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Three Sides To Every Story

Mi duole ed altrettanto mi preme dirlo: ben oltre la mia sincerità, sulla quale giurerei non la offendessi facendolo, ben al di là dell’assoluta certezza in quanto racconto, avendolo visto anche più che ascoltato, dalla voce della persona di cui parlo ed a volte dalle voci di chi conoscono quella persona, considero io stesso lacunoso e pericolante quanto racconto. Ne mancano pezzi, ben più di quanto appaia dall’intero che conosco; ci sono tratti nei quali ho dovuto usare colla e toppe per assemblare i pezzi che uniti paiono raccontare tutto e che invece a me paiono semplici frammenti inadatti a legittimarsi l’un l’altro ed incapaci di bastarsi. Lavoro in un negozio di articoli sportivi, solitamente nel reparto che dedicato allo sport che più amo e pratico. Quando c’ho incontrato il tizio di cui parlo avevo già avuto modo di incrociarne la strada altrove, ed altri incroci si son disegnati successivamente.

 

Quand’ero bambino non funzionava così.

Se chiedevo a Mamma di scendere, di uscire, dovevo aspettarne il permesso. Per chiederlo a Papà avrei dovuto averlo a casa, ma lui era sempre in cantiere perché eravamo in tanti la sera a tavola. C’erano pure i venditori ambulanti, che ora non esistono più e una volta si chiamavano vucumprà, e a casa non c’era una lira e non si poteva comprare nulla ma Mamma e Papà dicevano loro di restare a mangiare con noi, almeno.

Il permesso per scendere riuscivo a intascarlo quasi sempre. Papà, a dire il vero, me lo dava senza che glielo chiedessi: all’alba ed a sera c’era da star dietro al pollaio ed all’orto, ed io ch’ero il più grande avevo La Responsabilità. Papà andava a lavorare all’alba e tornava quand’era buio, e per i permessi del giorno c’era Mamma. Hai fatto i letti? Sì. Tutti. Sì. Tutt’e quattro? Uffa. Rimediavo, e c’era da asciugare e sistemare le stoviglie, i piatti. Da passare la scopa. Mamma aveva sempre da fare con i piccoli, con la cucina e con il bucato. Quando diventi grande ti torna utile, mi diceva. Io guardavo il poppante di turno, io che non avevo bevuto il latte dal seno quand’era il momento mio, ammalato di medici sbagliati, lo guardavo e l’avrei pigliato a sventole.

Poi scendevo.

Era diverso: io sono cresciuto nei boschi. Nella brughiera. Ho perlustrato canneti, cave abbandonate, stagni. Ho mappato i sentieri del lago come se nessuno l’avesse mai fatto in questi ultimi diecimila anni, ed esplorato le colline come un temerario finché ho scoperto che lassù ci sono le rovine normanne e che in paese nessuno lo sa, nessuno ci va, perché costa fatica. Ma a sei anni, quando la Mamma ti manca anche quando c’è, e sei un quattr’occhi paffuto e zitto, l’energia lo trovi. Sennò muori. Di vergogna.

Era diverso perché non c’erano le macchine. Il cortile, il pollaio, gli orti, le strade roventi d’estate e bianche d’inverno: cosa mi poteva succedere? Ora la Bimba chiede se può scendere, i genitori alzano un attimo gl’occhi dal videogioco che chiamano telefono e dicono sì e basta, anche se qui sotto è pieno di macchine. Piglia la maniglia, lei, e si volta. Zio, dice. Ed io non so se trattenerla o lasciarla. Se tarparla o mandarla a farsi male. Beh, Zio, io scendo. Sta’ attenta, le dico. Anche se so che mi metterò a spiarla dal balcone. Tu non vieni, Zio? Verrei, penso, ma penso anche che i bambini non devono vederla con un guardiano che l’accudisce. Non bastasse ch’è la più piccola, lei, che c’è sempre in agguato un’esclusione, un no tu no. E poi se suona male a me, quando le chiedono se le son zio o papà, forse può suonar male pure a lei. Forse dopo, Tata, forse dopo arrivo.

La origlio dal balcone mentre lavo i piatti, la spio dalla finestra mentre la lavatrice tarda a fare quel che deve. Poi mi cambio d’abito, preparo bevande e bicchieri e mi metto le scarpe e scendo. Mollo il malloppo all’ombra, Sei arrivato!, e Sì, Tata, ma vado, tu vedi di comportarti bene. E dove vai? Arrivo, poi arrivo.

Credo sia stato questo, pure se non da solo, a cambiare così tanto e così male quella musica che mi suonavo da un anno e mezzo. Correre via ma per andar forte, andarmene per non limitarle gli spazi ma mai abbastanza lontano da non poter intervenire. Filare giù dalle rive, percorrere a tutta velocità la spianata della Valsorda, tagliare per i boschi, su e giù da due alture, e poi il sentiero sui sassi, per salire in cima al colle e vederla, fare dall’alto il censimento, si fottano gl’altri, dov’è la mia?, e poi scollinare e raggiungerla. Sei già qui!, dice. Beh, sono di passaggio, e via ancora. Un miglio a perdifiato, calcagninculo, il cronometro dice aumenta, eccomi. La vedo, la guardo, filo via.

