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De profundis

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Entro in un salone oscuro, più ampio dei meandri bui con cui finora ho familiarizzato. Queste vene di alabastro giallo che marezzano le pareti e sprofondano nelle acque scure hanno una bellezza ipnotica. Attendo in basso il mio compagno calarsi su una corda che interseca la linea delle cateratte, pensando che, una volta scesi in queste gole, non potremo ritornare da dove siamo venuti.

Non parliamo molto; nel fragore di cascate alcuni segni con le mani sono sufficenti per capirsi, recuperare le corde e rimettersi in cammino.

Sul lago era stata eretta una diga 70 anni fa, e da allora il suo fondo non era mai stato pulito. Quest’anno hanno svuotato il bacino dalla paratoia inferiore, liberando tutti quei sedimenti che per anni si erano accumulati sul fondo. A valle della diga, la forra è così angusta e spigolosa che il deflusso completo dei sedimenti avrebbe richiesto abbondanti precipitazioni. Era arrivato il momento di andare ad esplorare il torrente e valutare il danno che i fanghi avevano provocato sul suo ecosistema.

Proseguendo nel cammino affioravano dei curiosi ed antichi oggetti, reliquie -o forse rifiuti-, che facevano ritornare alla mente la vita che negli anni passati aveva popolato la sponda del lago. Una vecchia bicicletta, la cui miseria faceva passare la voglia di pedalare, lo scheletro di un ombrello, curiosamente inforcato su uno spuntone di roccia, un’automobile. Un’automobile? Si, una Fiat arrugginita ed accartocciata, incastrata a cinque metri di altezza tra le rocce in uno stretto meandro. Un arco futurista sotto il quale il passaggio è obbligatorio. Alcuni abitanti ricordano un incidente in cui anni fa un giovane perse il controllo dell’auto finendo nella forra.

Il rumore bianco delle cascate riempiva di echi le cavità del canyon ed entrava nella testa con un fragore rassicurante e continuo. Lo scorrere delle cose di cui parlava Eraclito ha un suono preciso: il motore del divenire è quello delle moli di acqua che incessantemente scrosciano, diventano vapore, si inabissano nel profondo delle gole scure, rilucono sulle rocce nere, cercano la loro strada e riemergono alla luce, quando la via è ormai segnata dal fiume, un solco luminoso come il cielo, che spezza l’orizzonte della terra.

Continuiamo a scendere. Ai bordi delle pozze troviamo delle ricorrenti scatolette di tabacco da fiuto. Anche queste sono un segno della vita in superficie: qualcuno che abita là sopra, sniffa tabacco e ne getta scatole e scatole nella gola. Dalla prospettiva di chi abita in superficie, non si percepisce la monumentalità delle rocce scavate dalle acque di questo canyon; la fama della forra è comunque per tutti sinistra. Le gole non hanno fondo ed entrarci significa non uscire mai più. Questi sono i posti dove vivono le Aganis, le ninfe dei torrenti che nelle notti di luna piena escono dall’acqua ed hanno il potere di fare sognare i bambini. Sono solchi di tenebra dove anche gli oggetti, che pensiamo ci appartengano, spariscono per sempre. Non è un abisso fatto per l’uomo.

Poco più avanti, mentre scendo alcune rocce per calarmi in una pozza, lo vedo, accovacciato nel buio sopra me. Un insettoide lungo 4 metri, nero, lucido, che con i suoi tentacoli sfiora la pozza poco sopra la mia spalla. Lo osservo inquieto, è un alieno mostruoso: una creatura statuaria composta da un tronco di legno incastrato tra le rocce, le sue radici sembrano zampe ed antenne che scrutano nel buio.

Viste dal profondo, veramente da vicino, le paure si manifestano come grotteschi ma innocui spaventapasseri dell’aspetto selvatico e disumano.

Oggi l’inesplorato sembra restare in pochissimi luoghi, accessibili solo a chi possiede le chiavi dei cancelli chiusi contro i quali le strade della terra si interrompono. Ma ecco che, in un mondo nel quale tutti diamo per scontata l’esistenza della realtà raffigurata negli Atlanti, se ci viene il paradossale dubbio che la Mauritania non esista (in fin dei conti chi ci è mai stato?), o che quel sentiero dietro casa porti in un luogo nuovo, allora le frontiere dello sconosciuto non sono più illimitate, ma si sgonfiano e prendono le pieghe di vestiti sulle nostre pelli. Ed ecco che non siamo più noi a dover cercare l’inesplorato, ma sono i nostri confini ad avvicinarsi a noi in un collasso del mondo. Basta un passo per superare le colonne di Ercole: cambiare strada per andare al lavoro, rivolgere la parola ad uno sconosciuto, acquistare un biglietto di sola andata, violare i tabù, entrare nel buio delle gole dove nascono i fiumi.

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Uploaded on September 6, 2010
Taken on September 2, 2010