°marina°
«La riconoscevo io veramente?»
"E qui cominciava a profilarsi la questione essenziale: la riconoscevo io veramente? Secondo le foto, in certune riconoscevo una regione del suo volto, il tale rapporto del naso con la fronte, il movimento delle sue braccia, delle sue mani. Io la riconoscevo sempre solo a pezzi, vale a dire che il suo essere mi sfuggiva e che, quindi, lei mi sfuggeva interamente. Non era lei, e tuttavia non era nessun altro. L’avrei riconosciuta fra migliaglia di altre donne, e tuttavia non la “ritrovavo”. La riconoscevo differenzialmente, non essenzialmente. La fotografia mi costringeva a un lavoro doloroso; proteso verso l’essenza della sua identità, mi dibattevo fra immagini parzialmente vere, e perciò totalmente false. Dire, davanti alla tal foto, “è quasi lei!” era per me più straziante che non dire davanti alla talaltra “non è affatto lei”. Il quasi: atroce regime dell’amore, ma anche condizione deludente del sogno – è per questo che odio i sogni. Infatti, io sogno spesso di lei (anzi, sogno solo lei), ma non è mai completamente lei: nel sogno, essa ha tavolta qualcosa d’un po’ fuori posto, di eccessivo: per esempio, è giocosa, o disinvolta – cosa che invece non era mai; oppure io so che è lei, ma non vedo i suoi lineamenti (ma mi chiedo: si vede o si sa, in sogno?): sogno di lei, non la sogno. E davanti alla foto, come nel sogno, è il medesimo sforzo, la stessa fatica di Sisifo: risalire, proteso, verso l’essenza, ridiscendere senza averla contemplata, e ricominciare da capo."
(tratto da La camera chiara, Roland Barthes, 1980)
- - - -
Il testo sopra citato è un pretesto. Barthes stava parlando della madre scomparsa e della difficoltà con cui riusciva a ricordarla, a riconoscerla attraverso le fotografie che aveva conservato.
Partiamo da una giusta premessa. Non sono una storica della fotografia, nemmeno una critica fotografica e questi miei pensieri sono solo il frutto di alcune personali riflessioni attorno ad un tema che è difficilmente circoscrivibile e che forse necessiterebbe di qualche solida base teorica per poter essere affrontato per evitare di cadere in una accozzaglia farraginosa di pensieri in libertà.
A questo punto uno dovrebbe come minimo introdurre il tema. Di cosa stiamo parlando? Del mio rapporto con la fotografia? Della capacità che io attribuisco alla macchina fotografica di sapermi raccontare veramente cosa è l’uomo? Del potere evocativo delle immagini? Dell’inadeguatezza che nell’ultimo anno io ho attribuito alla fotografia nel raccontare le mie emozioni, ciò che mi circonda, gli amici, gli affetti, la natura, l’essere dell’ente, l’uomo, il dolore?
Una sorta di processo personale alla fotografia che per me si è materialmente tradotto in un passaggio all’analogico e in una drastica riduzione del numero di foto scattate. La prima scelta è stata dettata da una necessità. Ero stufa delle centinaia di migliaia di immagini che ogni giorno mi circondano. Lungi da me voler ridurre tutto ad un unico grande fascio di generalizzazioni e di demonizzazioni, ma onestamente ero stanca di vedere pixel su pixel, foto “perfette” perché abbondantemente ritoccate, foto che rincorrevano solo ed esclusivamente il tecnicismo e foto che erano state scattate solo per il gusto di stupire il pubblico degli astanti. Foto che alla fine raccontavano poco. Un amico dice che la fotografia digitale è come la pesca a strascico. Torni a casa, scarichi la scheda, ti ritrovi migliaia di immagini tra cui scegliere e ne salvi soltanto una. Sia chiaro, qui parlo di fotografia a livello amatoriale e non pretendo di giudicare il lavoro del fotografo professionista che per necessità magari è più vincolato al numero ed alla quantità. Allora ho pensato che con l’analogico avrei potuto riflettere di più mentre scattavo. Non solo per una questione di costi. Si deve comprare il rullino, poi c’è lo sviluppo e la stampa dei provini. Diciamo che se il laboratorio lavora particolarmente bene si può