vergogna si volta. E’ quei che uno dei miei amici lo strattona e dopo aver detto una cosa senza senso come “questo è per la faccenda del diario, e perché sei un povero stronzo, uno sfigato sei” gli sputa addosso. Sento gli altri che ridono e no capisco cosa centri questa storia del diario. Vedo Gabry che sta per reagire ma si ferma a metà, abbassa gli occhi con il pungo a mezz’aria ancora chiuso per la rabbia – sembra una statua tristissima, è questo che penso – poi vedo gli altri che sputano anche loro, ridono e infine mi guardano. Sputo pure io ma non so perché.
Raccontai questa storia alla nonna. Le dissi che era una settimana che non riuscivo a pensare ad altro, che avevo anche provato a fare amicizia con Gabriele nei giorni dopo il fatto ma che di lui non ci capivo proprio niente. Avevo bisogno di sapere perché ero stato capace di sputare a una persona che non mi aveva fatto nulla. La nonna disse solo questo:
“Non devi essere troppo duro con te stesso. Le persone non sono così buone come sembrano.”
MI passò una mano nei capelli e poi, con una voce tristissima:
“Tu hai una malattia nello sguardo piccolo mio, proprio dentro agli occhi. E questo è il tuo problema.”
Quella fu una delle ultime volte che parlammo. Morì di lì a poco.
Lothar
E’ notte e l’aria di questo schifo di stagione afosa si è finalmente rinfrescata. Sto correndo. Non appena voltato l’angolo sento un grido che lacera la quiete delle stradine alle mie spalle. Sono stato io ma non ho paura. Non ho nemmeno quella lucidità del pensiero che nei film viene attribuita ai delinquenti.
Già. Sono appena diventato un delinquente e mi stupisco dei miei primi pensieri di questa nuova condizione. Mentre corro, ripenso a quando io e Gabry, da bambini, scappavamo fianco a fianco da Mirko e dagli altri. Ripenso con nostalgia ai tempi delle partite giù al campo, con i ragazzini, quando avevo conosciuto Lele. Le gambe continuano a mulinare, il respiro è allenato e regolare. Sono flash più che altro, immagini che si sovrappongono nella mia mente senza che fra loro vi siano nessi particolari se non: il correre.
Io che adesso corro senza fare alcuno sforzo.
Arrivato alla fine del marciapiede, dove c’è una rientranza e ed iniziano i portici, mi arresto. Mi guardo attorno, non si vede nessuno. Nessuno mi può vedere, controllo le finestre e quindi mi riordino i vestiti. Riprendo fiato.
Se tutto andrà bene da domani la mia vita potrà continuare ad essere la vita normale che facevo prima. Ostentando tranquillità comincio a camminare verso casa, nella notte.
In lontananza il suono di una sirena.
Sporco incastrato sotto le unghie.
Lele: testimonianza #c9
“Ok, sono pronto.”
“Ci proverò. Allora… noi si giocava a calcio quasi tutti i pomeriggi, d’estate, in uno spazio di terra fra il liceo e la chiesa. Come pali delle porte usavamo gli zaini, o le felpe ammucchiate. La lunghezza del campo variava a seconda del numero dei giocatori. Capitava spesso di non essere abbastanza e di volta in volta o cercavamo di coinvolgere quelli che passavano di lì, o chiamavamo Thomas e i suoi amici. Erano più grandi, più forti e più cattivi di noi. Quando non volevamo avere problemi ci limitavamo a rimpicciolire porte e campo. Mi ricordavo di lui perché per un’intera estate venne a fare il libero nella nostra squadra. Correva forte, aveva resistenza e piedi buoni, ed essendo più grande di noi di una quindicina di anni si scelse il ruolo. Mi ricordo che alla prima partita i piazzò in mezzo alla difesa dicendo questa cosa ridicola, manco fosse lui il ragazzino: “Chiamatemi Lothar, come il giocatore dell’Inter.” Era silenzioso. Arrivava n bicicletta con indosso pantaloncini e maglietta verde militare e sene andava in bicicletta senza dirci mai niente della sua vita, o di sé. Non sapevamo se lavorava, se era sposato, se aveva dei figli – non sembrava il tipo d’altra parte – noi non sapevamo praticamente nulla di lui. Non credo fosse una persona triste, per via di quei lunghissimi silenzi intendo. Era semplicemente fatto così. Aveva legato solamente con me, forse perchè gli giocavo di fianco in difesa.
