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Medicine

 

- Quant’è?

- Poco, signora.

Le porgo la borsa che le ho aggiustato, lei ci mette dentro il borsellino ed un quotidiano.

- Poco? Questa risposta non l’avevo ancora sentita..

- Se davvero quel quotidiano è suo, signora, il prezzo scende ancora.

- Siamo rimasti in pochi, temo.

Parla senz’alzare la voce, per non farsi sentire dagli altri clienti. Como è la città che abbraccia ridendo i forzinuovisti senza neppure sapere cosa siano, senza batter ciglio per i loro pestaggi in branco. La signora, che già vedevo spesso percorrere le vie qui davanti, sempre a piedi, evidentemente no, non sta con loro. Non sta da quella parte.

- Un suicidio assistito, signora, non c’è stato neppure bisogno di un esecutore.

- Già. Un assassinio senz’assassino. Quanto le devo?

- Nulla, davvero.

- Lei chiude tra un mese se non comincia a farsi pagare.

Mi vien da dirle che sarebbe bello, in effetti. Chiudere e andarsene.

- Quattro cuciture valgono un caffè, allora.

- Dice?

- Lo beviamo la prima volta che la incontro per strada, ecco.

Sorride. Esce dal negozio. Rientra quando ne son uscite le altre clienti. Mi parla dalla porta, arrotolandosi una sigaretta.

- Posso pagare?

- Appena c’incontriamo, signora.

- Adesso. Forza, chiuda, qualche minuto e la restituisco al suo monastero.

E chiudo.

Attraversiamo il marciapiede e la signora s’avvicina alle strisce pedonali, diretta al bar di fronte. Quasi l’afferro per un gomito, poi per non toccarla le taglio invece la strada.

- Le spiace se lì non c’andiamo, signora?

- Credevo ci venisse spesso, qui.

- Una lunga storia. Venga, andiamo da Marco.

Il bar di Marco e del pirata è nascosto in un vicolo, c’è ombra perfino di giorno. Sembra un posto per ricchi, o magari per i loro figli, e a volte ci vengono. Più educati i padri, nonostante tutto. C’è una solenne e quieta assenza d’idioti, qui dentro, ci vengon cantanti e chitarristi, bombaroli e commercialisti, un paio di calzolai e altrettanti nigeriani. Ma gl’idioti no, e le donne raramente.

Marco e la signora si salutano, pare già si conoscano, almeno di vista. Questa donna comincia a stupirmi. Prima era solo una comparsa, una passante distinta e affascinante, bella della bellezza che gl’uomini non vedono e chiamano vecchiaia. Credo abbia cinquant’anni e poco più, ha meno trucco che rughe in viso, ed usa quelle per aggraziarsi. Ma la credevo ricca e distante, e quand’è entrata in negozio per riparar quella borsa pensavo sarebbero state grane, roba da ricchi da aggiustare e penare per farsi pagare, invece eccola qua.

- Lei cosa beve, Ragazzo?

- Un caffè, signora.

- Avrei scommesso su una grappa.

Sorrido.

- Nevermore, ho smesso.

La signora mi guarda. Poi guarda Marco.

- Due di quelli che beveva prima di smettere, per favore.

- Cazzo – dico.

- Articolo per signora – risponde la signora. Ma arrossisce un po’, credo.

Marco sorride e se ne va.

- Quindi al bar lì davanti non ci va più?

- Credo di no.

- Problemi?

- Una lunga storia, signora.

- Pensi che è stato proprio lì che m’han parlato di lei.

- Posso indovinare? Il personale, è stato il personale a parlarle di me. Non i padroni.

- Le cameriere la stimano, sa? E qualcun altro.

- Addirittura.

- L’unico cliente che non ci vuol portare a letto, m’han detto. Dev’essere una rarità, ormai. E m’han detto che aggiusta borse e scarpe.

- Già.

- I padroni no, vero?

- Cosa?

- Non le piacciono?

- Detto fuori dai denti, signora, e se lei è amica loro o del loro celebre e munifico padre allora mi scuso prima ma non dopo: i figli di papà non mi piacciono, non mi piacciono quelli che non san fare un cazzo e invece comandano, non mi piacciono i prepotenti e non mi piacciono i presuntuosi.

- Cos’è successo? Io mi chiamo Eleonora, per inciso.

Mi porge la mano guardandomi negli occhi.