Prima no.

 

Un piccolo appunto: so per certo che il padre del tizio correva. Ha poco più di settant’anni, ed il suo stato di salute è difficile da definire. Per quel che gl’è toccato, dovrei dire di lui che è un miracolo. A differenza del figlio, non ha mai bevuto né fumato: neonato della guerra, bi9mbo del dopoguerra miserabile veneto, è migrato in Lombardia con sette fratelli ed i genitori, senza contare lo stuolo di cugini e conoscenti che han fatto pieno il camion che li portava da una regione all’altra. Ha costruito da sé la casa con gli otto appartamenti dove la sua famiglia è cresciuta, l’ha costruita lavorando di giorno come infermiere in un ospedale psichiatrico e come muratore la sera e nei giorni di riposo. Vent’anni dopo, già ammalato di cancro ad un polmone (gliel’hanno levato tutto, dice il figlio; me n’han tolti due terzi, dice il padre), ha fatto i bagagli e portato via figli e moglie dal nido di serpi ch’era diventata la sua famiglia. Non c’ha preso una lira, se n’è andato e basta. Qualcosa di simile toccò poi al figlio alla morte della madre, anni dopo. L’appunto, senza voler essere banalmente psicanalitico, senza voler fare comica serietà della spocchia di certe riviste, doveva arrivare qui: al padre del tizio, tanto amato quanto taciuto dal figlio. Il tizio ha giocato a calcio, lavorato, corso e scelto sempre in modo simile al padre. Dire che l’abbia fatto imitandolo sarebbe offensivo, soprattutto nei confronti della propria intelligenza, ma almeno si può dire che il figlio sia stato coerente al padre. Ovvero, coerente ai propri valori, ereditati dal padre. Con il quale, però, non ha mai saputo parlare. Edipico conflitto, forse. O solo inadeguatezza: il padre, eroe umile e schivo di mille sacrifici, ha corso fino ad una settimana prima della diagnosi: si trattava di una cinquanta chilometri con partenza da Milano ed arrivo in cima al Monte Resegone. Per quanto ne so, e testimoni della vita del tizio ce ne sono, distanti ed ignorati ma pur sempre testimoni d’almeno qualche suo momento, per quanto ne so, dicevo, a quell’epoca il tizio non correva. Non certo gare di fondo. Era veloce, giocava a calcio, anche due partite per sera dopo aver lavorato, ed una volta (riecco il padre) si ruppe lo sterno e continuò a giocare per un’altra ora (ed una volta, soltanto una ma rumorosa, fu espulso: dallo zio, il fratello della madre). Di più: odiava e pativa, durante l’infanzia, le sere nelle quali il padre lo portava a correre con lui. Arrivò al punto, e ne sorrido nonostante la foto che me lo testimonia, ne sorrido nonostante mi paia così poco congruo, arrivò, dicevo, al punto d’arrivare volontariamente ultimo ad una gara domenicale (a Lazzate, e son certo pure di questo). Quel giorno suo padre (due ore prima, correndo) arrivò primo. Vinse un piccolo trofeo d’ottone. Il tizio portò a casa un bottiglione da due litri di Moscato Di Barletta (per inciso, non fu con quello che si prese la prima sbornia della sua vita, una delle ultime che riuscì a procurarsi prima che i suoi nervi diventassero così tesi da controllare perfino gl’effetti dell’alcool: la prima sbornia se la procurò, invece, con una bottiglia di liquore all’uovo, qualche tempo prima). A vent’anni, insomma, sei anni dopo aver lasciato la scuola per andare a lavorare, nell’anno in cui con la sua famiglia cambiava casa e paese, non aveva mai corso una gara di una certa distanza. Suo padre sì, ma non lui.

 

