annamariapiemonte
Noi teneriamo i nostri bambini
Fotografie tratte dal Video
di Anna Maria Piemonte
"Noi teneriamo i nostri bambini.
Narrazioni matrilineari"
durata 35 minuti
La matrilinearità raccontata attraverso
le storie di Duda, Umiza, Indiana, Stella
Il video è stato presentato al Museo in Trastevere di Roma il 6 Giugno 2008, in occasione della mostra
"Un secolo di donne 1908-2008", a conclusione del progetto organizzato dal Comune di Roma - Dipartimento XI Politiche Scolastiche ed Educative con la partecipazione di alcune scuole della città, fra le quali il Liceo Artistico Statale Giorgio de Chirico".
Ho incontrato Duda, sua figlia Umiza e sua nipote Indiana, anche lei con sua figlia Samantha, di appena diciotto mesi, in una calda giornata di Maggio, nell’intimità degli spazi che hanno saputo creare all’interno dei containers dove vivono, trasformandoli ed abitandoli poeticamente, e nella frescura odorosa dei loro roseti.
Con noi, anche Stella, piccola ballerina delle Chejà Chelen, le ragazze che ballano, il Corpo di danza nato all’interno del Campo Nomadi di Monte Mario.
Siamo state per molte ore insieme, a conoscerci meglio, ad ascoltarci, a ridere e a bere caffé turco.
Ricordando insieme ciò che era stato, tra miserie e fortune.
Narrando oggi ciò che è, per quello che è. Con forza, consapevolezza, dignità.
Esprimendo desideri per domani, provando a progettarne la realizzazione, alcuni anche insieme.
Il più importante, per loro e per me, necessario, vitale, salvifico è quello di gettare ponti, iniziando con il semplice atto di narrarci, mostrandoci per ciò che siamo e non attraverso le immagini che di noi, ogni giorno vengono costruite dalle nostre rispettive culture di appartenenza, che ci isolano le une dalle altre, e che ci fanno guardare con paura e con sospetto chi è diverso da noi.
Da “noi esseri umani” dice Umiza.
L’ ”umanità”, dunque, non le etnie, non le razze, non le religioni, non le culture. Solo noi esseri umani. Duda, Umiza, Indiana, Samantha, Stella ed io, Anna Maria. Solo noi. Donne che insieme tessono i fili reali e simbolici della matrilinearità.
Il nostro desiderio di gettare ponti è anche quello di far esistere il luogo che, non esiste già prima del ponte, proprio perché, come ci suggerisce Martin Heidegger,
“il ponte non viene a porsi in un luogo che c’è già, ma il luogo si origina solo a partire dal ponte” .
Il luogo reale dove è avvenuto il nostro incontro è il Campo Nomadi di Monte Mario, nel quale vivono le nostre amiche da ben quattro generazioni.
È, come ogni campo nomadi, un campo di reclusione, confinato dalla città che lo esclude, oggi come in passato.
È un campo abitato non più da nomadi ma da abitanti stanziali che vivono nei containers assegnati loro dall’amministrazione comunale, alla quale corrispondono per i consumi di acqua, elettricità, gas e smaltimento dei rifiuti, una cifra mensile.
Tutti gli abitanti del campo lavorano, avendo scelto di non andare più a caritare.
Ogni domenica mattina vendono abiti usati, libri, ed oggetti di ogni tipo che selezionano, con fatica ed umiliazione, tra la mole di rifiuti prodotti dalla nostra società dei consumi.
Ognuno di loro raccoglie e ricicla gli oggetti che venderà al mercato che hanno deciso di creare nello spazio antistante il campo.
La vendita degli oggetti al mercato è la loro unica possibilità di lavoro e fonte di sussistenza.
Tutti gli abitanti del campo, benché in Italia da quattro generazioni, le ultime due scolarizzate, in quanto i bambini ed i giovani adolescenti hanno frequentato le scuole italiane, sono privi di documenti di identità.
Senza i documenti di identità, tutti gli abitanti sono prigionieri del campo.
Non possono uscire perché, se fermati, rischiano l’espulsione.
