Mr.Connor
Non ti succede quel che meriti, sai, ma quel che ti somiglia*
Sai, Anita, scopro ora, come fosse la prima volta, quanto sia strano ed a modo suo magico scriversi. La gente non lo sa più, non lo sapevo nemmeno io: strano è posare la penna sulla carta e scrivere ad una persona, parlarle, senza sapere quando quella persona leggerà quel che le si è scritto. Senza sapere dove si troverà, come sarà vestita in quel momento, cosa avrà fatto un attimo prima, cosa tornerà a fare interrompendo la lettura e maledicendola. Ecco, ora sto così: non so cosa tu stia facendo, non lo sapevo nemmeno nei giorni scorsi, e non so nemmeno se e come e quando leggerai queste parole che ti scrivo. Se le stai leggendo ti prego di continuare, ti prego di ascoltarmi, anche se è tardi. Ti chiedo, per favore, di non far caso alla busta che contiene questa lettera e di non fermarti a guardare i timbri che sicuramente la decorano. Per quanto io ne possa capire la riceverai aperta, e sicuramente qualcuno l’ha già letta prima di te.
Da dove comincio, cazzo? Da dove?
M’hanno messo dentro, Anita, ora sono dentro. Se hai guardato quella busta, credo tu già lo sappia. Non ho fatto un cazzo, te lo giuro, e se ho fatto qualcosa era qualcosa di buono, ma intanto io sono dentro, quel vecchio bastardo no e tu no. Dovrebbe starci lui, qui dentro, non io. E se ci devo stare, vorrei starci con te. E invece no, nulla va così, nulla va per il verso giusto. Meno ora che mai. Tu lo sai, vero, chi sono io? Lo sai che non sono un delinquente? Lo sai quanto io sia buono? Dimmi che lo sai. Tanto non verrò a saperlo, non lo saprò mai.
Era giovedì, se non ricordo male. Non ci ho mai capito nulla, dei giorni della settimana e del mese, lo sai. Ora ho una data, era il quattro di gennaio, ma non ricordo se fosse giovedì. Mi sembra lo fosse, ma non so se importa. Era il quattro gennaio. Due giorni dopo il mio compleanno, già. Però non è questo che m’ha semplificato il calcolo. Ed in ogni caso c’è il verbale della polizia a dirmi quando son finito dentro. Il quattro gennaio, due giorni dopo che ci siamo persi, io e te. Me lo ricordo per questo. Me lo ricorderei in ogni caso. Me lo ricorderò sempre. Ora, poi, come posso dimenticarlo?
Era giovedì, e pioveva. Ero a Cantù, è lì che è successo. Buffo, vero? Ci sono nato, a Cantù. L’ho odiata sempre. Ci sono tornato quando l’assurdità di quel che abbiamo fatto m’è sembrata soffocante. Ed è lì che m’hanno preso e messo dentro. Scrivevano, dovevi vederli, sentirli: scrivevano ad alta voce. Nato a Cantù. Arrestato a Cantù. A Cantù è iniziata, a Cantù finisce: capisci? Perché io non sarò mai più lo stesso, non ci sarà mai un luogo su questo pianeta, un pianeta su questo universo, in cui io possa guardare in faccia una persona e non pensare che sa o verrà a sapere che m’hanno messo dentro. Un luogo in cui non mi sentirò vigliacco a non raccontarlo a chi si fiderà di me senza sapere cosa m’è successo.
Se ci pensi, ed io ci penso, è tipico dei colpevoli dire “m’è successo”, non diranno mai “l’ho fatto”. Funziona come per chi s’ammala di nervi: “io non ho niente”, dice. Potere della vergogna. Io ne sto morendo. Eppure non mento: non ho fatto nulla, sono qui per quello che m’è successo. Cazzo. Non per quello che ho fatto. Porca troia.
Stavo andando a ritirare le foto, insomma. Non ti dico il dilemma: c’eri tu, in quelle foto, foto di quando c’abbracciavamo. Una settimana prima, un mese fa. Ma sei dappertutto, tu, com’è giusto che sia quando si ama qualcuno, ed io non ne avevo il coraggio, o quando si sta con qualcuno che valga qualcosa, e tu valevi più di quanto credi. Le avrei lasciate là, sai?, in quel laboratorio. Per non averle, ormai inutili, dolorose, davanti agli occhi. Ma in questi anni mi sono parecchio rotto i coglioni di tutto questo dolore. Lo tagliavo con le forbici, prima, pigliavo le forbici e lo affrontavo evirandolo. Soffro io?, pensavo, beh: soffri pure tu. Far male al dolore: è un’idea, credimi. Ma sono stanco, perché questo è solo scappare, ed io non ho abbastanza stima di me per permettermi di sospettarmi di codardia. Le farò sviluppare lo stesso, ho pensato, e vafffanculo. Che è come dire che senza di te non muoio, in altri termini, che non m’ammazzo per te.
Così ho portato quei due rullini di pellicola dal solito tizio (sorrideva, sai?, mi chiedeva se in quelle foto avrebbe di nuovo trovato quella bella ragazza. Tu. Vaffanculo, pensavo, andate al diavolo tu e lei). Venga tra una settimana, m’ha detto. Bene. Pensavo, penso, che quando si sta male la nozione del tempo se ne va a farsi benedire. Una settimana. Cazzate: è come quando qualcuno soffre e gli si dice che presto passerà tutto. Il presto ed il domani sono vocaboli che i traditi e gli abbandonati non capiscono. Il dolore è una condizione eterna, c’hai pensato mai? No, tu no, tu che ne sai. Succede, Anita, che quando si sta male si percepisce il dolore, quel dolore, come una condizione assoluta che falsa la percezione del tempo, ne droga lo scorrere, e fa sembrare che si debba stare in quel modo per sempre.
Venga tra una settimane a ritirarle, m’ha detto.