Prima, molto prima, c’era uno che lavorava da una vita. Da subito. Era diventato smilzo, e non gli pareva mai abbastanza. Il peso, l’ingombro, se li sentiva sempre addosso. Non bastava una bilancia cigolante, non bastavano le donne nude, non gli specchi ciechi a dirgli che non era più il grassottello di prima. Nessuna memoria: la serietà dell’infanzia, la fame della pubertà, il vomito dell’adolescenza. Più nulla: risse, fabbriche, concerti, qualche goal da metà campo, tanti di testa, quanto cazzi salti?, la luce delle discoteche negl’occhi, tutti quei volti sfocati che l’oculista diceva se non metti a fuoco non si vede neppure cos’hanno i tuoi occhi, ma ora il carosello dei sorrisi era dimenticato ed anche il sapore delle labbra. Ora c’era un tizio che vedeva morire sua madre e per farsene una ragione cercava di salvare il mondo e perdeva tutto. Il lavoro per sopravvenuta chiusura dell’azienda, i soldi nelle tasche di parenti attenti, la compagna del momento per manifesta pochezza. E la salute. Ehy, dice la tizia, qui sotto c’è qualcosa. Dove? Qui. Ed ecco il mostro. Nascosto. La stessa storia di Mamma: piccolo, feroce, furtivo. Un nido laggiù, sotto al piede, sotto a quel dito. Non dirlo a nessuno, dice lui, nessuno. Una corsa dal medico, un paio di specialisti: esatto, signore, è così. Senza nessuno a cui dirlo, neppure la tizia, perché le storie finiscono, sempre un attimo prima che ci si prenda a calci nel culo. Ed ecco il tizio all’ospedale, è venuto da solo?, no, ora arriva mia sorella. Bene, si tolga tutto. Cosa? Orecchini, piercing, borchie. Ecco. Poi glieli rendiamo. Anestesia, bisturi. Tolto. Era quello? C’è un piccolo groviglio che pare arrabbiato, sotto al poco sangue che gl’è rimasto addosso, tra le chele d’acciaio che il chirurgo regge con due dita. Sì, dice il chirurgo. Era uno di quelli?, chiede il tizio. Bisogna analizzarlo, non so, ma vista la fretta che m'han messo è meglio averlo tolto. E l’infermiera chiede, poi: dov’è sua sorella? Ed il tizio dice sarà qui sotto. Beh, lei così può mica scendere. Come no?, ho queste. E mostra le stampelle. Gliele avremmo date, dice lei. Beh, queste sono fi famiglia, uso le mie. E come mai le ha portate?, chiede lei, qui davanti c’è l’ascensore, arriva fino al parcheggio qui sotto. Ed il tizio se ne va, senza orecchini e piercing.

Dodici chilometri, da lì a casa, e fa caldo. Il piede tace, non duole. C’è da inventarsi una scusa per spiegare il bendaggio a chi lo vedrà. Il vecchio Papà, che ancora pensa a Mamma e lo farà per sempre. E fratelli, sorelle. Mi son tagliato, dirà. Lo fa.

Poi arriva il referto del tessuto espiantato. Ringrazi chi se n’è accorto, dicono al tizio, lei non sa come sarebbe andata, altrimenti. Quel coso s’è mangiato mia madre in pochi mesi, risponde. Ed io non ringrazierò mai quella troia che stava con me, pensa. Vado, dice. Anche se poi dovrà rivedere quel medico, ed alcuni altri. Gli dicono che non correrà mai più. Camminare? Beh, ecco qua: stampelle, cortisone, plantari ortopedici. Ma stia seduto, gli dicono. Ed il tizio ci beve sopra per due anni, le tasche svuotate dai parenti, i nervi disidratati dalla rabbia. Ha sull’avambraccio una bimba che non conosce altro riposo, che non frequenta altra culla. Due volte mutilato, lui: gli resta un piede, inutile perché l’altro s’è licenziato, ed una sola mano, quella in fondo al braccio che la Bimba non occupa. Mutilato fuori, mutilato dentro: ha sull’avambraccio il petto, il ventre, il cuore, il viso di un moscerino che l’ha scelto dal primo minuto, in ospedale, e dall’altra parte, in mano, bottiglie. E dentro ha un pendolo, ed un pozzo. Una lama che danza scavandogli nella coscienza un abisso.

Due anni passano così, attorno una tribù e Mamma gliel’aveva detto, vedi che poi ti torna tutto utile, anche se morendo gl’aveva pure detto va’ via, almeno adesso va’ via, e invece eccolo, tanto codardo quanto lo era da bambino, dritto e temuto e codardo, tanto codardo da sciancarsi dietro a chiunque per non mettersi davanti a se stesso. Solo che ora la Bimba cammina, ha due anni lo fa da uno, e così prova anche lui.

Sui binari. Li imbocca al passaggio a livello di Brenna, come quando, ormai son passati te anni, l’avevan chiamato al lavoro per dirgli che Mamma se ne sarebbe andata in pochi mesi. Aveva camminato chilometri, allora, tanti, di nuovo, per star lontano, e poi dentro gl’era venuto male, gl’era venuto da tornare a casa e gli serviva una strada più breve, per star vicino, per abbracci che non avrebbe dato e parole che non avrebbe detto. Ora era di nuovo su quei binari che non c’era tornato più. Le scarpe da corsa di allora. Quelle che tra due mesi corro la maratona e poi invece nulla, solo guai. Qualche passo, piano. Un piede sente i binari, le traversine. L’altro no. Il tizio avrebbe dovuto farci caso già allora: lasciati a fare come vogliono, piedi e cervello e tutto il resto fan tutto, anche senza aiuto. Meglio, se senza. Poi qualche passo di corsa: la morte. Cuore, polmoni: dove sono? Ora, poi, che la silfide, l’efebo pesa così tanto, ora che gli dicon tutti adesso sei proprio bello, finalmente!, prima eri troppo magro. Ma il tizio dei binari non la pensava così neppure prima di quel giorno, neppure in quella camera senza specchi, e meno ancora lo pensa adesso che le sensazioni sono così sincere, uno specchio vero.