UN giorno mi disse che molto tempo prima aveva conosciuto una persona con il mio stesso nome, Gabriele, a cui aveva voluto bene. Anche io gli volevo bene, in un qualche modo, come a uno dei miei fratelli maggiori. E che i giornali scrivano quello che vogliono scrivere. O quegli ubriaconi del bar. A me non importa. Io non credo a una sola parola di tutto questo.”
Dal fascicolo di Mirri Luciano: deposizione #a3
“Sentite, sono stanco e vorrei fumare una sigaretta se non vi dispiace.”
“Io non so come spiegarvelo in altro modo. La storia è semplicemente la stessa che vi ho già raccontato le altre volte. Conoscevo l’uomo solamente di vista. Sapevo come rintracciarlo per via di quell’episodio avvenuto nello stesso bar, quattro o cinque anni fa. Prima di quella sera non l’avevo mai incontrato: era ubriaco fradicio e con un pretesto aveva deciso di prendersela con me. Mi aveva umiliato davanti ad altre persone. Io mi infuriai. I suoi amici si misero in mezzo. Quando mi calmai decisi di non denunciarlo nemmeno.”
“Mi convinsi che l’episodio potesse chiudersi così e me ne dimenticai. Quattro o cinque anni fa, ve l’ho già detto, non ricordo con precisione. Quanto al giorno in cui mi avete arrestato era stata una giornata normale. Ero rientrato al mattino dal turno di fabbrica. Non avevo dormito come spesso mi accade. Avevo fatto una telefonata a mia madre per sentire come andava dal momento che vive da sola, è anziana e ha solo me. Il resto del pomeriggio l’avevo trascorso ad ascoltare musica.”
“Si, il volume era altissimo. Mi sono scusato coi vicini ma non nascondevo nulla. Che cosa avrei dovuto nascondere? Io la musica la ascolto così, è una delle poche emozioni che mi sono rimaste. Sono sicuro che non ne avete la minima idea voi. Ad ogni modo devo essere rimasto a sonnecchiare sul divano fino all’ora in cui uscii di casa.”
“Sono sicuro fosse mezzanotte. Fu lì che incontrai quello che abita di fianco a me e gli chiesi scusa per il volume.”
“Infatti. Per la prima volta in tutti quegli anni mi ricordai della faccenda con il tizio del bar. Non so dire perché in quel preciso momento. E’come se lo avessi sognato. Svegliandomi mi sono sentito un altro. Sono uscito di casa con l’intenzione di andare là. Non sapevo cosa gli avrei voluto fare se mi fossi trovato davanti a lui. So solo dirvi che quello che è successo in seguito non lo volevo, non lo avevo minimamente progettato. Ma di quello che successe sapete già tutto dai racconti degli altri clienti, no?”
“Voi credete? Vi sembra che il mio racconto non spieghi un bel niente. Ve l’ho già detto. Mi era tornata in mente la faccenda. Quell’uomo mi doveva qualcosa. Avevo anche bisogno di uscire e camminare un po’ e così andai in quel quartiere. Non cercate spiegazioni cervellotiche. Era una cosa ingiusta. Nella notte in questione non riuscii più a tenere a freno quello che avevo dentro. Come se qualcosa o qualcuno mi avesse scoperchiato i ricordi e avesse scelto solo quelli pericolosi. Non voglio giustificare il mio comportamento. Le ripeto… non era mia intenzione. Camminavo verso il bar e on pensavo a nulla. Una volta là ho peso il controllo della situazione.”
“Si, mi avete già detto dei rischi che corro se non vi do una spiegazione migliore.”
“Il punto è che non ho altro da aggiungere. Questo è tutto quello che ho da dire. Tutto quello che io so di sapere.”
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PRODIGIO
Nonna Ela
“Tu hai una malattia nello sguardo piccolo mio, proprio dentro agli occhi. E questo è il tuo problema.”
Io rimasi zitto, cosa potevo risponderle. Avevo quindici anni e lei, enorme e al tempo stesso minuscola come mi appariva, mi stava seduta di fronte protesa verso di me. Sembrava vecchissima in quei giorni. Sembrava spenta. Tutte le frasi che sentivo dire su di lei avevano un suono insolitamente definitivo. Durante le cene per esempio, mentre in miei genitori discutevano fra loro sopra il rumore della televisione sempre accesa.
Ad ogni modo la nonna non mi aveva mai parlato con così tanta tristezza nella voce, prima di quel momento. Rimasi zitto e ripensai all’episodio che fra le lacrime le avevo appena raccontato.