Sono diventato bravo, sai? Lo ero, insomma. Bravo a fare come m’andasse tutto bene. Gl’ho sorriso, gl’ho detto una cosa che l’ha fatto ridere e che ora nemmeno mi ricordo. Non la ricordavo nemmeno mentre aprivo la porta del negozio ed uscivo, a dire il vero. E sono uscito. C’erano tutte le luci natalizie accese, a quell’ora, perché era buio. Credo fossero le sei del pomeriggio. Non ne sono molto sicuro: ci son momenti, che si tratti di dolore o di pericolo, in cui non si capisce molto bene quanto in fretta siano passati i minuti. Ecco, in quel momento stavo per finire in una di queste cazzo di centrifughe in cui si perde il controllo dell’orologio. Per tutt’e due i motivi, Anita, dolore e pericolo. Al dolore c’ero preparato, ma al pericolo no, cazzo. Proprio no.
Mi dicevi di non bere nulla, tu (e di non fumare: vaffanculo), e se non fossi andato a bere un aperitivo sicuramente sarebbe cambiato qualcosa. Sarei passato cinque minuti prima, in quella strada dove m’han preso. Ti fa gongolare, questo? Beh: se ne avessi bevuti il doppio ci sarei passato venti minuti dopo, e non sarebbe successo nulla. Contenta? Siamo pari? Piglialo in culo. Ne ho bevuti due, che quando entri in un bar da solo e tutti si conoscono e parlano, e tu sei in piedi davanti al bancone, vuol dire metterci dieci minuti, sempre che si voglia anche leggere qualche riga del giornale. Dovevo berne quattro, non due, tanto io reggo tutto, dovevo berne quattro e leggere quel fottuto giornale schifoso. Ma è il giornale del presidente del consiglio, qui ce l’han quasi tutti i bar, manco fosse una lettura seria, ed io quella roba non la voglio nemmeno toccare. Così me ne sono andato.
Se aspetta un attimo servo della focaccia, m’ha detto il barista. Se ci penso, ora! Un brianzolo che offre da mangiare una focaccia. A venti persone, un boccone a testa, ma gratis. Peggio: un canturino, Anita, un canturino! I canturini sono tirchi, credimi. Ma quando si sta male, quando s’è nervosi, si fatica ad aspettare, è difficile anche solo stare cinque minuti nello stesso posto, cinque minuti seduti a mangiare o scrivere. Ma tu che ne sai. Sono uscito, Anita. Ed ero di nuovo per strada.
Forse tutta la mia vita sta in queste parole, sai. Di nuovo per strada. Tutta la vita in fabbrica, è vero, ma dentro non è come fuori. Dentro va in questo modo: tutta la vita per strada.
Evviva la libertà, ti dicono.
Vaffanculo: questa non è libertà, è solitudine.
Ho percorso il viale, non ricordo nemmeno come si chiami. Dovrei chiedere di poter leggere di nuovo il verbale, lì dovrebbe esserci scritto. Quando nasci in un posto, quando ci trascorri l’adolescenza e tutti quei casini, conosci le strade a memoria senza nemmeno sapere come si chiamino, e quando qualcuno ti chiede delle indicazioni fai prima a dire non lo so, non sono di questa città. Eppure, di quelle strade, finisci per sapere anche la forma delle crepe nei muri.
Ci fossi venuta, tu, qui. Macché: t’è venuta la fifa in culo, a te, sei com’ero io alla tua età. T’è venuta fifa di star bene. Quando avrai la mia, la mia età, dico, saremo di nuovo pari. Sarai pentita pure tu. Te lo volevo evitare, questo. Ed un po’ di altre cose, a dire il vero. Ormai è tardi. Tanto me la stavo facendo addosso pure io, a volerti bene. Ma lo sapevi, no?
Insomma, fossi venuta qui sapresti com’è fatto il posto dov’è successo questo casino schifoso. Tutto qua. Se metto in fila un sacco di se, o almeno ne scelgo un paio, non sarei chiuso in cella, ora. Se ci penso, mi mangio le palle. Sono uscito dal laboratorio del fotografo e sono andato al bar, sono andato al bar e mi sono messo a camminare lungo il corso, quello con le luci natalizie e gli alberi, e ti pensavo, cazzo, come prima e come adesso (beh, non penso le stesse cose; non tutte, almeno), e la gente che camminava non la vedevo nemmeno. Anche se mi c’impegnavo. Per tornare alla normalità, insomma. C’hai fatto caso che a star male sembra che tutti gl’altri ci camminino incontro? Non perché vengano verso di noi, non è quello il simbolismo: camminano nella direzione opposta alla nostra, gl’altri! Non so spiegartelo, è un caso, un simbolo deciso dal caso. O è solo che ci sembra questo, quando stiamo male. Tu non lo sai, questo, per fortuna. Fortuna, sì: perché sapessi cos’è questo dolore non saremmo a questo punto; ma se l’avessi provato saresti tanto più vecchia e logora di quanto invece sei giovane e fresca. E non so, non so cos’augurarmi, augurarti. Non ci capisco più nulla, Anita.
Ho visto un tizio, lungo il viale. Camminavamo tutti, io in un senso e tutti gl’altri in quello opposto, opposto al mio, salvo questo tizio che gironzolava due passi avanti e due indietro nello stesso punto. Me lo vedo davanti, sai? Lui, quel momento. Non lo sapevo sarebbero diventati così tragicamente importanti. Insomma: mentre sono a pochi passi da lui sento questo tizio, questo vecchio, perché adesso lo vedevo ch’era vecchio, rivolgere la parola a due tizi che aveva appena fermato. Quelli, quei due, manco volevano fermarsi. Un po’ per il freddo, un po’ perché iniziava a piovere di nuovo. Qui la pioggia è gelida, Anita, credimi.