Via, a casa.

Morto, deluso. Disgustato.

Ed il giorno dopo ancora. Scatta una foto, il giorno dopo. Così ora sa ch’era il suo compleanno, quando ha rimesso i piedi a terra. Quando s’è regalato i piedi. Il gelo è bello, l’ha amato sempre, perché il caldo lo fa sentire sporco e perché il freddo lo fa sentire un bimbo nella pancia della madre. Perde la misura, come spesso gli succede quando si prende per il collo e si sbatte al muro, e così primavera ed estate li passa correndo due volte al giorno in settimana tre di sabato e di domenica, poi torna il fresco, è autunno, poi è inverno, ed è freddo. Si lavora tutto il giorno, otto ore pagate e tutte le altre no, precariato dei figli di puttana, s’inizia alle otto e si finisce boh. Così resta la notte, per correre. Senza cronometro, senza tecnologia. Musica, quella sì. Misura di giorno, andando a lavorare, le strade che percorre di notte. Dalla prostituta tatuata a quella con la gonna a scacchi c’è quasi un miglio, dalla segheria alla discarica due chilometri, e le rotonde della zona industriale, dietro al centro commerciale di Anzano Del Parco, stanno tutte ad un chilometri l’una dall’altra. Poco più, poco meno. C’è un chilometro e settanta metri da casa sua fino al passaggio a livello, un miglio da lì alla torre di Alzate, se sale, e due fino al passaggio a livello di Brenna, se scende.

 

Qualche toppa: nel primo anno successivo all’operazione il tizio corse una gara. Una gara di beneficenza, senza podio né premi, anche se in mezzo ai quindicimila iscritti c’erano un migliaio di tesserati, di atleti quindi in grado di correre davvero. Non è dato sapere quanto bene riuscì ad andare il tizio, perché passò il controllo dei sette chilometri nel gruppo dei primi cinquanta (ma erano inseguitori: i primi erano più avanti), e poi dovette abbandonare la corsa. Era successo che i boy – scout, una delle attrazioni di contorno per l’evento, avevano acceso un falò coreografico al margine del sentiero all’altezza del secondo chilometro. Me ne parlarono poi in molti, lamentandosene: i piromani in camicia erano dei ragazzini, in effetti, piuttosto insuperbiti dal proprio ruolo e tutto sommato incapaci di qualsiasi cosa che non comparisse tra le funzioni dei loro cellulari. Il fumo aveva invaso il sentiero, e questo doveva certo doler molto ai polmoni spalancati di chi stava correndo. So, si sa, che uno dei boy – scout passeggiava attraversando il sentiero e che così urtò un tizio che stava correndo. So, si sa, che il tizio prese il ragazzino dalla cintura e dal colletto della camicia e lo lanciò nel fosso che costeggiava il sentiero. Il ragazzino ebbe per colazione lacrime e acqua di scolo, mentre il tizio arrivò al controllo dei sette chilometri e poi sparì. Un chilometro più in là c’era un bivio: da un lato c’era il traguardo della gara più breve, dall’altro il sentiero continuava per altri sette chilometri. Al traguardo degli otto chilometri c’erano i vigili urbani. Aspettavano un tizio con la testa rasata ed una maglietta rossa senza maniche ed un tatuaggio sul polso. Quel tizio, però, non arrivò mai. Posso scommettere che quel tizio fosse il tizio? No; ma troppe cose combaciano. E la sua descrizione, per me, non è neppure la più importante. C’è un’altra gara, sempre in quel periodo, e che lui la corse ho almeno altrettanta certezza. Di più, forse. Si correva dalle sue parti, nella brughiera dove credo corra ancora (e non gli converrebbe farlo). So che dopo il primo chilometro passò in testa un tizio dalla testa rasata, magro, con una maglietta rossa senza maniche (nessuno ha saputo dirmi del tatuaggio: nessuno, nessuno mai, può registrare ora quel che si rivelerà decisivo solo domani; di che colore aveva le scarpe il garzone del benzinaio, quando tre ore fa ci son passato? Non lo so, e se tra tre giorni sarà protagonista di un fatto di cronaca non saprò ricordare quel particolare perché non sapevo ch’era un particolare). Si sa che il tizio raggiunse il fondo della brughiera prima che c’arrivassero gl’addetti alle segnalazioni, e così il tizio tirò dritto fino a Brenna, capì cosa gl’aveva combinato l’altrui pigrizia (il tizio si sveglia prima dell’alba, ogni giorno) e tornò indietro, rimontò (rabbia, immagino: o frustrazione) chi intanto era passato lungo il giusto sentiero e in vista del traguardo rallentò per non sorpassare (pietà?, lealtà?, derisione?: mi mancano pezzi, l’ho detto) il ragazzino che stava vincendo una gara di otto chilometri che per il tizio s’era allungata di cinque. Tutte cose che si sanno: nei bar della zona a volte se ne parla. Si parla, anche, della caccia all’uomo. Della caccia al tizio. Perché quel giorno la brughiera era colma di cacciatori, e si sa che ogni corridore ne ha ricevuto il saluto: una masnada di sorridenti armati che al tizio non dev’esser piaciuta. Vegetariano, o animalista, immagino. Lo salutarono tutti, questo è certo, si sa perché passarono il resto della mattina a chiedere di lui agli inseguitori, a chiedere del bastardello che per risposta li aveva chiamati figli di puttana. Non c’è malizia nel rattoppare così questa storia: non c’è intenzione alcuna di assemblare o scardinare quel tizio. Quando dicevo che mi mancano dei pezzi, che quelli che ho formano sì una forma, ma che questa non è per forza esatta, beh: mi riferivo a questo. Trovassi ora un centinaio di pagine d’una vecchia edizione d’un qualsiasi romanzo, solo un centinaio e prive dei numeri necessari a metterle in fila, non saprei se compongono l’intera storia, non saprei quante ne mancano, cosa dicano quelle che non ho. Non saprei neppure se siano consecutive quelle che ho. Ne avrei un centinaio, e lette in fila direbbero qualcosa. Ma quanto esatto, quanto sensato?