Scuola. Suona la campanella dell’intervallo e si formano i soliti gruppetti. Il mio compagno di banco, Mirko, Mattia ed io – che al tempo ero soprannominato Lothar – appoggiati alla porta dell’aula osserviamo nell’atrio quelli più grandi di noi. Dopo poco vediamo uscire da dietro di noi Gabry, un nostro coetaneo piuttosto silenzioso che come tutti i giorni stava andandosene in bagno dopo aver mangiato la merenda seduto al suo banco apparecchiato. Avrebbe trascorso anche oggi la sua metodica ricreazione senza parlare con nessuno. Gabriele, o come diciamo noi Gabryella, o ancora Gabry, è un ragazzo decisamente strano ma oggi è un giorno come gli altri e io non ci faccio caso. Mentre ci passa davanti i miei amici si guardano, ridono, aspettano un po’ e fanno per seguirlo in bagno. Vado con loro. Quando entriamo lui ha appena finito, ha ancora la mano sulla cintura, ci guarda, per la vergogna si volta. E’ quei che uno dei miei amici lo strattona e dopo aver detto una cosa senza senso come “questo è per la faccenda del diario, e perché sei un povero stronzo, uno sfigato sei” gli sputa addosso. Sento gli altri che ridono e no capisco cosa centri questa storia del diario. Vedo Gabry che sta per reagire ma si ferma a metà, abbassa gli occhi con il pungo a mezz’aria ancora chiuso per la rabbia – sembra una statua tristissima, è questo che penso – poi vedo gli altri che sputano anche loro, ridono e infine mi guardano. Sputo pure io ma non so perché.
Raccontai questa storia alla nonna. Le dissi che era una settimana che non riuscivo a pensare ad altro, che avevo anche provato a fare amicizia con Gabriele nei giorni dopo il fatto ma che di lui non ci capivo proprio niente. Avevo bisogno di sapere perché ero stato capace di sputare a una persona che non mi aveva fatto nulla. La nonna disse solo questo:
“Non devi essere troppo duro con te stesso. Le persone non sono così buone come sembrano.”
MI passò una mano nei capelli e poi, con una voce tristissima:
“Tu hai una malattia nello sguardo piccolo mio, proprio dentro agli occhi. E questo è il tuo problema.”
Quella fu una delle ultime volte che parlammo. Morì di lì a poco.
Lothar
E’ notte e l’aria di questo schifo di stagione afosa si è finalmente rinfrescata. Sto correndo. Non appena voltato l’angolo sento un grido che lacera la quiete delle stradine alle mie spalle. Sono stato io ma non ho paura. Non ho nemmeno quella lucidità del pensiero che nei film viene attribuita ai delinquenti.
Già. Sono appena diventato un delinquente e mi stupisco dei miei primi pensieri di questa nuova condizione. Mentre corro, ripenso a quando io e Gabry, da bambini, scappavamo fianco a fianco da Mirko e dagli altri. Ripenso con nostalgia ai tempi delle partite giù al campo, con i ragazzini, quando avevo conosciuto Lele. Le gambe continuano a mulinare, il respiro è allenato e regolare. Sono flash più che altro, immagini che si sovrappongono nella mia mente senza che fra loro vi siano nessi particolari se non: il correre.
Io che adesso corro senza fare alcuno sforzo.
Arrivato alla fine del marciapiede, dove c’è una rientranza e ed iniziano i portici, mi arresto. Mi guardo attorno, non si vede nessuno. Nessuno mi può vedere, controllo le finestre e quindi mi riordino i vestiti. Riprendo fiato.
Se tutto andrà bene da domani la mia vita potrà continuare ad essere la vita normale che facevo prima. Ostentando tranquillità comincio a camminare verso casa, nella notte.
In lontananza il suono di una sirena.
Sporco incastrato sotto le unghie.
Lele: testimonianza #c9
“Ok, sono pronto.”