arrivare anche ai 15-20 euro. Quindi ciò porta necessariamente ad una maggiore attenzione. Lo scatto nasce ed avviene solo ed esclusivamente quando ne vale veramente la pena. Ecco un altro punto difficile da chiarire. Perché è evidente che questo “valere la pena” è qualcosa di assolutamente soggettivo e personale. Una immagine, una situazione che ha colpito la mia attenzione e la mia sensibilità non necessariamente può avere lo stesso impatto su altri. Io mi trovo davvero soltanto all’inizio del percorso analogico ma devo ammettere di essere molto soddisfatta, forse non tanto del risultato finale, ma della nuova calibrazione che sono riuscita a dare al rapporto tra me e la fotografia. Non voglio aprire alcuna discussione da fondamentalista religiosa su “meglio il digitale o l’analogico”. Sono due strade diverse. Né l’una è migliore dell’altra. Nascono da esigenze diverse. E tanto per saltare di palo in frasca, come se non ci fosse già abbastanza carne al fuoco, ecco l’altro argomento che si insinua improvvisamente. In questo ultimo anno ho sentito che la fotografia non mi aiutava più a conoscere. Non bastava più. Tante volte davanti ad un paesaggio, anziché estrarre la macchina, rimanevo lì in contemplazione, consapevole che il mezzo tecnologico non sarebbe riuscito a registrare l’emozione che stavo vivendo, almeno non con la stessa intensità. E questa inadeguatezza, la sento ancora più forte per ciò che riguarda il ritratto. Il ritratto fotografico può essere un inizio, ma la conoscenza dell’altro, la condivisione di emozioni sono altra cosa. Non posso di certo pretendere di avere portato con me un pezzo di un amico soltanto perché gli ho scattato una foto. Certo l’immagine mi aiuterà a ricordarlo, e poi? E’ anche per questo motivo che sono felice di non aver scattato neppure una foto durante lo scorso weekend a Firenze, quando ho incontrato alcuni amici di Flickr in carne ed ossa. Ciò che più mi ha fatto piacere è che ci siamo incontrati in primo luogo come persone e non come fotografi. Senza l’ossessione di farsi ritratti a vicenda. E allora qui si potrebbero aprire infiniti campi di domande, di critiche a quello che sto scrivendo. Ciascuno è libero di pensarla come vuole. Che rapporto si instaura tra il soggetto fotografato ed il fotografo? Quanto sforzo viene compiuto dal fotografo, e qui parlo di professionisti, per conoscere davvero l’altro? Quali sono i ritratti che ci hanno colpito di più e perché ce li ricordiamo? I ritratti dei più grandi nomi della fotografia ci trasmettono davvero l’anima del soggetto che è stato fotografato? Come faccio a misurare l’intensità? E se fosse che l’intensità del soggetto fotografato è strettamente connessa a quella del fotografo, alla sua poetica, al modo in cui lui si rapporta al mondo?
Durante una discussione con mio marito, che mi chiedeva quale fosse un ritratto che mi aveva particolarmente colpito, ho scandagliato nella mia mente. Avendo una buona memoria avrei potuto rispondere con facilità, eppure ho fatto fatica a trovare un ritratto che potesse rispondere alla domanda che mi era stata posta. Alla fine si è salvata soltanto una foto, vista durante la mostra di Bresson a Milano. Ancora ricordo dove era stata appesa nell’allestimento a Forma. La ricordo nitidamente e ricordo benissimo l’espressione dei due coniugi Curie che furono ritratti da Bresson. Ho visto tante altre mostre di fotografi che sono stati consacrati come grandi ritrattisti. Eppure soltanto quella mi appare ancora davanti agli occhi della memoria con una incredibile nitidezza. Non saprei spiegare il perché. Qui probabilmente bisognerebbe invocare l’aiuto di chi conosce questi argomenti con più profondità. Io mi sono semplicemente limitata a registrare dei cambiamenti personali, senza la pretesa di avere ragione. Tante altre cose potrebbero essere scritte. Per il momento mi fermo qui e ringrazio Gianluca per aver stimolato queste riflessioni familiari in seguito alla sua “foto non scattata”.