 

Ottobre, novembre, dicembre, gennaio, febbraio. Un volo. Ma mangi? Sì, sì che mangio. Stai dimagrendo, tanto. Non so, mica mi peso. Ma una volta, quel giorno, il tizio s’era pesato. Erano decenni, dall’adolescenza, che se l’era ben vietato ma quel giorno s’era pesato. Lo fa ancora. Ora. Sulla bilancia che gli pesa il lavoro, quella dei rotoli di tessuto da settantacinque chili. Sessantaquattro, dice la bilancia. Il tizio ci rimette sopra quel che ne aveva levato e corre in bagno. Chiude a chiave, si sveste il torace e, controlla. Cazzo. Cristo. Sì, è dimagrito. Torna in reparto e si toglie gli scarponi. Otto etti e mezzo l’uno. Quanto pesano i jeans? Boh, mezzo chilo?

Cazzo.

E quella notte corre.

Stavi meglio prima, gl’han detto.

Mi son pigliato i piedi con la fatica, pensa lui, mi sono dissanguato per non farmi peggiorare dalla merda altrui, per disperazione, e voi parlate di come dovrei stare? Io so come sto, non m’interessa come vi dovrei star tra le mani. E tace.

Eppure non va bene. Non così.

Perché ora si va forte, si corre per le tabelle. Per i tempi.

La velocità doveva esser finita. Da millenni: quella del quattr’occhi che sul campo da calcio seminava difensori e portieri, l’adolescente che nelle foto di fine stagione era sempre il più basso della squadra e con la fascia da capitano si sentiva d’aver meno privilegi che mai e più responsabilità, La Responsabilità. Dopo che mi son ripreso i piedi alla faccia dei medici volevo solo correre. Tanto, a lungo. Ovunque, fino ad ovunque. C’erano le gare, questa primavera, e le ho mollate per quanto mi sembrava patetico tutto quell’accanirsi, tutti quei discorsi fatti per altri ma perché io li sentissi, solo perché non mi conoscevano ed avevo vinto una gara, e poi due, e dentro di me sorridevo di me perché per la prima volta avevo trovato il modo di non patire la competizione, la mia cronica e squallida mancanza di voglia di competere, ed era divertente che fossi proprio io a vincere e non chi ci s’atteggiava tanto, e poi tre, quattro, fino a sedermi alla partenza e lasciar tutti davanti, oggi mi godo il paesaggio, pensavo, l’avevo pensato sempre, solo che poi stavo così bene dentro che le non mi sono accorto di come correvo e sono arrivato prima, cinque, sei, e le scorrettezza, solo un tizio che quando arrivava e mi trovava che me ne andavo mi voleva stringere la mano, solo uno, chissà chi era, e poi sette, gente che si sfianca anche se c’è chi gli dice mollalo, non ce la fai, mollalo, ed io rallentavo per dargli la scia e mostrargli un po’ il ritmo, che se ne andasse a casa con il suo miglior tempo, quella sera, ed invece eccolo accelerare sentendosene forse astuto e forse mentecatto, piedi pesanti e nervi tesi, e fiatone, mani che spalano aria tutt’attorno, se gli sto dietro s’affanna, mi dico, se gli sto davanti pure, io vado, e accelero alla prima salita ma solo per fargli un piacere, per levargli un peso, e così ne raggiungo altri e manco mi sentono arrivare, che se ami la strada non ti fan rumore né il fiato né i piedi, m’accodo per vedere se posso imparare a correre guardandoli, tanto loro parlano d’altro e vanno piano, meglio così, finché uno si gira a guardarsi indietro e poi l’altro e da quel momento parlano d’altro, di quanto male abbia fatto uno quello strappo, oddìo, e di quanto quell’altro pativa ad andar piano ma glielo aveva detto il dottore, che ci vuoi fare?, e mi pare così assurdo, così penoso se perfino io mi sono accorto di quelle falsità, di tutta questa falsità, di tutto questo spreco, che correre è una fortuna ed essere liberi anche, e così accelero, ed ogni volta che vedo qualcuno so che andrà male, che qualsiasi cosa io faccia andrà sempre male, che correre si fa da solo come prima, meglio da solo, ‘fanculo tutti che non avete capito un cazzo, volevo solo far due passi, io. Ecco il traguardo, finita, è finita, c’è solo un tizio là davanti ed è davvero carino che mentre lo sorpasso lui mi sgambetti verso la strada, verso i suv e le moto, mi piaceva arrivare secondo e mi tocca, per salvarmi le gambe, puntare le punte e risalire sul marciapiedi davanti al gentiluomo, sorpassarlo, e per non infliggergli la mia sgradita presenza accelero, questa volta sì, accelero come allora, perché sì, perché guarda cosa mi state facendo, e scopro delle cose. Me ne vado senza ritirare quel che devo, me ne vado perché basta, non si corre più, non così, non con loro, ed ho scoperto cose, anche una che me ne accorgo soltanto ora che ci ripenso.

