federico bianchi
Drag to set position!
L'arte mi ha quasi sempre preceduto nella vita. Mi sembrava di essere re Mida. Ogni cosa che facevo, che indossavo, cessava di avere una funzione pratica per diventare artistica. Me ne sono accorto da poco tempo. All'inizio vivevo questo fatto come una condanna, poi ho cominciato a sfruttarlo per fare arte. La vedo dappertutto, ma non mi disturba più come prima. Mi sono diplomato al conservatorio a ventiquattro anni. Dieci anni passati sul pianoforte senza mai divertirmi veramente. Da allora non ho più voluto saperne di suonare quella roba. Ma soprattutto di suonare a quel modo, con quel sistema. Dopo il diploma mi sono messo a praticare le arti marziali giapponesi e cinesi (intanto per restare in tema di arte). Almeno mi muovevo con tutto il corpo. Qui è nata la mia passione per la gestualità. Ho iniziato a dipingere da autodidatta. Ora sono più di venti anni che dipingo. Però non ho potuto non sperimentare anche altri canali. Così ho imparato a costruire e suonare il didjeridoo (grazie anche a Moreno Papi e a Paride Russo) e lo shakuhachi. Mi sono divertito a costruire boomerang (quasi un'ossessione: ne ho costruiti circa cinquecento). Ogni tanto faccio della scultura. Uso quasi sempre legno. Tutto quanto ho appena elencato è il mio lavoro da diversi anni. Cerco di fare di tutto, non scarto quasi nulla. Voglio imparare da tutto. Ho lavorato anche in un istituto geriatrico per un anno. E mi sono ritrovato a contemplare gli escrementi che mi capitava di dover toccare (coi guanti); anche lì ci vedevo un nonsochè di creativo, nella consistenza, nel colore mah.. L'anno che seguiva l'ho passato a dipingere quadri usando solo il marrone...il mio periodo marrone. L'arte è totale.
La pagina del mio blog è:federicobianchi33.blogspot.com
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Altri video:
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MY RESEARCH. LA MIA RICERCA ARTISTICA
Inizialmente dipingevo come fanno più o meno tutti; il soggetto, il pennello, il disegno prima ed i colori poi.
Il tutto per arrivare a dare la sensazione del vero.
Per tanto che mi fossi sforzato, non riuscivo a capire come si potesse evolvere il tipo di pittura che facevo.
Mi immaginavo un modo celebrale per modificare, per sintetizzare i tratti, le immagini.
Ancora non me ne accorgevo, ma stavo mirando proprio nella direzione sbagliata.
Inseguivo una pittura che immaginavo diversa da quella che avevo sotto gli occhi.
Inseguivo un sogno.
Un sogno di altri.
La mia strada, anche se a volte è stata tortuosa e scomoda, l'ho trovata quando ho smesso di cercarla per esclusione.
Invece di sforzarmi di avere uno stile diverso da quello degli altri, ho semplicemente guardato sotto i miei piedi.
Si è trattato di osservare quello che facevo, e di rendermi conto, questa volta onestamente, di ciò che, tra tutta la pittura che buttavo sulla tela, volevo veramente dire.
Allora, intanto mi rendevo conto che mettevo troppa roba.
Dicevo molto, ma molto di più del necessario. Dicevo troppo.
Dovevo smagrire, togliere, alleggerire.
In pratica: dipingere solo ciò che volevo veramente.
Così facendo, mi accorgevo di non potermi affidare completamente al soggetto da dipingere; il significato di uno stesso soggetto sembrava cambiare a seconda del mio umore.
Dovevo per forza interiorizzare il soggetto e ributtarlo fuori bello che digerito.
Ma allora non parlavo più del soggetto, ma di "me".
Ecco, è stato in quei momenti di digestione, che ho iniziato a prendere possesso del mio gesto.
O meglio, di un modo di muovermi più mio.
C'era però una cosa che non mi convinceva.
Se dipingevo una casa, o una mela o un corpo umano, il mio tratto rimaneva sempre subordinato al soggetto.
Se invece non tenevo a nessun soggetto, la mia mano poteva andare ovunque; ma dove? A caso?
Ma allora anche un delinquente è autorizzato a fare ciò che vuole.
È questa al libertà creativa?
Sono d'accordo che in arte si può benissimo rappresentare la propria malattia (non si fa del male a nessuno, almeno credo…..), ma vogliamo continuare a fare i malati?