«La riconoscevo io veramente?»
"E qui cominciava a profilarsi la questione essenziale: la riconoscevo io veramente? Secondo le foto, in certune riconoscevo una regione del suo volto, il tale rapporto del naso con la fronte, il movimento delle sue braccia, delle sue mani. Io la riconoscevo sempre solo a pezzi, vale a dire che il suo essere mi sfuggiva e che, quindi, lei mi sfuggeva interamente. Non era lei, e tuttavia non era nessun altro. L’avrei riconosciuta fra migliaglia di altre donne, e tuttavia non la “ritrovavo”. La riconoscevo differenzialmente, non essenzialmente. La fotografia mi costringeva a un lavoro doloroso; proteso verso l’essenza della sua identità, mi dibattevo fra immagini parzialmente vere, e perciò totalmente false. Dire, davanti alla tal foto, “è quasi lei!” era per me più straziante che non dire davanti alla talaltra “non è affatto lei”. Il quasi: atroce regime dell’amore, ma anche condizione deludente del sogno – è per questo che odio i sogni. Infatti, io sogno spesso di lei (anzi, sogno solo lei), ma non è mai completamente lei: nel sogno, essa ha tavolta qualcosa d’un po’ fuori posto, di eccessivo: per esempio, è giocosa, o disinvolta – cosa che invece non era mai; oppure io so che è lei, ma non vedo i suoi lineamenti (ma mi chiedo: si vede o si sa, in sogno?): sogno di lei, non la sogno. E davanti alla foto, come nel sogno, è il medesimo sforzo, la stessa fatica di Sisifo: risalire, proteso, verso l’essenza, ridiscendere senza averla contemplata, e ricominciare da capo."
(tratto da La camera chiara, Roland Barthes, 1980)
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Il testo sopra citato è un pretesto. Barthes stava parlando della madre scomparsa e della difficoltà con cui riusciva a ricordarla, a riconoscerla attraverso le fotografie che aveva conservato.
Partiamo da una giusta premessa. Non sono una storica della fotografia, nemmeno una critica fotografica e questi miei pensieri sono solo il frutto di alcune personali riflessioni attorno ad un tema che è difficilmente circoscrivibile e che forse necessiterebbe di qualche solida base teorica per poter essere affrontato per evitare di cadere in una accozzaglia farraginosa di pensieri in libertà.
A questo punto uno dovrebbe come minimo introdurre il tema. Di cosa stiamo parlando? Del mio rapporto con la fotografia? Della capacità che io attribuisco alla macchina fotografica di sapermi raccontare veramente cosa è l’uomo? Del potere evocativo delle immagini? Dell’inadeguatezza che nell’ultimo anno io ho attribuito alla fotografia nel raccontare le mie emozioni, ciò che mi circonda, gli amici, gli affetti, la natura, l’essere dell’ente, l’uomo, il dolore?
Una sorta di processo personale alla fotografia che per me si è materialmente tradotto in un passaggio all’analogico e in una drastica riduzione del numero di foto scattate. La prima scelta è stata dettata da una necessità. Ero stufa delle centinaia di migliaia di immagini che ogni giorno mi circondano. Lungi da me voler ridurre tutto ad un unico grande fascio di generalizzazioni e di demonizzazioni, ma onestamente ero stanca di vedere pixel su pixel, foto “perfette” perché abbondantemente ritoccate, foto che rincorrevano solo ed esclusivamente il tecnicismo e foto che erano state scattate solo per il gusto di stupire il pubblico degli astanti. Foto che alla fine raccontavano poco. Un amico dice che la fotografia digitale è come la pesca a strascico. Torni a casa, scarichi la scheda, ti ritrovi migliaia di immagini tra cui scegliere e ne salvi soltanto una. Sia chiaro, qui parlo di fotografia a livello amatoriale e non pretendo di giudicare il lavoro del fotografo professionista che per necessità magari è più vincolato al numero ed alla quantità. Allora ho pensato che con l’analogico avrei potuto riflettere di più mentre scattavo. Non solo per una questione di costi. Si deve comprare il rullino, poi c’è lo sviluppo e la stampa dei provini. Diciamo che se il laboratorio lavora particolarmente