Quei quattrocento metri finali. Corsi come gli africani. Senza tallone, senza atterrarci.

 

A proposito di toppe e di colla: mancano anni. Una dozzina almeno. Una quindicina, più probabilmente. Prima dell’intervento il tizio correva: pensava ad una maratona, ma non c’è evidenza che avesse mai percorso, correndo, più di dieci o quindici chilometri. Posso credere, perché no?, che le scarpe utilizzate per tornare a correre dopo l’intervento fossero le stesse che usava prima di tutti quei guai: gliele si vede ancora, a volte, ai piedi. E si tratta di una modello fuori produzione da circa cinque anni. Si sa per certo (uno dei suoi fratelli lo sa per certo) che all’epoca della diagnosi il tizio andò a correre di notte attorno al Segrino. Uscì di notte, probabilmente (io la vedo così) sopraffatto dal disgusto (era il ventotto o ventinove dicembre) e dalla rabbia. Tornò a casa alle quattro. Fuori il termometro segnava meno undici. Il Segrino, per altro, è ai ridosso di monti sferzati da venti costanti, in una valle fredda. Non ci sono lampioni, attorno al lago. Il fratello del tizio si svegliò mentre l’acqua scorreva nel bagno di servizio: il tizio, per tutta la vita dedito a bagni serali profumati e musicali, ora viveva di sole docce (il fratello mi dice che, oltre a quel cambiamento, dalla morte della madre se ne manifestò un altro: il buio, prima amato, ora era perennemente messo in fuga da lampadine accese ovunque, di notte). Il tizio, insomma, si stava facendo la doccia, sul tavolo della cucina c’era un cronometro che diceva diciotto e ventisette. Il tizio, quindi, a trentasei anni, correva i cinquemila metri in diciotto minuti e ventisette secondi. Potere del gelo, e della paura del buio. So, se non altro, che il suo avvicinamento a distanze degne d’esser chiamate “corsa” data a poco prima della sua interruzione. Un’interruzione creduta definitiva per almeno due anni. Nel negozio che il tizio aprì per il fratello (andandosene senza una lira un anno dopo: non ne fu cacciato, se ne andò quando gli si disse vattene, se questo fa differenza) c’era una signora che si faceva risuolare una volta al mese le scarpe con cui ballava. So che quella signora aveva ottantatré anni perché so quanti ne ha ora: è mia nonna. Quando mi raccontò quest’episodio, mesi dopo, si stava parlando d’altro, né io sapevo che il personaggio di quel racconto mi sarebbe finito davanti agli occhi negli anni successivi, inaspettatamente. Era così gentile, mi raccontò mia nonna, così serio. Una volta gl’ho chiesto di venire a ballare con me. Son mica capace, mi rispose. Le insegno, le ho detto. Non si riesce, mi ha risposto. Lei sta fermo e mi muovo io, gli ho detto. Non sono abbastanza bello per lei, mi ha detto lui. Se non la smette la faccio correre, gli ha detto allora mia nonna. Sarebbe bello, ha detto lui, ma non posso più. C’erano le stampelle, in un angolo del negozio. Lei non corre perché ha male al piede?, gl’ha chiesto mia nonna, o il piede ha male perché lei non corre?. E se n’è andata. Mi piace pensare che quelle parole siano servite, ma non posso saperlo. Né posso sapere se lui sappia come sia morta quella vecchietta cui vendettero, in un centro, un paio di stivali che lei non poteva indossare per via delle malformazioni che la malattia aveva inflitto ai suoi piedi. Era la viglia di Natale, e il tizio diceva ch’era un rischio, che per fare certe cose ci voleva un medico che stabilisse quanto osare, come fare, che lui non poteva rischiare la schiena e le gambe della signora. Che passate le feste sarebbe andato in quel negozio per far riavere alla signora i soldi spesi. La signora gli rispose che quel Natale, lei, lo avrebbe passato da sola, che quegli stivali non li avrebbe visti nessuno, né le sue gambe. Che per quanto la riguardava poteva anche morire il giorno dopo, ma che almeno le capitasse mentre si sentiva bella. Il tizio le rese gli stivali quand’erano le nove di sera, e la signora morì una settimana più tardi. Per sapere se avesse indosso quegli stivali dovrei chiedere a mia nonna, sempre che lei possa saperlo. Sa, so, che la signora uscì dal negozio indossandoli. Il tizio lo sa, quindi. Spero sappia, spero sappia e ricordi, che quella donna per essere felice voleva proprio quanto lui le diede.

