vincent teriaca
Drag to set position!
non rinunciare mai prima si avere realizzato ciò che stavI cercando di fare!
Vincent Teriaca, l’immersione TOTALE nella realtà
Vincent Teriaca è un artista della luce. La sua lunga ricerca, partita dalla fotografia tradizionale per approdare ultimamente a quella digitale, lo ha portato a sperimentare colori, forme, accostamenti desueti, ma soprattutto a scoprire nella fonte della luce il suo tema dominante. In effetti il senso etimologico di fotografia in greco vuol appunto significare «scrittura con la luce».
Che cosa sono le sue straordinarie immagini se non un diario dei cambiamenti repentini di luce, dello splendore delle nuvole, mitici eldorati, di oggetti che per la grazia d’un bagliore, di una raggiera di sole, sfuggono dall’ambito quotidiano e assurgono a una dimensione “altra”, magica, fiabesca. Scrive Rilke: «Se la vostra vita quotidiana sembra povera non l’accusate; accusate voi stesso, che non siete assai poeta da evocarne la ricchezza; ché per un creatore non esiste povertà né luoghi poveri e indifferenti», qui riferito ad un poeta ma la cosa vale per tutte le arti. Pensiamo in pittura alle infinite variazioni e vibrazioni delle bottiglie di Morandi o alla poesia delle finestre o degli interni del fotografo praghese di J. Sudek.
In Vincent Teriaca vi è una completa immersione nella realtà: le cose più semplici e banali riescono a farsi evento di luce, significato, poesia intima e profonda. Immagini esemplari sono i suoi umili usci, i suoi portoni contadini, che assumono valenza simbolica di “soglia”, di passaggio, di transito…
Talvolta riaffiorano le sue radici newyorkesi, soprattutto nelle elaborazioni grafiche delle immagini, con quei colori che sembrano citazioni della pop art di Andy Warhol, come nell’immagine della “Mole” che si specchia in una scacchiera di vetro e rettangoli di colori squillanti, fotografia esposta alla 54 Biennale di Venezia che Vittorio Sgarbi ha voluto trasferire a Torino nella sala Nervi. O in “Castagna”, dove un caleidoscopio cromatico dà il senso dell’infinito vibrare delle luci d’autunno.
Teriaca sfida spesso il reale per approdare ad una sorta di sogno, di visione, di côté surrealista. Un’immagine esemplare a tal proposito è “Jemina”, una foto che richiama gli “orologi molli”di Dalì, uno splendido bianco e nero con la suggestione di un tempo che si sfaccetta in crogiolo di luce.
Ma le immagini che mi hanno profondamente colpito sono quelle delle nevi. Il senso del movimento che Teriaca sa magistralmente dare alle immagini con un mosso sfrangiato ed equilibrato riproducono tutta la bellezza dei paesaggi montani ricoperti dal manto bianco dell’inverno. Bastano pochi steli rinsecchiti affioranti da dune bianche per dare il senso di una esemplare “calligrafia giapponese” o il ricamo candido d’una rete d’orto con le silhouette degli alberi sullo sfondo per evocare l’algida alchimia dell’inverno.
L’occhio del fotografo sa catturare lo spirito di un paesaggio, la visione di una realtà che non è la fedele riproduzione mimetica, ma un qualcosa di più: un misterioso cercare sotto la superficie delle cose la loro profonda essenza, il loro significare “altro”.
Torino febbraio 2012 Remigio Bertolino
Alla fine dell’ottocento parlare di fotografia, per un pittore, poteva sembrare un’offesa se non quasi una bestemmia. Come tutti gli eventi che hanno cambiato la storia umana, la fotografia parte da molto lontano tanto che i movimenti pittorici come gl’impressionisti, i cubisti e il Dadaismo ne hanno avuto impulsi e stimoli per la loro crescita, nel mondo dell’Arte.
Mai avrei potuto immaginare, o prevedere da bambino, il mio futuro… di pittore-curioso e affascinato da tutto ciò che mi ha aiutato a capire più chiaramente la vita sempre con i dubbi e le perplessità del: “non so se in questo ci sono riuscito”.
La prima fotografia importante mi è stata fatta a cinque anni. Provenendo poi da una famiglia numerosa, penultimo di dieci figli, i problemi erano talmente tanti , per causa di forze maggiori, ho dei grandi vuoti fotografici degli anni precedenti. Quella prima fotografia (quando si dice “…il caso”), ripresa in strada su una vecchia vespa dal noto fotografo Montalbano, che incontrai anni dopo superati i ventitre anni, e che in seguito volle fotografarmi durante alcuni miei incontri con Renato Guttuso e con il Cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo e altre volte in eventi culturali nella stessa città. Orgoglioso metteva in bella mostra tutte le foto che mi scattava come fosse il mio fotografo personale.