Ma lei non si ricorda di me?, ha chiesto il tizio ad uno dei due passanti. I due passanti sono passati, e se ne sono andati. Ormai ero passato pure io, avrei dovuto voltare all’angolo appena più in là. La macchina (ci sono ancora i tuoi regali di compleanno, dietro al sedile: non li ho aperti, non li avrei aperti mai; avresti dovuto saperlo, almeno lo saprai ora), dicevo: la macchina era nella via parallela a quella che stavo percorrendo. Mi sono fermato ad arrotolarmi una sigaretta, al riparo d’un balcone appena dentro al vicolo. Lo so: smetti di fumare, m’avevi detto. Avevi ragione. Grazie. Ora, qui dentro, non so nemmeno come funzioni, per avere delle sigarette. Mi trattano tutti come fossi un assassino e non spiegano nulla, e mi sa tanto che avere delle sigarette costerà caro. Nei film, la moneta per certi favori non è nemmeno del conio statale. Spero di no. Non c’ho voglia di fumare con un cazzo in culo, ma senza sigarette non duro da qui a lì.
Ecco: m’arrotolavo una sigaretta. Lungo il viale vidi camminare due signore, credo avessero una cinquantina d’anni. Il tizio le ha fermate, fermò anche loro, e fece anche a loro la stessa domanda.
Ma lei non si ricorda di me?
Le signore se ne andarono. No, disse una, quand’erano già un po’ più in là.
Il tizio m’ha visto in quel momento. M’ha visto perché per accendermi la sigaretta avevo usato due fiammiferi. Non avessi fumato!, mi dirai. Sempre se leggerai questa lettera. Fosse colpa mia, Anita, credimi. Rinuncerei a tutte le sigarette passate prima ancora che a quelle future.
Pensavo che quel tizio, poverino, avesse chissà quale malattia. Sai come funziona, a volte, ad una certa età. Mio padre no, tu lo conosci, lo sai: la vita gl’ha piegato la schiena con la fatica e crepato il cuore facendo morire la mia mamma, ma lui è più buono che mai, anche ora, e sa cosa pensa, cosa fa. Di noi, pensa, dice che se ci perdiamo siamo due stupidi, tutto qua. Sembrava vedere più avanti di me, il mio papà. Questo tizio, invece, pensavo non fosse tutto intero. Insomma: era chiaro che stava sotto a quel lampione a chiedere la stessa cosa a chiunque passasse. Non era malmesso, sai? D’abbigliamento, dico, parlo del suo aspetto: alto, snello, non troppo curvo (beh, quando hai settant’anni passati e sei alto un metro e ottantacinque, un pochino ti curvi, è ovvio), portava un cappotto lungo ed una sciarpa chiara, l’ombrello appeso al gomito ed un cappello di feltro sui capelli bianchi.
Mi s’è avvicinato, il tizio.
Salve, gli ho detto. Tu lo sai che io ho molto rispetto per gli anziani, vero? Sì, lo sai, almeno questo.
Mi sono girato per andarmene. Prima con il corpo, poi con la testa. Non volevo mettermi a far chiacchiere con gli sconosciuti, non quella volta. Non più, direi ora.
Ma lei non si ricorda di me?, m’ha chiesto.
Io ho girato appena il volto e intanto con la mano che reggeva la sigaretta ho sventolato due dita per dire no, e intanto dicevo mi spiace, e pensavo: che tristezza, e lo lasciano da solo, pover’uomo, solo e abbandonato. Solo che mentre succedeva questo ho intravvisto una cosa che usciva dalla tasca del cappotto del vecchio, una cosa stretta nella sua mano.
Non è possibile, ho pensato. Perché era roba da film, ed a dire il vero non ho davvero visto quella cosa: era il movimento ad avermela fatta intuire.
Si fermi!, m’ha detto il vecchio.
Non so se mettercelo, il punto esclamativo, Anita. Mica ha gridato, lui. Il tono di voce era lo stesso. Il volto, era lo stesso!
Mi sono fermato.
Alzi le mani, m’ha detto. Senza punto esclamativo, va bene.
L’ho sentito frugarmi nei jeans. Le tasche di dietro, intendo. Tu te lo ricordi, vero, che non mi va d’esser toccato là dietro, vero? Sì, questo te lo ricordi, lo so. Se ti dico che mi spiace non averti lasciato fare, quando sorridendo mi toccavi il culo ed io te lo impedivo? Lo capisci quanto cambia la vita, Anita? Lo capisci quanto ti volevo bene, ora che sono chiuso qui dentro, così bene da rimpiangere una cazzata come quella?
Il borsellino (quello che m’hai regalato a Natale, cazzo: tu; e lui l’ha toccato, cazzo: lui!), dicevo: il borsellino lo tengo nella tasca della giacca, lo sai. L’inverno mi piace pure per quello: ficco tutto nel chiodo, e non sento i jeans stringermi addosso. Così non mi sento troppo grosso. Lo so, che sono magro, lo so. Vedi tu se ora tutto questo vale ancora qualcosa.
Il vecchio ha trovato il mio borsellino, ed io ero impietrito (nemmeno troppo, sai?; non chiedermi perché: non lo so, davvero), con quella cazzo di pistola premuta in mezzo alla schiena. Pensavo: non è possibile. Pensavo: dove sei, Anita? Pensavo: aiutami, Mamma. Pensavo: ma non sarebbe più minaccioso puntarla alla nuca? Pensavo: ma non sarebbe più feroce puntarla in mezzo alle natiche? Vaffanculo.
Cose così. No, non sono scemo: provaci tu, a trovarti in una situazione del genere. Da uomo, dico. Da donna è peggio, lo so, molto peggio.
Io lo sapevo che dentro al mio borsellino non c’era nulla, al massimo altri cinque o dieci euro. La mia speranza era che il vecchio non s’infuriasse per il magro bottino, che non mi sparasse per questo. Il sollievo, ancora minimo, era che in quanto a perdite economiche c’avrei rimesso davvero poco. Non fosse stato per il fatto che quel vecchio demoniaco (che tecnica, la sua, eh?!) aveva sporcato toccandolo il borsellino che m’avevi regalato tu. Non fosse stato, a dirla tutta, che tanto io e te c’eravamo bell’e persi.
Non c’è nulla, mi disse il vecchio.
Io non mi muovevo.
