Silvio S(à)lvaci
La fine dello Stato e le prospettive Federaliste
Per certi aspetti lo studioso delle questioni politiche è una sorta di profeta del passato. Al di là di ricordare eventi ed episodi accaduti, circostanze e vicende dimenticate, il suo compito è infatti quello di distanziarsi dalla cronaca per cogliere in profondità gli indicatori privilegiati del presente e inserirli in una prospettiva più ampia. È con questa consapevolezza che bisogna leggere la “Breve storia del futuro” di Jacques Attali, ex consigliere di Mitterrand, primo presidente della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo e attuale presidente – su incarico di Sarkozy – della Commissione sui Freni alla Crescita.
Le previsioni per il futuro dello Stato elaborate da Attali sono davvero fosche. Nel breve volgere di pochi decenni, tra il 2035 e il 2060, lo Stato nazionale scomparirà, lasciando il posto alla generalizzata affermazione, su scala planetaria, della “iperdemocrazia”; si tratta di un processo che si configura come “l’insediamento di un governo mondiale democratico” affiancato da “un complesso di istituzioni locali e regionali”. Il ragionamento di Attali va ben oltre il paradigma “glocal” formalizzato qualche anno fa come rapporto dialetticamente bipolare tra la globalizzazione e il localismo; è più complesso poiché prevede il dominio dell’iperimpero, al quale seguirà l’iperconflitto, preludio dell’iperdemocrazia. Attorno al 2050 gli Stati si “indeboliranno” e poi “si eclisseranno di fronte alle imprese e alle città”.
L’idea di un futuro caratterizzato dall’arretramento dello Stato e dall’emergenza delle realtà locali l’aveva già elaborata, parecchi anni fa, Gianfranco Miglio. Il politologo comasco, nelle ultime righe di un importante saggio dell’inizio degli anni Ottanta, aveva infatti affermato che, di fronte alla crisi della statualità, il futuro conduceva ineluttabilmente a un ritorno dei municipalismi e delle realtà cetuali: «dare un assetto funzionale al nuovo ‘Stato per ceti – cioè trovare le regole, i meccanismi e le procedure, in cui incanalare le forze che oggi si accavallano turbolente – sarà compito che privilegierà, nell’immediato futuro, l’ingegneria costituzionale e le riforme costituzionali». Indubbiamente, la forma-Stato rappresenta la più grande invenzione – per Miglio il “capolavoro” – dell’Occidente. E come tale è stata esportata nel corso del Ventesimo secolo, ispirando l’organizzazione delle comunità politiche: i 59 Stati riconosciuti a livello internazionale nel 1900 sono divenuti 96 nel 1954 e 193 nel 2004. Contestualmente, però, è cresciuto anche il numero degli Stati “falliti”, quelli cioè che sono scomparsi, inghiottiti dal divenire della storia, per esempio a seguito dei mutamenti connessi al crollo del Muro di Berlino – ma non solo – che hanno portato alla nascita di numerose realtà statuali dalle dimensioni più piccole, autonome e indipendenti. Questo è il dato rilevante.
L’economia globalizzata e le organizzazioni sovranazionali (per esempio l’Unione europea), ma anche il terrorismo internazionale e i movimenti di opinione (no global, ambientalisti ecc), aggrediscono lo Stato sul piano esterno. Mentre sul piano interno, le differenze territoriali e una pluralità di istanze diffuse, più “a misura di cittadino”, provocano un’erosione della sua prerogativa essenziale, la sovranità. Insomma, è sotto gli occhi di tutti la crisi di funzionalità dello Stato, nel suo ultimo “volto” – dopo quello assoluto (1500-1600) e quello costituzionale (1700-1800) – che è la versione democratico-liberale. Essa infatti presuppone ed esige – come del resto ogni regime politico – una sostanziale omogeneità politica al suo interno, quella dello Stato-nazione. E va apertamente in crisi laddove questa omogeneità non vi è e non caratterizza l’essenza dell’ordine politico.
La crisi dello Stato, dunque, è crisi della democrazia liberale. Forse – e quasi paradossalmente – il Muro di Berlino è caduto addosso all’Occidente, nel senso che ha impedito agli analisti di concentrarsi sulle grandi contraddizioni delle democrazie rappresentative di massa d’ispirazione liberale, che non producono più consenso. La delegittimazione consensuale dello Stato deriva dalla sua incapacità di governare la complessità sia sul piano internazionale, sia sul piano interno (ogni cittadino ovvero ogni nucleo di cittadini pone quotidianamente le condizioni del proprio vincolo contrattuale sul quale si basa il consenso). La crisi e la polverizzazione delle identità nazionali, dal punto di vista culturale, mina alla base la legittimità dello Stato centrale, delle sue procedure di governo e di determinazione dell’indirizzo politico, poiché viene meno la lealtà dei cittadini e la loro disponibilità a ubbidire ai suoi ordini e a servirlo con senso di responsabilità.