Personalmente credo che la libertà abbia delle leggi.
Certo, sono leggi particolari alle quali, se ci si adegua si è liberi, mentre se non ci si adegua ci si trova prigionieri di qualcosa.
E penso che sia così in tutto, anche in arte.
In fondo mi sembrava che il rapporto col soggetto esterno avesse qualcosa da insegnarmi in termini di principi armonici.
Infatti succedeva che, a volte, mentre cercavo di studiarmi un gioco di luci e ombre, avvertissi dei momenti di conflittualità.
E questa sensazione mi dava ai nervi.
Da una parte avrei voluto essere totalmente libero, dall'altra non volevo perdere quell'armonia che il soggetto mi suggeriva.
A questo punto è entrato in gioco un esercizio che già avevo coltivato in passato; una dinamica esecutiva che, più che a noi, appartiene all'estremo oriente, più precisamente al Giappone antico.
Si tratta di un metodo per arrivare ad essere liberi di agire in modo creativo.
Per noi occidentali, abituati a concepire la libertà creativa come l'apoteosi dell'anarchia più estrema, appare impossibile affiancare metodo con creatività.
Però, a pensarci un attimo, è come affiancare legge con libertà.
I due termini sono inconciliabili solo in apparenza in quanto si converrà che, se un individuo si sente libero di mettere la mano sul fuoco e ci prova, apprenderebbe quasi immediatamente una legge che, con poche eccezioni, stabilisce che il fuoco brucia anche la carne.
Ora, nella pratica giapponese del kiudo, ossia il tiro con l'arco, viene insegnato a non "mirare" mai il bersaglio, ma si viene sottoposti ad un allenamento a prima vista noiosissimo, durante il quale si fa di tutto, ma non si tira una freccia che sia una!
Successivamente (dopo un tempo comunque molto lungo) si inizia a scoccare la prima freccia contro un bersaglio distante tre metri; il tutto obbedendo ad una sequenza di movimenti, già curata nei particolari, che non ammette la minima interferenza soggettiva. I movimenti sono quelli e basta.
Poi, dopo molto tempo, si passa a scoccare le frecce verso il bersaglio lontano.
Ma, a questo punto, non si cercherà di mirare al centro del bersaglio esterno, ma, concentrandosi sulla sequenza di movimenti appresa, si mira al centro di se stessi.
(C'è un bellissimo libretto intitolato "lo zen e il tiro con l'arco" che vale la pena di studiarsi)
In sostanza, se si arriva ad eseguire la sequenza di movimenti in modo sciolto e naturale ( il che presuppone di averla appresa oltre la perfezione), il fare centro nel bersaglio diviene una conseguenza dell' essere riusciti a fare centro in se stessi.
Però, mentre un arciere che fa partire la sequenza di movimenti dal centro di se stesso non può che fare centro nel bersaglio esterno, non è detto che un arciere che centra il bersaglio esterno dopo averlo mirato per bene, abbia, come conseguenza, fatto centro anche in se stesso.
Da questo ero giunto a convincermi che, per prima cosa dovevo ritrovare l'armonia al mio interno, così, per conseguenza, sarei riuscito ad esprimerla sui miei dipinti.
Non volevo trovarmi un talento ipertrofico e, come persona, rimanere un sottosviluppato.
Quella sensazione fastidiosa di conflittualità che vivevo, a questo punto mi accorsi che non era altro se non la mia condizione disarmonica che si rapportava all'armonia che percepivo nel soggetto.
Una volta visto questo, sapevo anche da che parte stare.
Il mio conflitto andava vissuto. Fino in fondo.
Solo così, pensavo, avrei potuto andare oltre e riconoscermi non più nel mio aspetto disarmonico, ma nella mia armonia.
Esistevano momenti durante i quali non avvertivo separazione tra me e il soggetto che interpretavo.
I miei gesti scaturivano naturali e al contempo in armonia col soggetto.
Allora si è fatta strada l'idea, poi divenuta una convinzione, che le leggi che governano l'armonia sono le stesse sia dentro che fuori di me.
Qui sentivo l'informale ed il figurativo unirsi in un'unica realtà.
Troppo spesso ho visto pittori informali cadere rovinosamente sulla copia dal vero.