Si giri, se lo prenda.
Mi girai.
Il vecchio, stesso volto di prima (un bell’uomo, Anita, cazzo: anche un bell’uomo) mi guardava negli occhi e rendeva il borsellino.
Tenga, mi disse.
Presi il borsellino dalle mani guantate del vecchio.
Il vecchio si girò, e se ne andò.
Se ne andò, cazzo!
Lo capisci, questo? Ed io me ne restavo là, e sentivo di colpo il freddo che non sentivo prima, e la pioggia addosso, guardavo il vecchio allontanarsi e passare sotto al balcone dove m’ero acceso quella maledetta sigaretta e non sapevo cosa dire e cosa fare, e pensavo dove sei, mamma, dove sei, Piccoletta Mia?, ed il vecchio era di nuovo sul viale, e di nuovo passeggiava come prima, due passi avanti e due indietro, quieto e fiducioso, e cercava di nuovo di fermare le persone, come aveva fatto anche con me.
Perché l’ho fatto? Perché non mi sono fatto i cazzi miei? L’ho pensato, ti giuro: se chi ha fame ruba, fa bene a rubare, e se quel vecchio ruba allora fa bene a farlo, e Cantù è una città piena di gente da poco che ha tasche ai canturini.
L’ho pensato.
Tu dirai che dovevo solo pensare d’essere stato fortunato, e andarmene. A sporgere denuncia oppure no, dovevo andarmene. O restar là a guardare, dico, io, restar là a controllare solo che il vecchio non facesse male a nessuno e che nessuno lo facesse a lui. C’ho pensato. Se ti dico cosa stavo per fare, Anita, dubito di stupirti. Non ti piacerà, ma certo non ti stupirà: vado dal vecchio, pensavo, gli offro un tè al bar, e gli regalo quel che ho nel borsellino.
Lo sai come sono fatto. Credo. Spero. Perché qualcuno un giorno dovrà dirmelo, cos’ho. Dovrà dirmelo perché io possa spiegarmi quel che mi succede.
Insomma: mi sono avvicinato al vecchio, e quando lui m’ha visto farmi vicino s’è irrigidito, di colpo la sua calma inquietante non c’era più, non molto.
Stia calmo, gl’ho detto, e intanto m’infilavo la mano in tasca. La tasca dove tengo il borsellino, intendo. C’ho mica altro, io. Un borsellino vuoto ed una busta di tabacco. Nemmeno queste cose, ora.
Se l’è infilata pure lui, la mano in tasca.
Si fermi!, m’ha detto. Con il punto esclamativo. Davvero.
Eravamo bloccati tutti e due, tutti e due litigavamo con la nostra tasca. Ognuno la sua, intendo.
Vattene, ho pensato, scappa. Rivolgendomi a me, è chiaro.
Solo che mica va tutto come deve andare, cazzo. E un attimo dopo ero addosso al vecchio, perché che ne sapevo io di cosa avrebbe fatto con quella pistola? E se m’avesse sparato alla schiena? Sapeva mirare? Ci vedeva? Si potesse saperle prima, le cose che serve sapere: quel vicolo, cazzo, quel vicolo così stretto e buio. Avrei dovuto scappare là dentro, e dopo venti metri voltare sull’altra strada. Invece ho affrontato il vecchio, e mi sono sentito tutto addosso. Il peso d’una vita, trent’anni di fatica, di decisioni silenziose, di compromessi accettati per troppa bontà, e pesa, credimi, pesa tutto, io li odio i giustizialisti, tu lo sai, quelli che pensano di poter giudicare tutto e tutti e che invece sono sporchi come maiali, dentro, io quel vecchio l’avrei aiutato, lui e tutti gli affamati del mondo, e invece in quel momento l’ho preso e l’ho voltato, e non aveva forze, confronto a me, io così affaticato da tremare e perderti e lui così riposato da fare il rapinatore a quell’età, ma lui non aveva forze ed io sì, così l’ho voltato, l’ho spinto contro quel cazzo di lampione e gl’ho sfilato dalle dita la pistola ch’era ancora per metà infilata nella tasca del cappotto, sei un coglione, gli dicevo, io t’avrei dato quel che ti serviva, e intanto pensavo, e l’ho pensato, che avrei anche potuto fare un prelievo e dargli altri soldi, una cinquantina di euro sul conto credo li avessi ancora, e così gli ho sfilato dalla tasca dei pantaloni (velluto, pantaloni di velluto, questo me lo ricordo) il suo borsellino, ed era bello grosso e pieno, e sono sicuro fosse anche pieno di soldi, perché va bene se uno fa la fame e rapina per mangiare, ma che cazzo di motivo c’aveva questo vecchio del cazzo, perché doveva rapinare la gente?, cazzo,e intanto sentivo gente gridare e una luce troppo forte mi illuminava il volto, e non era la luce del lampione, cazzo, e delle luci natalizie non ci capivo più nulla perché ne ho viste di tutti i colori, in vita mia, ma nessuna era blu, credimi, e quelle invece sì.
E adesso sono qui, quando avevo te e tu avevi me ero libero, mentre invece ora no, non lo sono, non lo sono più.
E non mi dicono nulla, Piccoletta Mia, nemmeno questo: era vera, quella pistola? Era vera, cazzo, o era finta? Almeno questo!, chiedo, ditemi almeno questo!, e invece pensano che io lo dica per i miei interessi, per negare fosse mia. Ed è come quando ti parlavo per il tuo bene e tu pensavi stessi parlando per curare il mio, ma io vorrei saperlo davvero, sapere se m’ha fregato con una pistola finta, il destino.
Guardate le impronte digitali!, ho detto a quegli sbirri. C’ho sperato per giorni, credimi, per giorni: ma portava i guanti, quel vecchio. Il destino porta i guanti, per non lasciare tracce. Portami del tabacco, ti prego, se stai leggendo questa lettera portami del tabacco. Per favore.
*Non so chi l'abbia detto, però, non me lo ricordo.