Com’è noto, esistono diverse “temperature” di democrazia; è parimenti noto che, più ci si avvicina al più basso livello territoriale più c’è democrazia, perché più forte è il rapporto tra i cittadini e le istituzioni; rapporto che cementa l’aggregazione sociale della comunità politica. Insomma, l’integrità territoriale dello Stato, di fronte allo sfilacciamento e all’indebolimento dei rapporti tra i cittadini e i pubblici poteri, non è più un dato certo. Per recuperare la necessaria funzionalità è possibile varare nuove forme di articolazione istituzionale (antistatale) che siano assai più prossime alle esigenze e alle istanze dei cittadini, che rispondano con maggiore efficacia alle sue aspirazioni di autonomia e autogoverno: questo è il senso del federalismo, oggi.
La grande Storia, come ha osservato Attali, «fluisce effettivamente in un’unica caparbia direzione, molto particolare, che nessuna scossa, per quanto prolungata è riuscita fino a oggi a deviare in modo duraturo: di secolo in secolo, l’umanità impone il primato della libertà individuale su qualsiasi altro valore». La storia dell’umanità, in ultima analisi, ha sempre visto l’emergenza progressiva della persona come soggetto di diritto, impegnata a gestire il proprio destino.
Di fronte all’impersonalità e all’irresponsabilità – che sono i tratti specifici dell’attuale degenerazione dei sistemi rappresentativi sui quali si regge lo Stato, a sua volta trascinato nella crisi per effetto della labilità della sua identità politica nazionale – l’unico rimedio è quello di riscoprire le ragioni del federalismo personalista, che inchioda i governanti e i governati alle proprie responsabilità. Responsabilità di governo e degli atti connessi all’esercizio del potere per i primi; responsabilità nell’essere cittadini attivi e, dunque, apparire come un vero e proprio soggetto politico sul quale si regge la comunità, per i secondi.
La svolta federalista si configura insomma come la risposta più credibile alla crisi dello Stato – sia sul piano interno, sia sul piano esterno – che coinvolge la sua prerogativa essenziale, cioè la sovranità, di fronte alla disomogeneità della comunità politica sulla quale esso poggia, alle sfide della globalizzazione, delle istituzioni sovranazionali e dei movimenti internazionali, alle diffuse e diversificate istanze delle identità territoriali che lo compongono.
Silvio Salvaci
18/04/08
La fine dello Stato e le prospettive Federaliste
Per certi aspetti lo studioso delle questioni politiche è una sorta di profeta del passato. Al di là di ricordare eventi ed episodi accaduti, circostanze e vicende dimenticate, il suo compito è infatti quello di distanziarsi dalla cronaca per cogliere in profondità gli indicatori privilegiati del presente e inserirli in una prospettiva più ampia. È con questa consapevolezza che bisogna leggere la “Breve storia del futuro” di Jacques Attali, ex consigliere di Mitterrand, primo presidente della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo e attuale presidente – su incarico di Sarkozy – della Commissione sui Freni alla Crescita.
Le previsioni per il futuro dello Stato elaborate da Attali sono davvero fosche. Nel breve volgere di pochi decenni, tra il 2035 e il 2060, lo Stato nazionale scomparirà, lasciando il posto alla generalizzata affermazione, su scala planetaria, della “iperdemocrazia”; si tratta di un processo che si configura come “l’insediamento di un governo mondiale democratico” affiancato da “un complesso di istituzioni locali e regionali”. Il ragionamento di Attali va ben oltre il paradigma “glocal” formalizzato qualche anno fa come rapporto dialetticamente bipolare tra la globalizzazione e il localismo; è più complesso poiché prevede il dominio dell’iperimpero, al quale seguirà l’iperconflitto, preludio dell’iperdemocrazia. Attorno al 2050 gli Stati si “indeboliranno” e poi “si eclisseranno di fronte alle imprese e alle città”.
L’idea di un futuro caratterizzato dall’arretramento dello Stato e dall’emergenza delle realtà locali l’aveva già elaborata, parecchi anni fa, Gianfranco Miglio. Il politologo comasco, nelle ultime righe di un importante saggio dell’inizio degli anni Ottanta, aveva infatti affermato che, di fronte alla crisi della statualità, il futuro conduceva ineluttabilmente a un ritorno dei municipalismi e delle realtà cetuali: «dare un assetto funzionale al nuovo ‘Stato per ceti – cioè trovare le regole, i meccanismi e le procedure, in cui incanalare le forze che oggi si accavallano turbolente – sarà compito che privilegierà, nell’immediato futuro, l’ingegneria costituzionale e le riforme costituzionali». Indubbiamente, la forma-Stato rappresenta la più grande invenzione – per Miglio il “capolavoro” – dell’Occidente. E come tale è stata esportata nel corso del Ventesimo secolo, ispirando l’organizzazione delle comunità politiche: i 59 Stati riconosciuti a livello internazionale nel 1900 sono divenuti 96 nel 1954 e 193 nel 2004. Contestualmente, però, è cresciuto anche il numero degli Stati “falliti”, quelli cioè che sono scomparsi, inghiottiti dal divenire della storia, per esempio a seguito dei mutamenti connessi al crollo del Muro di Berlino – ma non solo – che hanno portato alla nascita di numerose realtà statuali dalle dimensioni più piccole, autonome e indipendenti. Questo è il dato rilevante.