La storia è quella di un ragazzo che un giorno è entrato in quel cazzo di bar, e non so s’è il caso di raccontargliela. Se penso alle ragazze che ci lavorano, taccio. Se penso ai due che lo han comprato, forse taccio lo stesso. Per la delusione. Per la pena. La clientela se n’è già stancata: veder cinque persone così capaci tacere di fronte a due imbranati solo perché loro son straniere e lavorano e quei due sono italiani e paparino gl’ha comprato un bar, beh: è una cosa che ha avuto la capacità di indignar perfino i ricchi che lo frequentano. Finché un giorno è entrato un ragazzo, quel ragazzo. Non ha comprato nulla, nulla ha ordinato, chiesto, bevuto. S’è solo messo a guardar da vicino tutto. Clienti, cornetti, bottiglie, il giornale. Una presenza piuttosto inquietante e maleodorante, a quel che me ne si raccontò. Io non c’ero. Il giorno dopo è tornato, ed è successo tutto allo stesso modo. C’ero anch’io. Le clienti del bar, le ragazze che ci lavorano, eran piuttosto a disagio: il ragazzo, muto ancora, s’era seduto ad un tavolino e guardava fisso chiunque entrasse, ed a quell’ora eran solo prefiche impellicciate con il cagnolino al guinzaglio. Quando il ragazzo m’ha visto entrare s’è alzato e se n’è andato, e quando me ne sono andato è tornato dentro ed ha ricominciato: pattugliava l’ingresso del bar per intralciar la gente che ne entrava e ne usciva, sempre quello sguardo, quel silenzio, quel brutto odore di sporco. Tutta roba che m’han raccontata, pure questa: ricordo d’averlo visto, ma non sapevo avesse qualcosa di particolare, per me era solo un ragazzo seduto al bar. Come me. Poi rieccolo, torna al bar e per caso quella volta c’è il padrone

- Titolare: padrone non mi piace – dice la signora.

- Neppure a me – le dico – ma a lui sì, e pure a sua sorella. E quella volta il padrone salta fuori dal bancone e dice al ragazzo di andarsene. Il ragazzo non risponde: lo guarda e basta, ed il padrone è alto il doppio, ed il ragazzo se ne va. Ricompare due ore dopo, torna al bar, si comporta peggio del solito, il padrone lo spinge fuori dalla porta e lo fa cadere a terra. Fisicamente, il ragazzo non ha alcuna reazione. Neppure in questo che si rivelerà il primo contatto fisico con lui. Saranno tre le figure a toccarlo, alla fine. Ed io no. Se ne va, torna mezz’ora dopo con un bastone che ad ogni nuovo racconto dei padroni diventa più lungo e più duro.