bene si può arrivare anche ai 15-20 euro. Quindi ciò porta necessariamente ad una maggiore attenzione. Lo scatto nasce ed avviene solo ed esclusivamente quando ne vale veramente la pena. Ecco un altro punto difficile da chiarire. Perché è evidente che questo “valere la pena” è qualcosa di assolutamente soggettivo e personale. Una immagine, una situazione che ha colpito la mia attenzione e la mia sensibilità non necessariamente può avere lo stesso impatto su altri. Io mi trovo davvero soltanto all’inizio del percorso analogico ma devo ammettere di essere molto soddisfatta, forse non tanto del risultato finale, ma della nuova calibrazione che sono riuscita a dare al rapporto tra me e la fotografia. Non voglio aprire alcuna discussione da fondamentalista religiosa su “meglio il digitale o l’analogico”. Sono due strade diverse. Né l’una è migliore dell’altra. Nascono da esigenze diverse. E tanto per saltare di palo in frasca, come se non ci fosse già abbastanza carne al fuoco, ecco l’altro argomento che si insinua improvvisamente. In questo ultimo anno ho sentito che la fotografia non mi aiutava più a conoscere. Non bastava più. Tante volte davanti ad un paesaggio, anziché estrarre la macchina, rimanevo lì in contemplazione, consapevole che il mezzo tecnologico non sarebbe riuscito a registrare l’emozione che stavo vivendo, almeno non con la stessa intensità. E questa inadeguatezza, la sento ancora più forte per ciò che riguarda il ritratto. Il ritratto fotografico può essere un inizio, ma la conoscenza dell’altro, la condivisione di emozioni sono altra cosa. Non posso di certo pretendere di avere portato con me un pezzo di un amico soltanto perché gli ho scattato una foto. Certo l’immagine mi aiuterà a ricordarlo, e poi? E’ anche per questo motivo che sono felice di non aver scattato neppure una foto durante lo scorso weekend a Firenze, quando ho incontrato alcuni amici di Flickr in carne ed ossa. Ciò che più mi ha fatto piacere è che ci siamo incontrati in primo luogo come persone e non come fotografi. Senza l’ossessione di farsi ritratti a vicenda. E allora qui si potrebbero aprire infiniti campi di domande, di critiche a quello che sto scrivendo. Ciascuno è libero di pensarla come vuole. Che rapporto si instaura tra il soggetto fotografato ed il fotografo? Quanto sforzo viene compiuto dal fotografo, e qui parlo di professionisti, per conoscere davvero l’altro? Quali sono i ritratti che ci hanno colpito di più e perché ce li ricordiamo? I ritratti dei più grandi nomi della fotografia ci trasmettono davvero l’anima del soggetto che è stato fotografato? Come faccio a misurare l’intensità? E se fosse che l’intensità del soggetto fotografato è strettamente connessa a quella del fotografo, alla sua poetica, al modo in cui lui si rapporta al mondo?
Durante una discussione con mio marito, che mi chiedeva quale fosse un ritratto che mi aveva particolarmente colpito, ho scandagliato nella mia mente. Avendo una buona memoria avrei potuto rispondere con facilità, eppure ho fatto fatica a trovare un ritratto che potesse rispondere alla domanda che mi era stata posta. Alla fine si è salvata soltanto una foto, vista durante la mostra di Bresson a Milano. Ancora ricordo dove era stata appesa nell’allestimento a Forma. La ricordo nitidamente e ricordo benissimo l’espressione dei due coniugi Curie che furono ritratti da Bresson. Ho visto tante altre mostre di fotografi che sono stati consacrati come grandi ritrattisti. Eppure soltanto quella mi appare ancora davanti agli occhi della memoria con una incredibile nitidezza. Non saprei spiegare il perché. Qui probabilmente bisognerebbe invocare l’aiuto di chi conosce questi argomenti con più profondità. Io mi sono semplicemente limitata a registrare dei cambiamenti personali, senza la pretesa di avere ragione. Tante altre cose potrebbero essere scritte. Per il momento mi fermo qui e ringrazio Gianluca per aver stimolato queste riflessioni familiari in seguito alla sua “foto non scattata”.