“Ci proverò. Allora… noi si giocava a calcio quasi tutti i pomeriggi, d’estate, in uno spazio di terra fra il liceo e la chiesa. Come pali delle porte usavamo gli zaini, o le felpe ammucchiate. La lunghezza del campo variava a seconda del numero dei giocatori. Capitava spesso di non essere abbastanza e di volta in volta o cercavamo di coinvolgere quelli che passavano di lì, o chiamavamo Thomas e i suoi amici. Erano più grandi, più forti e più cattivi di noi. Quando non volevamo avere problemi ci limitavamo a rimpicciolire porte e campo. Mi ricordavo di lui perché per un’intera estate venne a fare il libero nella nostra squadra. Correva forte, aveva resistenza e piedi buoni, ed essendo più grande di noi di una quindicina di anni si scelse il ruolo. Mi ricordo che alla prima partita i piazzò in mezzo alla difesa dicendo questa cosa ridicola, manco fosse lui il ragazzino: “Chiamatemi Lothar, come il giocatore dell’Inter.” Era silenzioso. Arrivava n bicicletta con indosso pantaloncini e maglietta verde militare e sene andava in bicicletta senza dirci mai niente della sua vita, o di sé. Non sapevamo se lavorava, se era sposato, se aveva dei figli – non sembrava il tipo d’altra parte – noi non sapevamo praticamente nulla di lui. Non credo fosse una persona triste, per via di quei lunghissimi silenzi intendo. Era semplicemente fatto così. Aveva legato solamente con me, forse perchè gli giocavo di fianco in difesa.
UN giorno mi disse che molto tempo prima aveva conosciuto una persona con il mio stesso nome, Gabriele, a cui aveva voluto bene. Anche io gli volevo bene, in un qualche modo, come a uno dei miei fratelli maggiori. E che i giornali scrivano quello che vogliono scrivere. O quegli ubriaconi del bar. A me non importa. Io non credo a una sola parola di tutto questo.”
Dal fascicolo di Mirri Luciano: deposizione #a3
“Sentite, sono stanco e vorrei fumare una sigaretta se non vi dispiace.”
“Io non so come spiegarvelo in altro modo. La storia è semplicemente la stessa che vi ho già raccontato le altre volte. Conoscevo l’uomo solamente di vista. Sapevo come rintracciarlo per via di quell’episodio avvenuto nello stesso bar, quattro o cinque anni fa. Prima di quella sera non l’avevo mai incontrato: era ubriaco fradicio e con un pretesto aveva deciso di prendersela con me. Mi aveva umiliato davanti ad altre persone. Io mi infuriai. I suoi amici si misero in mezzo. Quando mi calmai decisi di non denunciarlo nemmeno.”
“Mi convinsi che l’episodio potesse chiudersi così e me ne dimenticai. Quattro o cinque anni fa, ve l’ho già detto, non ricordo con precisione. Quanto al giorno in cui mi avete arrestato era stata una giornata normale. Ero rientrato al mattino dal turno di fabbrica. Non avevo dormito come spesso mi accade. Avevo fatto una telefonata a mia madre per sentire come andava dal momento che vive da sola, è anziana e ha solo me. Il resto del pomeriggio l’avevo trascorso ad ascoltare musica.”
“Si, il volume era altissimo. Mi sono scusato coi vicini ma non nascondevo nulla. Che cosa avrei dovuto nascondere? Io la musica la ascolto così, è una delle poche emozioni che mi sono rimaste. Sono sicuro che non ne avete la minima idea voi. Ad ogni modo devo essere rimasto a sonnecchiare sul divano fino all’ora in cui uscii di casa.”
“Sono sicuro fosse mezzanotte. Fu lì che incontrai quello che abita di fianco a me e gli chiesi scusa per il volume.”
“Infatti. Per la prima volta in tutti quegli anni mi ricordai della faccenda con il tizio del bar. Non so dire perché in quel preciso momento. E’come se lo avessi sognato. Svegliandomi mi sono sentito un altro. Sono uscito di casa con l’intenzione di andare là. Non sapevo cosa gli avrei voluto fare se mi fossi trovato davanti a lui. So solo dirvi che quello che è successo in seguito non lo volevo, non lo avevo minimamente progettato. Ma di quello che successe sapete già tutto dai racconti degli altri clienti, no?”
“Voi credete? Vi sembra che il mio racconto non spieghi un bel niente. Ve l’ho già detto. Mi era tornata in mente la faccenda. Quell’uomo mi doveva qualcosa. Avevo anche bisogno di uscire e camminare un po’ e così andai in quel quartiere. Non cercate spiegazioni cervellotiche. Era una cosa ingiusta. Nella notte in questione non riuscii più a tenere a freno quello che avevo dentro. Come se qualcosa o qualcuno mi avesse scoperchiato i ricordi e avesse scelto solo quelli pericolosi. Non voglio giustificare il mio comportamento. Le ripeto… non era mia intenzione. Camminavo verso il bar e on pensavo a nulla. Una volta là ho peso il controllo della situazione.”
“Si, mi avete già detto dei rischi che corro se non vi do una spiegazione migliore.”
“Il punto è che non ho altro da aggiungere. Questo è tutto quello che ho da dire. Tutto quello che io so di sapere.”