Giovanissimo mi resi conto che la fotografia poteva diventare di grande aiuto e così la foto fatta a qualsiasi soggetto-oggetto. Non avevo bisogno, ne di stare per strada con il cavalletto a riprendere un paesaggio, un monumento, un cesto di frutta di un bravo fruttivendolo; i modelli non avevano il bisogno di rimanere impalati per ore. Dopo l’avvento della macchina fotografica il pittore o ritrattista sembrava che dovesse odiarla, invece dobbiamo ringraziare questa grande invenzione perché divenne una compagna e tante volte, un’amica.
Nel 1982 mi trovavo a Taormina, per un sopralluogo di una mostra delle mie opere che la Regione Siciliana m’invitava a fare a Palazzo Corvaia. Qui rimasi folgorato, sì dalla bellezza del luogo ma rimasi soprattutto incuriosito dalle foto di Wilhelm von Gloeden, fotografo tedesco (Wismar 16 settembre 1856 – Taormina 16 febbraio 1931) che operò principalmente in Italia, lasciando come documento e testimonianza, indelebili opere del paesaggio e della popolazione del luogo. Fui influenzato a tal punto da fare un mio omaggio a questo grande fotografo, interpretando le sue foto pittoricamente. Dopo , come spesso accade in certi momenti della vita, come con le ciliegine… ne mangi una e ne mangi un’altra…;la mia mostra fu esposta a Londra e conobbi Angus Mc Bean famoso fotografo Surrealista e da lì in poi ho conosciuto molti altri fotografi con i quali ho avuto collaborazioni e dagli stessi son stato fotografato. Spesso le loro foto divennero miei soggetti dove attingevo idee per i miei dipinti.
Tutto questo per dire che non sono diventato un bravo fotografo ma uno che sa riconoscere la bella fotografia e quando mi trovo davanti a un talento di questa incredibile Arte (perché per me il fotografo non è solo colui che schiaccia il” click”) riesco a capire se lui è bravo; lo si vede subito da come destreggia e gestisce la sua camera oscura, rendendo chiare le sue idee con tutte le sorprese e emozioni di un’opera d’arte.
Vincent Teriaca, lo conosco da decenni. Nel tempo si è creata una buona amicizia e posso dire che ho apprezzato, con discrezione e a volte con distacco, il coraggio e la perseveranza d’intraprendere il percorso in questo mondo, prima con suoi studi scolastici a New York e poi a Milano. Ho seguito con interesse i suoi studi fotografici, in particolare le foto sulle guglie del Duomo del capoluogo lombardo e le foto sulle statue del Duomo con risultati notevoli, i contrasti del chiaro-scuro, del bianco e nero.
Ma come sempre succede l’artista-curioso-Vincent si è lasciato affascinare dal ritratto umano e, non solo, dedicando attenzione anche al mondo animale evolvendosi, nelle sue foto più recenti, su persone in movimento o di se stesso, correndo, rendendo in movimento tutto ciò che gli sta intorno; l’impressione che dà è di una foto mossa ma i soggetti sembra che ti vengano addosso o che sei tu ad esserne attratto.
Mi ha incuriosito molto un’immagine che sembra inizialmente costruita ad hoc…: un drappo, che è poi una bandiera americana, addosso ad una ragazza sdraiata della quale s’intravedono appena gli occhi, come fosse una ragazza orientale con il Burqa.
Questo ci dimostra quanto i concetti delle religioni possano contaminare la nostra quotidianità. Poi l’immagine acquista un significato quasi “pop” tra la bandiera; e a livello ottico da lontano vedi la forma di una scarpa da donna… un oggetto d’uso giornaliero”. Qui sta l’arte di chi riesce a far vedere tutto ciò.
Di fotografi e riferimenti curiosi ne abbiamo un’infinità, dato che il fotografo, come i pittori, è contaminato dalla quotidianità della vita, della società in evoluzione, dove l’artista: ”carpe diem”, coglie l’attimo, ed è proprio qui che il fotografo, a volte, deve superare il paparazzo.
Diceva Picasso: “io non cerco… trovo…”. E’ ovvio che quando si lavora e si sperimenta può capitare, che inaspettatamente troviamo delle soluzione che ci possono sorprendere.