So, ricordo, che un giorno il tizio venne a star zitto nel negozio dove lavoro. Fu in quel periodo che cominciai a sospettare che alcune delle storie che sapevo riguardavano tutte la stessa persona. Guarda un po’, mi disse una collega. Mi fece segno di seguirla. Il tizio si stava provando delle scarpe. D’ogni paio provava soltanto la destra. Che non siamo simmetrici, non perfettamente, dovremmo saperlo tutti ma non ci succede mai di applicare questa evidenza (un’evidenza che, ripensandoci, molti forse ignorano). Quando proviamo guanti o scarpe, li proviamo come li troviamo, oppure entrambi. Il tizio invece provava solo scarpe destre. Alcuni dei modelli esposti, però, avevano in mostra le sinistre. La mia collega andò da lui. Gli chiese se potesse essergli utile. Regalate scarpe, qui?, le chiese lui. Credo non se l’aspettasse, la mia collega. E neppure io. Il tizio parlava. E scherzava. Grosso modo. No, gli rispose lei, mi spiace. Guardava il suo piede, e così anch’io. Si sa che ha i piedi piatti, il tizio, si sa perché lo dice lui stesso quando gli si dice che se corre così tanto allora chissà quanto va forte. Macché, dice, c’ho i piedi i piatti. Eppure quel giorno non provò neppure un paio di scarpe tra quelle costruite apposta per chi ha il piede piatto. La mia collega notò che le scarpe con cui era venuto in negozio erano vecchie, un paio di Saucony di almeno quattro anni prima (cinque, invece). Numero: quarantatré. Il tizio provò una dozzina di scarpe diverse, raccomandandoci di ignorarlo, che non ci prendessimo pensa per lui. Eppure provò solo scarpe numero quarantadue. E gli calzavano perfettamente. Aveva perso per strada almeno un numero, insomma. Ed il suo piede aveva, è vero, un arco plantare non molto alto, ma di sicuro non era una pinna buona per nuotarci. O non lo era più: quel tizio aveva palesemente cambiato i propri piedi. A quarant’anni. Provò scarpe da gara, un paio di scarpe ammortizzate, almeno tre modelli di minimal, e forse il doppio di scarpe da trail – running. Ci chiese se avessimo altrove qualcosa di più “essenziale”, e non l’avevamo. Ed ignorò, palesemente, come neppure le vedesse, tutte le scarpe concepite per piedi come i suoi. O come dovevano essere i suoi. Indossava scarpe destre, senza neppure allacciarle toccava con due dita la base dell’allacciatura, all’altezza dell’alluce, e intanto lo alzava dall’interno della scarpa. Mi par chiaro che sia in quel punto che ha male. Non è lì che è stato operato: una macchie sottocutanea in quel punto l’avrebbe vista da sé, mentre invece so che fu solo la sua compagna d’allora ad accorgersene. Deduco che quindi l’artrosi l’abbia colpito in quel punto. Non ha senso, disse ad un certo punto. C’era la mia collega, non io, e lei me lo raccontò. Cosa?, le chiese? Questa non ha drop, ma ha l’allacciatura ribattuta, come fosse uno scarpone. Questa ha l’allacciatura termosaldata, però ha un’intersuola così morbida che pare un materasso. Questa è asciutta, ma vedi dove si piega? (glielo fece vedere), il piede non deve piegarsi lì, ed è un peccato, perché questa era l’unica con l’allacciatura asimmetrica. Dovremmo assemblarle, gli disse la mia collega. Sorridendogli. Dovremmo far progettare le scarpe da chi le usa, non da chi le vende, disse lui. Rimangono solo quelle, gli disse allora lei, indicandogli lo scaffale con le scarpe per piedi piatti. Perchè?, le chiese lui. Perché no?, gli chiese lei. Non mi sembra una bella idea infilare un cuneo al di sotto d’un piede, rispose lui. Cuneo?, chiese la mia collega. Lascia che lo chiamino sostegno, allora, disse lui, ma devono spiegarmi come fa il mio piede ad ammortizzare la mia corsa se sotto mi ci mettono un sostegno. C’è l’intersuola, disse lei. Ci sono i piedi, disse lui. Seguimmo altri clienti, e mezz’ora dopo c’accorgemmo che il tizio era sparito. Raccontai alla mia collega una cosa che avevo visto la domenica precedente. Perché sarà anche vero che dopo quel filotto di gare il tizio sparì, e saranno (sono) veri i motivi di quella fuga. Ma ce n’è almeno un altro. Non lo comprendo, ma ne ho visto un pezzo. Era domenica, insomma, s’era corso la settimana precedente ed il tizio era andato forte. A modo suo: indifferente, silenzioso, quieto. C’era stato nel finale qualcosa che non gl’era garbato, intuisco, ed è l’ennesima volta in cui sono costretto a indovinare ed incollare, questa. Si correva dalle mie parti, piuttosto distante dal paese dove vive il tizio. Pioveva, era fresco, era una giornata di quelle nelle quali corre solo chi ama correre. Non avevo visto il tizio alla partenza, e neppure ci pensavo: parlare di lui lo fa sembrare più importante di quanto possa esserlo, e certo può far credere lo sia per me. Ma è solo una storia. Neppure esatta, l’ho già detto. Credo che il tizio, sempre che fosse lui, sia arrivato tardi alla partenza, chissà se per sbaglio o apposta. Corremmo la prima metà della corsa in gruppi più o meno numerosi, e poco lontani l’un dall’altro. Le pendenze erano poche, il sentiero era stretto e sporco. Era campagna. Alcuni di noi sapevano cosa sarebbe successo dopo: verso la valle dell’Adda il sentiero sprofondava, letteralmente, verso il basso. Due volte: la prima, in un tratto di mezzo chilometro su lastroni di pietra e radici; la seconda, un po’ più lunga, e molto più ripida, tra foglie e fango, alberi ed arbusti. So, c’ero, che ad un certo punto qualcuno, un tizio, ci prese alle spalle e ci scavalcò. Anche letteralmente. Qualcuno lo prese per un matto, anche se sapevo, e meglio ancora so adesso, che non lo era, che non lo è. Non era stupidità, superbia, quella. Non rideva, non mostrava i denti, non sorrideva. Respirava, e basta. Aveva un paio di Saucony rosse da strada, roba di un anno fa almeno, piuttosto lise, e con qualcosa di strano all’altezza del tacco. Dove doveva esserci il tacco. Non aveva senso correre con quelle piume ai piedi su un terreno come quello. In discesa. A quella velocità. Sembrava uno stambecco. Ci superò tutti, nel gruppo dietro al mio saltò una signora che non poteva evitare, ed a molti non piacque tutto questo, mentre ad altri sembrò invece altro. Non ci aveva visti, secondo me, non correva contro di noi. Né con noi, a dirla tutta. Correva e basta. Credo abbia trascorso più tempo a mezz’aria che a terra, nel tratto di discesa in cui l’ho visto. Correva. A velocità folle. Avrei trovato stupido tutto quel rischio, perfino in una gara che prevedesse dei premi. E quel giorno non ce n’erano. Tre chilometri dopo, percorrendo la valle, avrei trovato ancora più stupido quel che gl’avevo visto fare là sopra: il tizio era là, paralizzato. In mano aveva lo stesso fagotto che gl’avevo visto prima: una maglietta( rossa, credo). Pioveva, e lui guardava il fiume. Ora si sfila una macchina fotografica dalle scarpe, ho pensato. L’abbiamo lasciato lì, ad innamorarsi del fiume (quant’è largo, in quel punto, quanto son verdi i riflessi dei boschi nell’acqua, quanto emozionate il cielo grigio?: boh). Un tizio smilzo con dei pantaloncini neri così sgambati che parevano esser da donna. Glieli ho venduti io la settimana scorsa, mi ha detto la mia collega. Cosa? Aspetta. Quand’è tornata ne aveva un paio tra le mani. Gl’hai venduto questi?, le ho chiesto. Se li è presi da sé, mi ha risposto. Che stupido: son da donna.

