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Le paste domenicali

"Questa scena mi ha fatto immaginare il sottostante racconto, se non vi va di leggerlo fermatevi solo allo scatto, non voglio abusare del vostro tempo". (Io, Livia)

 

Le 13 in punto. La domenica mattina il signor Matteo non tradiva mai le sue abitudini. La colazione al mattino presto, la santa Messa nella preziosa chiesetta del Santo Spirito, quattro chiacchiere e un aperitivo con gli amici di una vita e, prima di tornare a casa, le paste al Bar Dal Conte. Sempre dieci pezzi, disposti in ordine sul vassoio dalle sapienti mani di Ninetta, la pasticcera più rinomata a Valpesca e dintorni. Matteo era cliente da decenni e il rituale, ben consolidato, sembrava immutato, a parte la sua andatura che col tempo s’era fatta più incerta. Raggiungeva casa con più lentezza; una volta giunto davanti al portone suonava sempre due volte per avvisare la sua Letizia e poi apriva l’uscio. Una volta entrato, zì Matteo, come lo chiamavano in paese, andava a riporre il vassoio dei dolci in frigo e salutava a voce alta la moglie.

Letizia…

Matteo l’aveva sposata che aveva appena 17 anni, un fiore, e lui poco più che ventenne era invidiato da mezza Valpesca perché Letizia era la più bella mora della costa. “Letì, bella mia, sono arrivato. Stai comoda che ci penso io ad apparecchiare la tavola. Appena è pronto ti chiamo” e così dicendo si lavava con cura le mani e indossava un bianco grembiulone, lungo fin sotto le ginocchia. Riempiva la pentola di acqua corrente, la riponeva sul fuoco e, aspettando che bollisse, preparava la pasta. La domenica era consuetudine cucinare paccheri al ragù, che erano il piatto preferito da Letizia e dai ragazzi, Giacomo e Gabriele, l’uno chirurgo vascolare a New York e l’altro ingegnere meccatronico a Vancouver.

Anche adesso che i figli erano all’estero, i paccheri erano rimasti la tradizione domenicale da rispettare. Matteo aveva preparato il ragù già di buon mattino, ché il rituale della preparazione è laborioso e lungo. Dapprima si versava in un tegame una coscienziosa quantità di olio extravergine d’oliva prodotto in proprio, poi si affettava sottilmente la cipolla rossa di Tropea, la si faceva appena appena dorare, si aggiungeva la carne tritata di primo taglio che Tonino, il fraterno amico macellaio aveva cura di mettergli da parte, un po’ di sale, il passato di pomodoro fatto in casa nelle calde giornate d’estate e, per finire, un po’ di zucchero. Il resto lo faceva la cottura lenta, una cadenzata mescolatura e l’occhio attento a che il ragù non si attaccasse al fondo del tegame. L’odore si diffondeva per la casa e per la via sottostante, glielo diceva sempre Alfonsina, la sua vicina di casa, che quando stendeva fuori i panni gli gridava dal balcone “Zì Mattè, il profumo del vostro ragù fa resuscitare i morti! Buon appetito e buona domenica”. L’acqua della pentola bolliva e zì Mattè vi versò la pasta, poi il sale e mescolò. Scoperchiò il tegame, affettò un pezzo di pane e vi poggiò su una abbondante cucchiaiata di ragù. Era una tradizione di famiglia, da parte di mamma, quella di gustare il ragù su una fettina di pane prima del pranzo. Letizia gli diceva sempre che questo gli toglieva l’appetito ma Matteo lo faceva di nascosto, come un bimbo che ruba la marmellata. In fondo gli serviva anche per assaggiarlo se andava aggiustato di sale o se era troppo tiepido, pensava, e accese il fornello per scaldarlo giusto un po’. Giusto il tempo che la pasta fosse cotta al dente, la scolò, la mise nei due piatti e vi versò sopra tre abbondanti mestoli di ragù. Portò i piatti a tavola, l’uno di fronte all’altro, andò a prendere il parmigiano dal frigo e si sedette. La tavola l’aveva preparata prima di andare in chiesa, tovaglia candida, bicchieri capovolti per scongiurare la sorpresa di qualche mosca birichina, posate ripiegate dentro i tovaglioli. “Buon appetito Letizia mia” e cominciò a pranzare. Guardava davanti a sé e di tanto in tanto scuoteva la testa. “Letì, bellezza mia, così non va, devi sforzarti a mangiare. Se lo sente Alfonsina che non mangi penserà che non sono più capace di cucinare un buon ragù”. Finì il suo piatto e si alzò raggiungendo la sedia di fronte a lui. “Letì, facciamo così, ti imbocco io, un po’ a me e un po’ a te, come facevi quando i ragazzi erano piccini, va bene? Ho capito, non hai voglia di pasta oggi”. Andò ad aprire il frigo e prese le paste che aveva comprato. “Ho preso quelle che piacciono a te, con la crema pasticcera, erano le più belle che Ninetta avesse preparato questa mattina, su prendine qualcuna. Lo so sono tante ma così non penso che i ragazzi sono lontani e mi illudo che siano ancora qui.”

Prese un bignè e lo portò alla bocca, ne mangiò metà e avvicinò la restante parte al portafoto. “Su Letì, assaggia quant’è buono. Ogni giorno è la stessa storia, amore mio, se non mangi ti ammalerai” e sconsolato prese il portafoto e lo mise sul cassettone, vi sistemò accanto il vasetto di cristallo con i fiori freschi, si sedette di fronte, accese la radio antica ancora funzionante, di radica, e si addormentò ascoltando la Lacrimosa di Mozart. (Diritti riservati)

 

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Uploaded on October 6, 2019
Taken on September 22, 2019