(Love you, Bastards)
Non ti succede quel che meriti, sai, ma quel che ti somiglia*
Sai, Anita, scopro ora, come fosse la prima volta, quanto sia strano ed a modo suo magico scriversi. La gente non lo sa più, non lo sapevo nemmeno io: strano è posare la penna sulla carta e scrivere ad una persona, parlarle, senza sapere quando quella persona leggerà quel che le si è scritto. Senza sapere dove si troverà, come sarà vestita in quel momento, cosa avrà fatto un attimo prima, cosa tornerà a fare interrompendo la lettura e maledicendola. Ecco, ora sto così: non so cosa tu stia facendo, non lo sapevo nemmeno nei giorni scorsi, e non so nemmeno se e come e quando leggerai queste parole che ti scrivo. Se le stai leggendo ti prego di continuare, ti prego di ascoltarmi, anche se è tardi. Ti chiedo, per favore, di non far caso alla busta che contiene questa lettera e di non fermarti a guardare i timbri che sicuramente la decorano. Per quanto io ne possa capire la riceverai aperta, e sicuramente qualcuno l’ha già letta prima di te.
Da dove comincio, cazzo? Da dove?
M’hanno messo dentro, Anita, ora sono dentro. Se hai guardato quella busta, credo tu già lo sappia. Non ho fatto un cazzo, te lo giuro, e se ho fatto qualcosa era qualcosa di buono, ma intanto io sono dentro, quel vecchio bastardo no e tu no. Dovrebbe starci lui, qui dentro, non io. E se ci devo stare, vorrei starci con te. E invece no, nulla va così, nulla va per il verso giusto. Meno ora che mai. Tu lo sai, vero, chi sono io? Lo sai che non sono un delinquente? Lo sai quanto io sia buono? Dimmi che lo sai. Tanto non verrò a saperlo, non lo saprò mai.
Era giovedì, se non ricordo male. Non ci ho mai capito nulla, dei giorni della settimana e del mese, lo sai. Ora ho una data, era il quattro di gennaio, ma non ricordo se fosse giovedì. Mi sembra lo fosse, ma non so se importa. Era il quattro gennaio. Due giorni dopo il mio compleanno, già. Però non è questo che m’ha semplificato il calcolo. Ed in ogni caso c’è il verbale della polizia a dirmi quando son finito dentro. Il quattro gennaio, due giorni dopo che ci siamo persi, io e te. Me lo ricordo per questo. Me lo ricorderei in ogni caso. Me lo ricorderò sempre. Ora, poi, come posso dimenticarlo?
Era giovedì, e pioveva. Ero a Cantù, è lì che è successo. Buffo, vero? Ci sono nato, a Cantù. L’ho odiata sempre. Ci sono tornato quando l’assurdità di quel che abbiamo fatto m’è sembrata soffocante. Ed è lì che m’hanno preso e messo dentro. Scrivevano, dovevi vederli, sentirli: scrivevano ad alta voce. Nato a Cantù. Arrestato a Cantù. A Cantù è iniziata, a Cantù finisce: capisci? Perché io non sarò mai più lo stesso, non ci sarà mai un luogo su questo pianeta, un pianeta su questo universo, in cui io possa guardare in faccia una persona e non pensare che sa o verrà a sapere che m’hanno messo dentro. Un luogo in cui non mi sentirò vigliacco a non raccontarlo a chi si fiderà di me senza sapere cosa m’è successo.
Se ci pensi, ed io ci penso, è tipico dei colpevoli dire “m’è successo”, non diranno mai “l’ho fatto”. Funziona come per chi s’ammala di nervi: “io non ho niente”, dice. Potere della vergogna. Io ne sto morendo. Eppure non mento: non ho fatto nulla, sono qui per quello che m’è successo. Cazzo. Non per quello che ho fatto. Porca troia.
Stavo andando a ritirare le foto, insomma. Non ti dico il dilemma: c’eri tu, in quelle foto, foto di quando c’abbracciavamo. Una settimana prima, un mese fa. Ma sei dappertutto, tu, com’è giusto che sia quando si ama qualcuno, ed io non ne avevo il coraggio, o quando si sta con qualcuno che valga qualcosa, e tu valevi più di quanto credi. Le avrei lasciate là, sai?, in quel laboratorio. Per non averle, ormai inutili, dolorose, davanti agli occhi. Ma in questi anni mi sono parecchio rotto i coglioni di tutto questo dolore. Lo tagliavo con le forbici, prima, pigliavo le forbici e lo affrontavo evirandolo. Soffro io?, pensavo, beh: soffri pure tu. Far male al dolore: è un’idea, credimi. Ma sono stanco, perché questo è solo scappare, ed io non ho abbastanza stima di me per permettermi di sospettarmi di codardia. Le farò sviluppare lo stesso, ho pensato, e vafffanculo. Che è come dire che senza di te non muoio, in altri termini, che non m’ammazzo per te.
Così ho portato quei due rullini di pellicola dal solito tizio (sorrideva, sai?, mi chiedeva se in quelle foto avrebbe di nuovo trovato quella bella ragazza. Tu. Vaffanculo, pensavo, andate al diavolo tu e lei). Venga tra una settimana, m’ha detto. Bene. Pensavo, penso, che quando si sta male la nozione del tempo se ne va a farsi benedire. Una settimana. Cazzate: è come quando qualcuno soffre e gli si dice che presto passerà tutto. Il presto ed il domani sono vocaboli che i traditi e gli abbandonati non capiscono. Il dolore è una condizione eterna, c’hai pensato mai? No, tu no, tu che ne sai. Succede, Anita, che quando si sta male si percepisce il dolore, quel dolore, come una condizione assoluta che falsa la percezione del tempo, ne droga lo scorrere, e fa sembrare che si debba stare in quel modo per sempre.
Venga tra una settimane a ritirarle, m’ha detto.