Pornofandonie, ma il bastone c’era, lo sa tutto il viale. Non lo usa, il ragazzo: pattuglia fuori dal bar, un libro in tasca, e questa volta lo so perché mi trovo a passar di lì per consegnar stivali in cima alla via. E quando c’arrivo mi telefona mio fratello per dirmi che la padrona del bar ha telefonato in negozio chiedendogli che io corra da lei subito. Ci vado, la strada mi ci porta davanti. La padrona del negozio mi racconta tutta la storia del ragazzo per come s’è svolta fin qui, ed a me spiace per le ragazze che lavoran lì, ci lavora pure Mira e mi par chiaro che al suo compagno venga la stessa paura mia e molta di più: che queste cinque persone stian rischiando la pelle per far ricchi quei due figli di papà. La padrona mi racconta del ragazzo, di nuovo, ripete e ricama, ed a me stan girando le palle, ormai. Perché delle sue cosce scoperte e delle sue infantili pretese d’intoccabilità farei parecchio e volentieri a meno. E appena tornato in negozio, disgustato, mentre mio fratello ed il nostro vicino bevono una birra a mezzo, ecco in tutte le sue lunghe cosce la padrona del negozio: per piacere, dice. E vado. Andiamo. E rieccolo: non faccio in tempo a dirgli nulla, a prenderlo per la mano. Se ne va appena mi vede, e siamo tre. E non voglio certo altro che capire, cazzo, capire cos’abbia in quel silenzio armato. Non una rapina: l’avrebbe fatto. Non capisco, nessuno capisce: è matto? Drogato? Disperato? Non si capisce nemmeno chi e di dove sia. Non ce lo si chiede, anzi. Me lo chiedo io, se lo chiedono le ragazze del bar, straniere in terra straniera, per gl’altri è solo un fastidio pericoloso, un’interruzione angosciante nei loro rituali fastosi. Entriamo, io e Christian e mio fratello, e lui se ne va, esco dal bar per guardarlo, per proteggerlo da se stesso, dalle conseguenze della cazzata che mi par chiaro stia per fare, e lui se ne va, cammino con lui e lui scappa, lontano, neppure le operazioni m’han fermato abbastanza i piedi da impedirmi di correre due volte più forte ma rinuncio, non so perché. Sarà stanchezza. Di stare al mondo così, di farlo inutilmente. Lui corre ed io arretro. Poi è domenica, e mentre io, in centro, ascolto una chitarrista dai capelli rossi e la vedo abbracciare la ragazza con il maglione lungo fin sulle mani, il ragazzo torna al bar, si siede, ci son solo due delle ragazze. Entra, il ragazzo, si siede, ed una delle ragazze gli chiede, fegato e cuore in mano, di spostarsi perché lei deve puire il vetro all’ingresso, puoi metterti lì, se vuoi, e lui zitto, e tira fuori una pistola e la mette sul tavolo. Nient’altro. Neppure una virgola in più, solo questo. Nei racconti dei padroni, che non c’erano, è successo molto di più. Nel racconto di Laur è successo questo e nulla più. Un inspiegabile e a suo modo triste nulla. Solo che un’ora dopo arriva il padrone con i suoi amici, il ragazzo non c’è più, ormai, non è al bar, se n’è andato con la sua pistola che chissà s’è finta o vera, s’è piombo o marzapane, passeggia senz’’anima o senza vita lungo il corso ed il padrone del bar appena saputo di cos’ha fatto lo va a cercare, orda in caccia, ed il ragazzo le prende senza neppure fiatare, neppure si muove, e quando l’illustre paparino chiama gli sbirri gli sbirri arrivano subito, che per certa gente si volta e per altra gente non ci sono i mezzi. O, all’inverso, per punir certa gente si corre e per punirne altra s’aspetta. In caserma gonfiano di botte il ragazzo, che risulta chiamarsi Thomas, c’è scritto sui suoi documenti, lui non apre bocca, si chiama Thomas e fino a due settimane fa stava dov’è nato, in una città tra i Carpazi ed il mare. Viene rilasciato il giorno dopo, gonfio e zitto, ancora. E ancora, e non so perché, e l’ignoranza m’inquieta pure se è la mia, vanamente affamata, non so perché ma Thomas torna lungo il corso, gli sbirri han scoperto che dorme a Sangiovanni, sa quindi solo una strada, quella dai binari a qui, Thomas torna ed il padrone in quel momento è al bar. Thomas non c’entra, e forse ci sarebbe entrato ma forse no, il padrone esce e lo porta qui davanti a dove stiamo bevendo io e la signora, bella finezza andare a massacrare un inerme di quaranta chili di fronte alla concorrenza, di fronte ad un uomo vero e buono come Marco. Thomas non fiata e non si difende, non ha ormai addosso niente perché gli sbirri gl’han presa la pistola finta e mai usata ed il libro che era scritto in italiano e che per Thomas era solo un cuscino. Il padrone pesta, e Thomas le prende, è a terra e piglia calci in testa quando Marco grida basta uscendo dall’Ultimo Caffè. Il padrone se ne va, Thomas è a terra e non parla, non muove gl’occhi, vomita e basta. Ci resta mezz’ora, così, Marco capisce che c’è da star cauti, da non muoverlo, e lo copre, e chiama chi lo curi. Mezz’ora dopo non arriva nessuno, però, non per Thomas, fa meno freddo di un mese fa ma non fa caldo a star così, è passata quasi un’ora e Thomas è in piedi, Marco l’ha aiutato perché dirgli no non bastava. Cade ancora, si rialza ancora allo stesso modo, se ne va dalla parte sbagliata senza dir nulla. Marco è la terza figura ad aver toccato quel ragazzo. La prima, per me, ma che cazzo conta che io la veda così. Ora i padroni raccontano entusiasti tutto questo, io vorrei solo, ed è poco, tanto poco, vorrei solo essere un po’ sollevato perché quelle cinque brave persone che lavorano lì son più tranquille, ora, sarebbe poco ma vorrei questo, almeno, e invece devo ascoltar questi due figli di papà, uno dalla stupida protervia e l’altra dalle stupide lunghe cosce così pronte alla mostra, devo ascoltarli decorar la storia e dirmi, lei, brutta zoccola immonda e rifiutata, lei, devo sentir lei dirmi che certa gente conosce un solo linguaggio: le botte. L’ho guardata, le ho detto, e già me ne pentivo, che è triste, questo, triste che qualcuno abbia avuto solo quello sin dalla culla ed ormai non conosca altro, è triste e ingiusto, folle, che per tutta la vita non s’abbia addosso altro che il marchio, che si debba pascolar per il mondo sviliti in quel modo, a sembra delinquenti senza invece toccar nessuno e prenderle, prenderle ancora. Bella cazzata. I figli di papà s’offendono, che cazzo fai?, lo giustifichi?, mani sui fianchi e fica in avanti più del resto, e arriva il fratello, no, dico, no cretina, non lo giustifico: cerco di capire. Ci provo sempre. Lei è arrabbiata come m'avesse stimato e l’avessi delusa, lui, il padrone, mi punta il dito e si sente così forte, ed io penso non ti conviene scoparmi, fatina vestita da vamp, non ti conviene toccarmi, coglione vestito da uomo, ci facciam male tutti, faccio male a voi toccandovi ed a me facendone a voi, che una coscienza io l’ho, figli di puttana, e voi no. E basta, me ne sono andato senza finire il caffè, e basta.