 

Quando dico alla Bimba ch’è ora di salire, che sta facendo buio, però, non fa una piega. Sorride, come fosse quel che voleva. E mi salta in braccio.

Mi insegni a correre, Zio?

Ma io mica sono capace, Tata.

E allora perché corri?

Perché è bello.

Perché?

Perché mi fa stare bene.

Mi porti?

Sei troppo piccola.

Non è vero.

Stringi il pugno: vedi?

Cosa?

Il tuo cuore. Hai il cuore grande così: è ancora piccolo.

E chi l’ha detto?

Lo dicono i dottori.

Ma loro come lo sanno?

Studiano.

Beh, mica corrono.

Vero, non corrono.

Il tuo dottore è bravo?

Un po’.

Sì o no?

Beh, diceva che io non potevo correre.

Allora non è bravo.

Sarà bravo a fare altro, Tata.

Cosa?

A stare seduto.

Io non voglio stare seduta. Portami con te.

Dove?

Dove vai tu.

Dove vado io non ci sono manco le strade, certe volte, Tata.

Non mi vuoi portare.

Voglio che tu faccia quel che hai deciso, da grande, Tata.

Giusto, Zio.

Vedi?

Sì: sarò una paleontologa da corsa!

 

 

 

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Uploaded on July 29, 2014
Taken on July 27, 2014