Sono diventato bravo, sai? Lo ero, insomma. Bravo a fare come m’andasse tutto bene. Gl’ho sorriso, gl’ho detto una cosa che l’ha fatto ridere e che ora nemmeno mi ricordo. Non la ricordavo nemmeno mentre aprivo la porta del negozio ed uscivo, a dire il vero. E sono uscito. C’erano tutte le luci natalizie accese, a quell’ora, perché era buio. Credo fossero le sei del pomeriggio. Non ne sono molto sicuro: ci son momenti, che si tratti di dolore o di pericolo, in cui non si capisce molto bene quanto in fretta siano passati i minuti. Ecco, in quel momento stavo per finire in una di queste cazzo di centrifughe in cui si perde il controllo dell’orologio. Per tutt’e due i motivi, Anita, dolore e pericolo. Al dolore c’ero preparato, ma al pericolo no, cazzo. Proprio no.
Mi dicevi di non bere nulla, tu (e di non fumare: vaffanculo), e se non fossi andato a bere un aperitivo sicuramente sarebbe cambiato qualcosa. Sarei passato cinque minuti prima, in quella strada dove m’han preso. Ti fa gongolare, questo? Beh: se ne avessi bevuti il doppio ci sarei passato venti minuti dopo, e non sarebbe successo nulla. Contenta? Siamo pari? Piglialo in culo. Ne ho bevuti due, che quando entri in un bar da solo e tutti si conoscono e parlano, e tu sei in piedi davanti al bancone, vuol dire metterci dieci minuti, sempre che si voglia anche leggere qualche riga del giornale. Dovevo berne quattro, non due, tanto io reggo tutto, dovevo berne quattro e leggere quel fottuto giornale schifoso. Ma è il giornale del presidente del consiglio, qui ce l’han quasi tutti i bar, manco fosse una lettura seria, ed io quella roba non la voglio nemmeno toccare. Così me ne sono andato.
Se aspetta un attimo servo della focaccia, m’ha detto il barista. Se ci penso, ora! Un brianzolo che offre da mangiare una focaccia. A venti persone, un boccone a testa, ma gratis. Peggio: un canturino, Anita, un canturino! I canturini sono tirchi, credimi. Ma quando si sta male, quando s’è nervosi, si fatica ad aspettare, è difficile anche solo stare cinque minuti nello stesso posto, cinque minuti seduti a mangiare o scrivere. Ma tu che ne sai. Sono uscito, Anita. Ed ero di nuovo per strada.
Forse tutta la mia vita sta in queste parole, sai. Di nuovo per strada. Tutta la vita in fabbrica, è vero, ma dentro non è come fuori. Dentro va in questo modo: tutta la vita per strada.
Evviva la libertà, ti dicono.
Vaffanculo: questa non è libertà, è solitudine.
Ho percorso il viale, non ricordo nemmeno come si chiami. Dovrei chiedere di poter leggere di nuovo il verbale, lì dovrebbe esserci scritto. Quando nasci in un posto, quando ci trascorri l’adolescenza e tutti quei casini, conosci le strade a memoria senza nemmeno sapere come si chiamino, e quando qualcuno ti chiede delle indicazioni fai prima a dire non lo so, non sono di questa città. Eppure, di quelle strade, finisci per sapere anche la forma delle crepe nei muri.
Ci fossi venuta, tu, qui. Macché: t’è venuta la fifa in culo, a te, sei com’ero io alla tua età. T’è venuta fifa di star bene. Quando avrai la mia, la mia età, dico, saremo di nuovo pari. Sarai pentita pure tu. Te lo volevo evitare, questo. Ed un po’ di altre cose, a dire il vero. Ormai è tardi. Tanto me la stavo facendo addosso pure io, a volerti bene. Ma lo sapevi, no?
Insomma, fossi venuta qui sapresti com’è fatto il posto dov’è successo questo casino schifoso. Tutto qua. Se metto in fila un sacco di se, o almeno ne scelgo un paio, non sarei chiuso in cella, ora. Se ci penso, mi mangio le palle. Sono uscito dal laboratorio del fotografo e sono andato al bar, sono andato al bar e mi sono messo a camminare lungo il corso, quello con le luci natalizie e gli alberi, e ti pensavo, cazzo, come prima e come adesso (beh, non penso le stesse cose; non tutte, almeno), e la gente che camminava non la vedevo nemmeno. Anche se mi c’impegnavo. Per tornare alla normalità, insomma. C’hai fatto caso che a star male sembra che tutti gl’altri ci camminino incontro? Non perché vengano verso di noi, non è quello il simbolismo: camminano nella direzione opposta alla nostra, gl’altri! Non so spiegartelo, è un caso, un simbolo deciso dal caso. O è solo che ci sembra questo, quando stiamo male. Tu non lo sai, questo, per fortuna. Fortuna, sì: perché sapessi cos’è questo dolore non saremmo a questo punto; ma se l’avessi provato saresti tanto più vecchia e logora di quanto invece sei giovane e fresca. E non so, non so cos’augurarmi, augurarti. Non ci capisco più nulla, Anita.
Ho visto un tizio, lungo il viale. Camminavamo tutti, io in un senso e tutti gl’altri in quello opposto, opposto al mio, salvo questo tizio che gironzolava due passi avanti e due indietro nello stesso punto. Me lo vedo davanti, sai? Lui, quel momento. Non lo sapevo sarebbero diventati così tragicamente importanti. Insomma: mentre sono a pochi passi da lui sento questo tizio, questo vecchio, perché adesso lo vedevo ch’era vecchio, rivolgere la parola a due tizi che aveva appena fermato. Quelli, quei due, manco volevano fermarsi. Un po’ per il freddo, un po’ perché iniziava a piovere di nuovo. Qui la pioggia è gelida, Anita, credimi.