Duda, Umiza, Indiana, Samantha, Stella, e tutte le altre donne e tutti gli altri uomini che vivono nello stesso campo, sono gli abitanti della città degli esclusi come Enkidu da Gilgamesh nella città di Erech.
Il loro sguardo di esclusi ed il nostro sguardo di inclusi nella città, fanno emergere tutte le contraddizioni della surmodernità già espresse dall’antropologo Marc Augè e che si giocano nei rapporti del binomio spazio e alterità . Alterità etnica, alterità linguistica, alterità culturale, alterità sociale, alterità economica, subalternità. Ad ognuno il suo spazio, ma quello degli altri, esclusivo e reclusivo, oltre i confini e controllato a vista.
La lotta, oggi una vera e propria guerra, stando agli ultimi episodi xenofobi riportati dalla cronaca, scatenata contro chi è costretto a vivere nello spazio dell’alterità da chi ha inventato il “campo”, che altro non è che lo spazio del rifiuto, terreno concesso a quegli altri da nascondere.
Campi recintati, chiusi da un cancello e controllati a vista, con containers e roulottes, e acqua e luce elettrica erogata, ma senza nessun documento di identità che possa garantire la libera circolazione fuori dall’unico spazio, esclusivo e reclusivo, concesso a questi altri.
Quindi, le parole chiave sulle quali si gioca il nostro rapporto tra esseri umani, non più così umani, bensì disumani sono: libera circolazione, muro, ghetto, periferia, frontiera e queste parole chiave appartengono ad un’area semantica che ci rimanda ad una parola fra tutte: spazio. È innegabile, dunque, il paradosso che segna lo spazio della surmodernità, ed è quello che i suoi non luoghi sembrerebbero accogliere, come in una parentesi, soggetti che sono identificati e individuati ma solo all’entrata ed all’uscita, mi verrebbe da aggiungere, nel campo e dal campo.
Tutte queste parole hanno a che vedere con la relazione fra il sé medesimo e l’altro.
È solo un problema di spazio dunque?
A quanti affermano che il diritto alla differenza debba essere postulata con dichiarazioni quali “gli stranieri hanno diritto al rispetto ma a condizione che restino a casa propria, senza disturbarci nella nostra”; oppure, a quanti si pongono il problema dell’integrazione, magari creando i campi nomadi, pur deplorando il fatto che le diverse etnie immigrate siano, per la maggioranza escluse in certi quartieri periferici, ad entrambi è lecito rispondere che:
porre la questione dello spazio è porre la questione dell’alterità. In quanto le identità, le relazioni e la storia di quanti abitano quegli spazi confinati, tanto nei campi, quanto nelle periferie e nei ghetti, al margine delle città, in quegli spazi.
vi si inscrivono
Sono luoghi antropologici, definiti da Marc Augè come “il luogo del chez soi”, “a casa propria, il luogo dell’identità condivisa, il luogo comune a coloro i quali, abitandolo insieme, sono identificati come tali da chi non li abita”.
Ecco allora che il gettare ponti tra le nostre due culture, dal quale origina il nostro incontro, apre ad una riflessione: fin dove la nostra azione di gettare ponti mette in comunicazione sponde già conosciute e, fin dove va a costituirle, in virtù del fatto che proprio sulle due sponde su cui si poggia, fa fondamento il nostro ponte?
Il mio impegno con la realizzazione del video: “Noi teneriamo i nostri bambini. Una narrazione matrilineare” e del video “Tutto a poco tutto a poco tutto a poco. Il mercatino dei Rom del Campo di Monte Mario”, è stato quello di raccogliere le narrazioni delle donne e delle bambine, degli uomini e dei bambini che abitano al campo e fonderle con le mie, custodirle e trasmetterle ai miei studenti, affinché anche loro potessero imparare a narrarsi ed un giorno diventare raccoglitori di storie essi stessi, custodi di memorie biografiche ed autobiografiche, fino a quando le storie di ciascuno potranno accogliere altre storie, in un movimento verso l’esterno.