L’economia globalizzata e le organizzazioni sovranazionali (per esempio l’Unione europea), ma anche il terrorismo internazionale e i movimenti di opinione (no global, ambientalisti ecc), aggrediscono lo Stato sul piano esterno. Mentre sul piano interno, le differenze territoriali e una pluralità di istanze diffuse, più “a misura di cittadino”, provocano un’erosione della sua prerogativa essenziale, la sovranità. Insomma, è sotto gli occhi di tutti la crisi di funzionalità dello Stato, nel suo ultimo “volto” – dopo quello assoluto (1500-1600) e quello costituzionale (1700-1800) – che è la versione democratico-liberale. Essa infatti presuppone ed esige – come del resto ogni regime politico – una sostanziale omogeneità politica al suo interno, quella dello Stato-nazione. E va apertamente in crisi laddove questa omogeneità non vi è e non caratterizza l’essenza dell’ordine politico.
La crisi dello Stato, dunque, è crisi della democrazia liberale. Forse – e quasi paradossalmente – il Muro di Berlino è caduto addosso all’Occidente, nel senso che ha impedito agli analisti di concentrarsi sulle grandi contraddizioni delle democrazie rappresentative di massa d’ispirazione liberale, che non producono più consenso. La delegittimazione consensuale dello Stato deriva dalla sua incapacità di governare la complessità sia sul piano internazionale, sia sul piano interno (ogni cittadino ovvero ogni nucleo di cittadini pone quotidianamente le condizioni del proprio vincolo contrattuale sul quale si basa il consenso). La crisi e la polverizzazione delle identità nazionali, dal punto di vista culturale, mina alla base la legittimità dello Stato centrale, delle sue procedure di governo e di determinazione dell’indirizzo politico, poiché viene meno la lealtà dei cittadini e la loro disponibilità a ubbidire ai suoi ordini e a servirlo con senso di responsabilità.
Com’è noto, esistono diverse “temperature” di democrazia; è parimenti noto che, più ci si avvicina al più basso livello territoriale più c’è democrazia, perché più forte è il rapporto tra i cittadini e le istituzioni; rapporto che cementa l’aggregazione sociale della comunità politica. Insomma, l’integrità territoriale dello Stato, di fronte allo sfilacciamento e all’indebolimento dei rapporti tra i cittadini e i pubblici poteri, non è più un dato certo. Per recuperare la necessaria funzionalità è possibile varare nuove forme di articolazione istituzionale (antistatale) che siano assai più prossime alle esigenze e alle istanze dei cittadini, che rispondano con maggiore efficacia alle sue aspirazioni di autonomia e autogoverno: questo è il senso del federalismo, oggi.
La grande Storia, come ha osservato Attali, «fluisce effettivamente in un’unica caparbia direzione, molto particolare, che nessuna scossa, per quanto prolungata è riuscita fino a oggi a deviare in modo duraturo: di secolo in secolo, l’umanità impone il primato della libertà individuale su qualsiasi altro valore». La storia dell’umanità, in ultima analisi, ha sempre visto l’emergenza progressiva della persona come soggetto di diritto, impegnata a gestire il proprio destino.
Di fronte all’impersonalità e all’irresponsabilità – che sono i tratti specifici dell’attuale degenerazione dei sistemi rappresentativi sui quali si regge lo Stato, a sua volta trascinato nella crisi per effetto della labilità della sua identità politica nazionale – l’unico rimedio è quello di riscoprire le ragioni del federalismo personalista, che inchioda i governanti e i governati alle proprie responsabilità. Responsabilità di governo e degli atti connessi all’esercizio del potere per i primi; responsabilità nell’essere cittadini attivi e, dunque, apparire come un vero e proprio soggetto politico sul quale si regge la comunità, per i secondi.
La svolta federalista si configura insomma come la risposta più credibile alla crisi dello Stato – sia sul piano interno, sia sul piano esterno – che coinvolge la sua prerogativa essenziale, cioè la sovranità, di fronte alla disomogeneità della comunità politica sulla quale esso poggia, alle sfide della globalizzazione, delle istituzioni sovranazionali e dei movimenti internazionali, alle diffuse e diversificate istanze delle identità territoriali che lo compongono.
Silvio Salvaci
18/04/08