Ma lei non si ricorda di me?, ha chiesto il tizio ad uno dei due passanti. I due passanti sono passati, e se ne sono andati. Ormai ero passato pure io, avrei dovuto voltare all’angolo appena più in là. La macchina (ci sono ancora i tuoi regali di compleanno, dietro al sedile: non li ho aperti, non li avrei aperti mai; avresti dovuto saperlo, almeno lo saprai ora), dicevo: la macchina era nella via parallela a quella che stavo percorrendo. Mi sono fermato ad arrotolarmi una sigaretta, al riparo d’un balcone appena dentro al vicolo. Lo so: smetti di fumare, m’avevi detto. Avevi ragione. Grazie. Ora, qui dentro, non so nemmeno come funzioni, per avere delle sigarette. Mi trattano tutti come fossi un assassino e non spiegano nulla, e mi sa tanto che avere delle sigarette costerà caro. Nei film, la moneta per certi favori non è nemmeno del conio statale. Spero di no. Non c’ho voglia di fumare con un cazzo in culo, ma senza sigarette non duro da qui a lì.
Ecco: m’arrotolavo una sigaretta. Lungo il viale vidi camminare due signore, credo avessero una cinquantina d’anni. Il tizio le ha fermate, fermò anche loro, e fece anche a loro la stessa domanda.
Ma lei non si ricorda di me?
Le signore se ne andarono. No, disse una, quand’erano già un po’ più in là.
Il tizio m’ha visto in quel momento. M’ha visto perché per accendermi la sigaretta avevo usato due fiammiferi. Non avessi fumato!, mi dirai. Sempre se leggerai questa lettera. Fosse colpa mia, Anita, credimi. Rinuncerei a tutte le sigarette passate prima ancora che a quelle future.
Pensavo che quel tizio, poverino, avesse chissà quale malattia. Sai come funziona, a volte, ad una certa età. Mio padre no, tu lo conosci, lo sai: la vita gl’ha piegato la schiena con la fatica e crepato il cuore facendo morire la mia mamma, ma lui è più buono che mai, anche ora, e sa cosa pensa, cosa fa. Di noi, pensa, dice che se ci perdiamo siamo due stupidi, tutto qua. Sembrava vedere più avanti di me, il mio papà. Questo tizio, invece, pensavo non fosse tutto intero. Insomma: era chiaro che stava sotto a quel lampione a chiedere la stessa cosa a chiunque passasse. Non era malmesso, sai? D’abbigliamento, dico, parlo del suo aspetto: alto, snello, non troppo curvo (beh, quando hai settant’anni passati e sei alto un metro e ottantacinque, un pochino ti curvi, è ovvio), portava un cappotto lungo ed una sciarpa chiara, l’ombrello appeso al gomito ed un cappello di feltro sui capelli bianchi.
Mi s’è avvicinato, il tizio.
Salve, gli ho detto. Tu lo sai che io ho molto rispetto per gli anziani, vero? Sì, lo sai, almeno questo.
Mi sono girato per andarmene. Prima con il corpo, poi con la testa. Non volevo mettermi a far chiacchiere con gli sconosciuti, non quella volta. Non più, direi ora.
Ma lei non si ricorda di me?, m’ha chiesto.
Io ho girato appena il volto e intanto con la mano che reggeva la sigaretta ho sventolato due dita per dire no, e intanto dicevo mi spiace, e pensavo: che tristezza, e lo lasciano da solo, pover’uomo, solo e abbandonato. Solo che mentre succedeva questo ho intravvisto una cosa che usciva dalla tasca del cappotto del vecchio, una cosa stretta nella sua mano.
Non è possibile, ho pensato. Perché era roba da film, ed a dire il vero non ho davvero visto quella cosa: era il movimento ad avermela fatta intuire.
Si fermi!, m’ha detto il vecchio.
Non so se mettercelo, il punto esclamativo, Anita. Mica ha gridato, lui. Il tono di voce era lo stesso. Il volto, era lo stesso!
Mi sono fermato.
Alzi le mani, m’ha detto. Senza punto esclamativo, va bene.
L’ho sentito frugarmi nei jeans. Le tasche di dietro, intendo. Tu te lo ricordi, vero, che non mi va d’esser toccato là dietro, vero? Sì, questo te lo ricordi, lo so. Se ti dico che mi spiace non averti lasciato fare, quando sorridendo mi toccavi il culo ed io te lo impedivo? Lo capisci quanto cambia la vita, Anita? Lo capisci quanto ti volevo bene, ora che sono chiuso qui dentro, così bene da rimpiangere una cazzata come quella?
Il borsellino (quello che m’hai regalato a Natale, cazzo: tu; e lui l’ha toccato, cazzo: lui!), dicevo: il borsellino lo tengo nella tasca della giacca, lo sai. L’inverno mi piace pure per quello: ficco tutto nel chiodo, e non sento i jeans stringermi addosso. Così non mi sento troppo grosso. Lo so, che sono magro, lo so. Vedi tu se ora tutto questo vale ancora qualcosa.
Il vecchio ha trovato il mio borsellino, ed io ero impietrito (nemmeno troppo, sai?; non chiedermi perché: non lo so, davvero), con quella cazzo di pistola premuta in mezzo alla schiena. Pensavo: non è possibile. Pensavo: dove sei, Anita? Pensavo: aiutami, Mamma. Pensavo: ma non sarebbe più minaccioso puntarla alla nuca? Pensavo: ma non sarebbe più feroce puntarla in mezzo alle natiche? Vaffanculo.
Cose così. No, non sono scemo: provaci tu, a trovarti in una situazione del genere. Da uomo, dico. Da donna è peggio, lo so, molto peggio.
Io lo sapevo che dentro al mio borsellino non c’era nulla, al massimo altri cinque o dieci euro. La mia speranza era che il vecchio non s’infuriasse per il magro bottino, che non mi sparasse per questo. Il sollievo, ancora minimo, era che in quanto a perdite economiche c’avrei rimesso davvero poco. Non fosse stato per il fatto che quel vecchio demoniaco (che tecnica, la sua, eh?!) aveva sporcato toccandolo il borsellino che m’avevi regalato tu. Non fosse stato, a dirla tutta, che tanto io e te c’eravamo bell’e persi.
Non c’è nulla, mi disse il vecchio.
Io non mi muovevo.