Anna Maria Piemonte
Noi teneriamo i nostri bambini
Fotografie tratte dal Video
di Anna Maria Piemonte
"Noi teneriamo i nostri bambini.
Narrazioni matrilineari"
durata 35 minuti
La matrilinearità raccontata attraverso
le storie di Duda, Umiza, Indiana, Stella
Il video è stato presentato al Museo in Trastevere di Roma il 6 Giugno 2008, in occasione della mostra
"Un secolo di donne 1908-2008", a conclusione del progetto organizzato dal Comune di Roma - Dipartimento XI Politiche Scolastiche ed Educative con la partecipazione di alcune scuole della città, fra le quali il Liceo Artistico Statale Giorgio de Chirico".
Ho incontrato Duda, sua figlia Umiza e sua nipote Indiana, anche lei con sua figlia Samantha, di appena diciotto mesi, in una calda giornata di Maggio, nell’intimità degli spazi che hanno saputo creare all’interno dei containers dove vivono, trasformandoli ed abitandoli poeticamente, e nella frescura odorosa dei loro roseti.
Con noi, anche Stella, piccola ballerina delle Chejà Chelen, le ragazze che ballano, il Corpo di danza nato all’interno del Campo Nomadi di Monte Mario.
Siamo state per molte ore insieme, a conoscerci meglio, ad ascoltarci, a ridere e a bere caffé turco.
Ricordando insieme ciò che era stato, tra miserie e fortune.
Narrando oggi ciò che è, per quello che è. Con forza, consapevolezza, dignità.
Esprimendo desideri per domani, provando a progettarne la realizzazione, alcuni anche insieme.
Il più importante, per loro e per me, necessario, vitale, salvifico è quello di gettare ponti, iniziando con il semplice atto di narrarci, mostrandoci per ciò che siamo e non attraverso le immagini che di noi, ogni giorno vengono costruite dalle nostre rispettive culture di appartenenza, che ci isolano le une dalle altre, e che ci fanno guardare con paura e con sospetto chi è diverso da noi.
Da “noi esseri umani” dice Umiza.
L’ ”umanità”, dunque, non le etnie, non le razze, non le religioni, non le culture. Solo noi esseri umani. Duda, Umiza, Indiana, Samantha, Stella ed io, Anna Maria. Solo noi. Donne che insieme tessono i fili reali e simbolici della matrilinearità.
Il nostro desiderio di gettare ponti è anche quello di far esistere il luogo che, non esiste già prima del ponte, proprio perché, come ci suggerisce Martin Heidegger,
“il ponte non viene a porsi in un luogo che c’è già, ma il luogo si origina solo a partire dal ponte” .
Il luogo reale dove è avvenuto il nostro incontro è il Campo Nomadi di Monte Mario, nel quale vivono le nostre amiche da ben quattro generazioni.
È, come ogni campo nomadi, un campo di reclusione, confinato dalla città che lo esclude, oggi come in passato.
È un campo abitato non più da nomadi ma da abitanti stanziali che vivono nei containers assegnati loro dall’amministrazione comunale, alla quale corrispondono per i consumi di acqua, elettricità, gas e smaltimento dei rifiuti, una cifra mensile.
Tutti gli abitanti del campo lavorano, avendo scelto di non andare più a caritare.
Ogni domenica mattina vendono abiti usati, libri, ed oggetti di ogni tipo che selezionano, con fatica ed umiliazione, tra la mole di rifiuti prodotti dalla nostra società dei consumi.
Ognuno di loro raccoglie e ricicla gli oggetti che venderà al mercato che hanno deciso di creare nello spazio antistante il campo.
La vendita degli oggetti al mercato è la loro unica possibilità di lavoro e fonte di sussistenza.
Tutti gli abitanti del campo, benché in Italia da quattro generazioni, le ultime due scolarizzate, in quanto i bambini ed i giovani adolescenti hanno frequentato le scuole italiane, sono privi di documenti di identità.
Senza i documenti di identità, tutti gli abitanti sono prigionieri del campo.
Non possono uscire perché, se fermati, rischiano l’espulsione.