Oppure realizzare ottime copie dal vero da pittori che franavano banalmente sul dover tracciare due righe due in totale libertà.
Perché? Mi domandavo.
Perché questo divario?
Così, seguendo questo sentiero, che io parta da un gesto informale o da una copia dal vero, alla fine, ciò che dovrei percepire realmente è armonia.
Una legge che mi trapassa, alla quale appartengo e che, allo stesso tempo, mi appartiene.
Una legge che unisce il dentro ed il fuori; nella quale l'unica cosa che è veramente di troppo, sono solo io. E se proprio devo attribuire una utilità a questo "io", potrei dire che fa da limite per definire il "dentro" e il fuori da me.
Ma questo non mi bastava.
Non mi andava l'idea di poter correggere a mio piacimento un mio tratto riuscito male.
Come potevo perdonarmi la distrazione che mi portava a sbagliare il tratto?
Non sopportavo l'andare per tentativi.
Non mi piaceva la formula del "tento e spero, già tanto poi, casomai, correggo".
No, piuttosto preferivo quella del "parto e vado dove veramente voglio".
Preferivo concentrare il gesto in poche possibilità, percependone il rischio d'impresa.
Così, da una pittura ad olio sono passato all'acrilico e poi all'acquerello.
Quest'ultimo offre poche possibilità di correzione, ma non mi era sufficiente.
Allora mi sono dato alla carta di riso.
Questa, addirittura, non ammette tentennamenti.
Basta indugiare un po' troppo e l'inchiostro sbava e fa la macchia; e tocca buttare via tutto.
Una bella sfida.
Qui sentivo di avere una sola possibilità.
Questa condizione mi manteneva "all'erta" e mi soddisfaceva abbastanza.
Ora, quelli che io chiamo pittogrammi li posso considerare come lo "scheletro" di un eventuale quadro figurativo, ma poiché contengono già tutti i principi armonici che conosco, li posso anche ritenere lavori computi, ai quali ,non c'è da aggiungere altro.
Rappresentano il mio attuale livello di conoscenza armonica.
L'ostacolo che mi si poneva davanti, a questo punto, era di natura visiva, ossia:
tracciando la prima linea ero in piena aderenza con l'emozione, ma al momento di tracciare la seconda ero già distratto dal risultato estetico che avevo di fronte.
Ero condizionato dal dover tracciare una linea che stesse bene con la prima, così mi scollavo dall'emozione di partenza.
Avrei voluto partire e terminare, e poi, alla fine di tutto il processo, guardare.
Così, non riuscendo a sganciarmi da questa abitudine, mi sono messo alle strette da solo.
Ho pensato di farmi scattare delle pose lunghe nel buio, utilizzando come pennello una lampada chimica.
Nel buio, con l'aiuto del fotografo, cerco prima di memorizzare fisicamente i limiti della mia inquadratura (il corpo ha una memoria formidabile), dopo di che, al mio via, il fotografo scatta e io parto disegnando un pittogramma su questa superficie invisibile.
Nel buio, non potendo vedere i risultati di ciò che faccio, sono costretto a rimanere aderente a ciò che voglio fare, che deve essere tutt'uno con ciò che sto facendo.
Terminato il pittogramma davo lo "stop" e il fotografo chiudeva la posa.
Al procedere lentamente della lampada corrisponde una linea intensa, più il movimento è veloce e più la linea apparirà sbiadita.
Inoltre, se si usa la lampada "di punta" si avrà una linea sottile, mentre se la si usa piatta, apparirà una linea larga.
Ovviamente, ottenere una linea intensa e uniforme è più difficile che farne una sbiadita.
L'andare lentamente in modo uniforme senza tentennamenti richiede un certo controllo del movimento, cosa che non si evidenzia nel muoversi velocemente.
video:
it.youtube.com/watch?v=V4_CLDN7G_A
Il risultato è stato un carnè di 100 immagini fotografiche, che sono la rappresentazione "permanente" di 100 momenti irripetibili.
Permanente perché la formazione dell'immagine avverrebbe seguendo le medesime leggi sulla retina di uno spettatore che sta al posto della fotocamera, solo che in quest'ultimo caso l'immagine sarebbe impermanente.
Quelli che ho chiamato pittogrammi si trovano alla fine dell'elenco di immagini da me presentate.
Questa, quindi, non è da considerare fotografia ma gestualità.
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