Si giri, se lo prenda.
Mi girai.
Il vecchio, stesso volto di prima (un bell’uomo, Anita, cazzo: anche un bell’uomo) mi guardava negli occhi e rendeva il borsellino.
Tenga, mi disse.
Presi il borsellino dalle mani guantate del vecchio.
Il vecchio si girò, e se ne andò.
Se ne andò, cazzo!
Lo capisci, questo? Ed io me ne restavo là, e sentivo di colpo il freddo che non sentivo prima, e la pioggia addosso, guardavo il vecchio allontanarsi e passare sotto al balcone dove m’ero acceso quella maledetta sigaretta e non sapevo cosa dire e cosa fare, e pensavo dove sei, mamma, dove sei, Piccoletta Mia?, ed il vecchio era di nuovo sul viale, e di nuovo passeggiava come prima, due passi avanti e due indietro, quieto e fiducioso, e cercava di nuovo di fermare le persone, come aveva fatto anche con me.
Perché l’ho fatto? Perché non mi sono fatto i cazzi miei? L’ho pensato, ti giuro: se chi ha fame ruba, fa bene a rubare, e se quel vecchio ruba allora fa bene a farlo, e Cantù è una città piena di gente da poco che ha tasche ai canturini.
L’ho pensato.
Tu dirai che dovevo solo pensare d’essere stato fortunato, e andarmene. A sporgere denuncia oppure no, dovevo andarmene. O restar là a guardare, dico, io, restar là a controllare solo che il vecchio non facesse male a nessuno e che nessuno lo facesse a lui. C’ho pensato. Se ti dico cosa stavo per fare, Anita, dubito di stupirti. Non ti piacerà, ma certo non ti stupirà: vado dal vecchio, pensavo, gli offro un tè al bar, e gli regalo quel che ho nel borsellino.
Lo sai come sono fatto. Credo. Spero. Perché qualcuno un giorno dovrà dirmelo, cos’ho. Dovrà dirmelo perché io possa spiegarmi quel che mi succede.
Insomma: mi sono avvicinato al vecchio, e quando lui m’ha visto farmi vicino s’è irrigidito, di colpo la sua calma inquietante non c’era più, non molto.
Stia calmo, gl’ho detto, e intanto m’infilavo la mano in tasca. La tasca dove tengo il borsellino, intendo. C’ho mica altro, io. Un borsellino vuoto ed una busta di tabacco. Nemmeno queste cose, ora.
Se l’è infilata pure lui, la mano in tasca.
Si fermi!, m’ha detto. Con il punto esclamativo. Davvero.
Eravamo bloccati tutti e due, tutti e due litigavamo con la nostra tasca. Ognuno la sua, intendo.
Vattene, ho pensato, scappa. Rivolgendomi a me, è chiaro.
Solo che mica va tutto come deve andare, cazzo. E un attimo dopo ero addosso al vecchio, perché che ne sapevo io di cosa avrebbe fatto con quella pistola? E se m’avesse sparato alla schiena? Sapeva mirare? Ci vedeva? Si potesse saperle prima, le cose che serve sapere: quel vicolo, cazzo, quel vicolo così stretto e buio. Avrei dovuto scappare là dentro, e dopo venti metri voltare sull’altra strada. Invece ho affrontato il vecchio, e mi sono sentito tutto addosso. Il peso d’una vita, trent’anni di fatica, di decisioni silenziose, di compromessi accettati per troppa bontà, e pesa, credimi, pesa tutto, io li odio i giustizialisti, tu lo sai, quelli che pensano di poter giudicare tutto e tutti e che invece sono sporchi come maiali, dentro, io quel vecchio l’avrei aiutato, lui e tutti gli affamati del mondo, e invece in quel momento l’ho preso e l’ho voltato, e non aveva forze, confronto a me, io così affaticato da tremare e perderti e lui così riposato da fare il rapinatore a quell’età, ma lui non aveva forze ed io sì, così l’ho voltato, l’ho spinto contro quel cazzo di lampione e gl’ho sfilato dalle dita la pistola ch’era ancora per metà infilata nella tasca del cappotto, sei un coglione, gli dicevo, io t’avrei dato quel che ti serviva, e intanto pensavo, e l’ho pensato, che avrei anche potuto fare un prelievo e dargli altri soldi, una cinquantina di euro sul conto credo li avessi ancora, e così gli ho sfilato dalla tasca dei pantaloni (velluto, pantaloni di velluto, questo me lo ricordo) il suo borsellino, ed era bello grosso e pieno, e sono sicuro fosse anche pieno di soldi, perché va bene se uno fa la fame e rapina per mangiare, ma che cazzo di motivo c’aveva questo vecchio del cazzo, perché doveva rapinare la gente?, cazzo,e intanto sentivo gente gridare e una luce troppo forte mi illuminava il volto, e non era la luce del lampione, cazzo, e delle luci natalizie non ci capivo più nulla perché ne ho viste di tutti i colori, in vita mia, ma nessuna era blu, credimi, e quelle invece sì.
E adesso sono qui, quando avevo te e tu avevi me ero libero, mentre invece ora no, non lo sono, non lo sono più.
E non mi dicono nulla, Piccoletta Mia, nemmeno questo: era vera, quella pistola? Era vera, cazzo, o era finta? Almeno questo!, chiedo, ditemi almeno questo!, e invece pensano che io lo dica per i miei interessi, per negare fosse mia. Ed è come quando ti parlavo per il tuo bene e tu pensavi stessi parlando per curare il mio, ma io vorrei saperlo davvero, sapere se m’ha fregato con una pistola finta, il destino.
Guardate le impronte digitali!, ho detto a quegli sbirri. C’ho sperato per giorni, credimi, per giorni: ma portava i guanti, quel vecchio. Il destino porta i guanti, per non lasciare tracce. Portami del tabacco, ti prego, se stai leggendo questa lettera portami del tabacco. Per favore.
*Non so chi l'abbia detto, però, non me lo ricordo.
(Love you, Bastards)