Duda, Umiza, Indiana, Samantha, Stella, e tutte le altre donne e tutti gli altri uomini che vivono nello stesso campo, sono gli abitanti della città degli esclusi come Enkidu da Gilgamesh nella città di Erech.
Il loro sguardo di esclusi ed il nostro sguardo di inclusi nella città, fanno emergere tutte le contraddizioni della surmodernità già espresse dall’antropologo Marc Augè e che si giocano nei rapporti del binomio spazio e alterità . Alterità etnica, alterità linguistica, alterità culturale, alterità sociale, alterità economica, subalternità. Ad ognuno il suo spazio, ma quello degli altri, esclusivo e reclusivo, oltre i confini e controllato a vista.
La lotta, oggi una vera e propria guerra, stando agli ultimi episodi xenofobi riportati dalla cronaca, scatenata contro chi è costretto a vivere nello spazio dell’alterità da chi ha inventato il “campo”, che altro non è che lo spazio del rifiuto, terreno concesso a quegli altri da nascondere.
Campi recintati, chiusi da un cancello e controllati a vista, con containers e roulottes, e acqua e luce elettrica erogata, ma senza nessun documento di identità che possa garantire la libera circolazione fuori dall’unico spazio, esclusivo e reclusivo, concesso a questi altri.
Quindi, le parole chiave sulle quali si gioca il nostro rapporto tra esseri umani, non più così umani, bensì disumani sono: libera circolazione, muro, ghetto, periferia, frontiera e queste parole chiave appartengono ad un’area semantica che ci rimanda ad una parola fra tutte: spazio. È innegabile, dunque, il paradosso che segna lo spazio della surmodernità, ed è quello che i suoi non luoghi sembrerebbero accogliere, come in una parentesi, soggetti che sono identificati e individuati ma solo all’entrata ed all’uscita, mi verrebbe da aggiungere, nel campo e dal campo.
Tutte queste parole hanno a che vedere con la relazione fra il sé medesimo e l’altro.
È solo un problema di spazio dunque?
A quanti affermano che il diritto alla differenza debba essere postulata con dichiarazioni quali “gli stranieri hanno diritto al rispetto ma a condizione che restino a casa propria, senza disturbarci nella nostra”; oppure, a quanti si pongono il problema dell’integrazione, magari creando i campi nomadi, pur deplorando il fatto che le diverse etnie immigrate siano, per la maggioranza escluse in certi quartieri periferici, ad entrambi è lecito rispondere che:
porre la questione dello spazio è porre la questione dell’alterità. In quanto le identità, le relazioni e la storia di quanti abitano quegli spazi confinati, tanto nei campi, quanto nelle periferie e nei ghetti, al margine delle città, in quegli spazi.
vi si inscrivono
Sono luoghi antropologici, definiti da Marc Augè come “il luogo del chez soi”, “a casa propria, il luogo dell’identità condivisa, il luogo comune a coloro i quali, abitandolo insieme, sono identificati come tali da chi non li abita”.
Ecco allora che il gettare ponti tra le nostre due culture, dal quale origina il nostro incontro, apre ad una riflessione: fin dove la nostra azione di gettare ponti mette in comunicazione sponde già conosciute e, fin dove va a costituirle, in virtù del fatto che proprio sulle due sponde su cui si poggia, fa fondamento il nostro ponte?
Il mio impegno con la realizzazione del video: “Noi teneriamo i nostri bambini. Una narrazione matrilineare” e del video “Tutto a poco tutto a poco tutto a poco. Il mercatino dei Rom del Campo di Monte Mario”, è stato quello di raccogliere le narrazioni delle donne e delle bambine, degli uomini e dei bambini che abitano al campo e fonderle con le mie, custodirle e trasmetterle ai miei studenti, affinché anche loro potessero imparare a narrarsi ed un giorno diventare raccoglitori di storie essi stessi, custodi di memorie biografiche ed autobiografiche, fino a quando le storie di ciascuno potranno accogliere altre storie, in un movimento verso l’esterno.
Anna Maria Piemonte