Vincent, con i suoi movimenti, si aspetta di vedere delle coniugazioni che, nella posa, ferma a volte, chiara e nitida…; mentre nel movimento si possono vedere scene che stuzzicano o emozionano l’interlocutore.
Avendo visto le sue recenti opere, son rimasto affascinato e nel contempo attratto da alcune immagini a tratti molto realistiche con sconvolgimenti di contrasti astratti e con oggetti o paesaggi urbani, che danno sensazioni di luoghi nuovi, a noi sconosciuti. Qui la pittura copia la fotografia, o ne prende l’alito, ma succede che la fotografia copia e arricchisce la pittura; infatti Vincent quando riproduce su tela, fa sembrare le sue foto, da lontano, delle pitture originali, quasi impressionistiche…
Nelle sue foto-finestre riesce a dare e far vedere i suoi sogni che portano l’osservatore in un mondo irreale, confermando in tal modo quello che diceva Oscar Wilde:” La vita se la vivi tale e quale come è… diventa una grande noia!!!”
L’artista vero deve renderci indietro i sogni non solo per permetterci di tornare a sognare, magari solo per poco, ma soprattutto per farci volare…non importa se soltanto virtualmente.
Milano maggio 2014 Lorenzo Maria Bottari
Vincent was born in New York on January 15, 1965, and he first entered the world of photography at the age of 13, when he took his first photographs in the borough of Queens, and soon realised he had discovered the passion of his life. His first equipment was a Kodak instant camera and a Rolleiflex TLR, both bought on Long Island, from a market stall. His very personal process of refinement and technical development began, or perhaps we should say that it continued on a more conscious place, when he took a course in Photography at Lindenhurst Junior High School, laying the foundations for a process of refinement that later had two more important stages. In 1999, he attended the School of Visual Arts (SVA), also in New York, in order to improve his understanding of techniques and of lighting inside and outside the studio, and in 2000, he took a course in fashion photography at the European Institute of Design (Babic/Meriggi) in Milan, studying graphic elaboration and photo retouching. But like so many artists, he discovered that what he thought would be his final goal, was in fact the start of a new research. Vincent reached full professional maturity, at least in technical terms, but immediately realised that this goal did not necessarily guarantee a sense of intimate personal satisfaction with his work, or with the results that it produced and expressed. His restlessness and creative urge resurfaced, having never been entirely subdued, expressed in the form of a powerful impulse, or perhaps a lifesaving demon, which led him along the road of methodical investigation and reflection, as he searched for his latent originality, and the ways, issues and language necessary to bring it to life and make it flourish. He started to study again, perfecting and refining his skills, exploiting the new opportunities for expression provided by digital elaboration, and the use of a Nikon D7000.
He was influenced by contemporary artists, particularly Haring, Salina and Whorhol, and describes himself as part impressionist, part abstract and part pop, according to a very personal alchemy, which was fuelled by an important discovery, when he moved back to Italy with his family in 1982. Vincent's eyes and sensitivity were awakened by the cultural and artistic dimension of the Piedmontese capital first of all, then by the rest of Italy and finally by the whole of Europe, and he was moved to capture and interpret these new historical, cultural and natural horizons, so different from what he had known in New York, and to communicate them with his camera. It was the start of a powerful new passion and an overwhelming interest in any form of expression, whether it represented a dimension of objective reality, was conveyed by sculpture and architecture, or, obviously, by the genius of the great masters of painting. These were the elements that influenced his work, which embraced colour and black and white, the results of which can be described as pure art. Art in which the concept of the photograph, as a technically exemplary composition no longer exists, or rather becomes transparent, rather like the lines on a musical score which, although they support the notes, cannot be called music. Although it is sustained by very sound training, the texture of his photos does not imprison their essence or fossilise it in the formality of the expression (just as Caravaggio's technique did not mortify the light), and they come to resemble paintings. We could say that, while some ancestral beliefs claim that the photograph steals the soul of its subject, Vincent's photographs bring that soul or that sense of the moment back to life, making it more perceptible and very clear, in the features and characteristics of a very recognisable personal style. If we really wanted to classify this style, we could say that a similar stylistic and methodological training, and his personal research, has in the end excluded the option of hyper-specialisation of his tools (lens and film), favouring experimentation with any means that could effectively give visibility to his subject, whether an image, a sensation or an atmosphere, all entirely free of staticness, to celebrate and fix the movement of life and the dynamism of reality.tt
- JoinedFebruary 2011
- OccupationArtigiano
- HometownNew york
- Current cityTorino
- CountryITALIA
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