- E Thomas?

- Ne san nulla neppure i cinesi di Sangiovanni. Han capito di chi chiedo, ma non ne san nulla, e neppure Ahmed e neanche g’iraniani di Sanrocco. Stan cercando, ma non c’è più.

- Per chi ami faresti lo stesso?

- Cosa, signora?

- Quanti anni hai?

- Quarnata.

- Sei del settantadue?

- Settantaquattro.

- Allora son meno.

- Son dieci anni che dico quaranta, mi sono abituato.

- Potresti essermi figlio, sai, se avessi partorito a quattordici anni. O amante, se t’avessi conosciuto anni fa. Per questo ti do del tu. Ho smesso anch’io di cercar compagni, ormai credo da sola in quel che mi sembra giusto. Sempre che lo sia. E ti chiedo se fai a tutti quel che hai fatto per Thomas.

- Non gl’ho fatto nulla, non gl’ho neppure parlato.

- Ti sei chiesto chi fosse.

- Lo faccio di tutti quelli che sbagliano.

- Lo fai per chi non sbaglia?

Un altro uomo non la troverebbe bella. Mostra gl’anni che ha. Neppure uno in meno. Ed altri, in più. Quelli pensati, taciuti. Rughe, quelle che deve avere. Come una farfalla cangiante ad ogni sbatter di ciglia scambian carattere con il viso, prima son dure loro e dolce lui, poi è più severo lui di loro. Gl’occhi fan le stesse cose, ma allo stesso tempo. Chiedono. Gl’occhi di chi nelle domande mettan, taciute, le risposte. Mi sembra molto bella, delicata, violenta. Così enorme in potenza chiusa in un tayeur che a vederlo passare per il corso pensavo contnesse un'avvocato senza scrupoli, un'insegnante senza cuore.

- Lo faccio per chi lo merita. Per chi soffre.

- Per chi soffre.

- Per chi lo merita.

- Ho passato i cinquanta, te l’ho detto, e lo vedi. E te lo dico così: fai bene. Ti fai male e fai bene. Che a loro non ci pensa nessuno, meglio non averli, averli e non vederli, vederli e infierire. Da lontano. Come no? Tu ti chiedi chi siano. Cosa li riduca così. Io ti dico che un pensiero così sentimentale potresti averlo anche per chi non sbaglia, per chi ti segue e magari non te n’accorgi. Perché sennò siamo fottuti tutti, capisci? Loro, i respinti, e noi, che abbiam la colpa di esser troppo savi per gl’idioti e troppo incensurati perché qualcuno come te s’accorga di noi. Saremmo ignorati. Da chi è troppo stupido e da chi vuol troppo pagar per gl’altri.

Paga per tutt’e due, e se ne va.

 

 

(From 4:17 to 4:47; to hell)

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Uploaded on February 25, 2012
Taken on February 25, 2012